Giro 2000

  La catena di Sant'Alessandro

Senza nulla togliere all’impresa di Francesco Casagrande nella 9ª tappa Prato-Abetone del Giro 2000, l’Empolitour celebra nello stesso giorno l’impresa non meno eroica di Alessandro Pelagotti che ha origine proprio nello stesso punto della salita di S.Pellegrino in Alpe in cui poche ore dopo il conterraneo campione sferrerà l’attacco decisivo. Ma procediamo con ordine cercando di trovare una misura fra la meritata enfasi e l’imparzialità della cronaca. L’Empolitour aveva inserito nel programma ufficiale una estemporanea visita al Giro in una delle rare occasioni in cui una tappa di vera montagna viene organizzata in Toscana. La durezza del percorso e la giornata lavorativa causano però numerose diserzioni in primis quella di Caparrini che, sommerso a suo dire da compiti e bilanci, saluta (sempre a suo dire senza rimpianti) i cinque partenti Chiarugi, Magnani, Nucci, Pagni e Pelagotti che provocatoriamente si presentano in sede con biciclette esposte prima del trasferimento automobilistico verso Chifenti. Priva dell’apporto moderatore del presidente, la truppa diventa come una nave senza nocchiero in gran tempesta. Le principali regole comportamentali non scritte dell’Empolitour saranno violate, prima fra tutte quella che prevede limiti di velocità nell’avvicinamento alle salite. Manca soltanto la volata all’Intergiro di Castelnuovo di Garfagnana (perché non era stato ancora montato lo striscione) per rendere più forsennata l’andatura in partenza. Quando a Campori comincia l’ascensione di S.Pellegrino in Alpe ci si può finalmente rilassare. La pendenza di questa stradina, che per dieci chilometri è normalmente severa, negli ultimi quattro mostra tratti di inaudita ferocia; chi già li conosce o li evita o li pregusta, chi non li conosce rimane allibito o piantato. Tre infatti sono le categorie di ciclisti che salgono per assistere alla tappa: i puri, disposti ad immolarsi sulla bicicletta pur di non calpestare la cruenta polvere, gli sprovveduti, che sono atterriti ed atterrati da quelle anguste pareti d’asfalto o che più semplicemente si rassegnano alla loro inanità e proseguono tenendo per mano il recalcitrante mezzo che sovente li disarciona (si vedono anche sprovveduti previdenti muniti di ciabatte) e i furbi, che arrivano al GPM per la via del passo delle Radici (detta anche tangenziale dei bubboni). I nostri cinque appartengono ovviamente alla prima categoria ma la purezza di spirito nulla può di fronte alle trame ineluttabili del fato. La densità di popolazione sulla strada aumenta chilometro dopo chilometro. Le mamme dei numerosi scooteristi e dei poliziotti che li lasciano transitare ricevono epiteti poco gentili da parte dei ciclisti che rimangono più volte bloccati in ingorghi più degni di un’uscita dallo stadio che di una nobile manifestazione. Nucci si trova nel suo habitat naturale e si divincola agilmente fra i pedoni, Chiarugi sale con una mano sola fischiando con le dita dell’altra (non per ostentare immodestia ma per sfollare la strada), Magnani si rammarica per l’inaspettata facilità del percorso (sic), Pagni procede emettendo urlacci misti a sbuffi e infine passa il pugnace Pelagotti. Ha tirato allo spasimo in pianura, ha sprintato ai traguardi volanti, ha attaccato la salita con l’esuberanza dell’esordiente tenendo testa ai più leggeri compagni e a questo punto sarebbe solito scoppiare. Ma si sa che la bicicletta per un cicloamatore puro è un estensione del corpo e dell’anima. Essa condivide le sofferenze di chi la governa, si bagna con lo stesso sudore del ciclista e subisce silenziosa le sue ingiurie. La bicicletta di Pelagotti evidentemente aveva sofferto abbastanza. La catena, che trasferisce alle ruote l’irruenza dei possenti colpi di pedale, cede sul primo muro e si spezza in due come il tendine di Ronaldo. Il dolore è atroce ma il giovane rampollo non si perde d’animo e continua a salire spingendo con una mano l’esanime bicicletta e brandendo con l’altra l’untuosa ferraglia come per sbandierare alla folla la propria innocenza per un comportamento altrimenti ignominioso. Sulla gelida vetta intanto è rimasto ad aspettarlo il solo Pagni mentre gli altri tre violano colpevolmente la regola aurea dell’attesa valicando il passo senza soluzione di continuità ed avviandosi verso la rilassante e soleggiata salita dell’Abetone. Pelagotti come un chirurgo di guerra riesce con mezzi di fortuna a suturare la catena e ripartire verso la meta più irruente e rabbioso che pria. Pagni lo assiste passivamente trangugiando vari panini con la porchetta mentre i tre innominabili reprobi, con ansia e tardivo rimorso, sono impegnati in degustazioni gratuite presso uno stand gastronomico in un clima da sagra paesana. Quando Pelagotti arriva dopo un’ora all’Abetone ha ancora addosso tutti i segni del duro cimento. Il corpo e gli indumenti sono cosparsi di una mistura di sudore e morchia, gli angoli della bocca sono impastati di bava condensata, il suo aspetto è insomma ripugnante ma egli appare comunque felice, quasi esaltato. A noi testimoni non resta che commentare alla ripetitiva maniera di De Zan (chapeau !) e chiudere qui la cronaca rinunciando alla descrizione di altri episodi che ormai sono ricorrenti nella storia dell’Empolitour alle grandi corse a tappe (affannosa ricerca di indeglutibili e assetanti cibarie, calca presso minuscoli televisori, pennichella di Pagni in costume da bagno, incagli a croce uncinata per ripartire e ritorno a tutto fuoco verso la macchina).

 

 

La sera del dì di festa

Dopo l’antipasto appenninico, l’Empolitour vara la sua ottava spedizione alpina al Giro col record assoluto di dieci partecipanti. Ai nove sociali Bagnoli L., Bertelli, Boretti, Caparrini, Castiglioni, Chiarugi, Nucci, Pagni e Pelagotti si aggiunge all’ultimo momento Bitossi Massimiliano, di padre ciclisticamente illustre. La macchina organizzativa è così sottoposta ad una dura prova di efficienza per coordinare tre autoveicoli, venti gambe e dieci bocche in funzione di due obiettivi comuni, due impegnative tappe che culmineranno sui passi di Fedaia e di Gavia. Si perseguono fin dall’inizio del viaggio i principi aristotelici dell’unità di luogo, di tempo e d’azione. V’è comunione di beni (cassa comune con due sottocasse viaggianti) e d’intenti (programmi rigidi, alberghi e menu prenotati). La velocità di crociera in autostrada è imposta dall’ammiraglia di Caparrini (ma Castiglioni, che pure è l’unico senza biciclette al vento, rimane sempre staccato) e le iniziative personali sono riprovate (ma Pagni si distingue per una schiacciata ripiena di pancetta affumicata consumata dopo un Magnum Double). Si arriva così, in ritardo sulla tabella di marcia, all’Hotel Cristallo di Canazei il cui aspetto esteriore ed interiore è lussuoso e rilucente come le sue tre stelle forse sottostimate. L’escalation alberghiera dell’Empolitour prelude in un prossimo alloggio al frigobar e al personale in livrea.

 

Il sabato del villaggio

Le colazioni dell’Empolitour sono eventi cinematografici, non solo perché esiste un archivio ricco di filmati sull’argomento ma, come in questo caso, perché si svolgono in scenografie spettacolari con un rapido susseguirsi di scene d’azione e di effetti speciali. Il buffet è preso d’assalto. I vassoi carichi di croissant caldi hanno un emivita brevissima e pure quelli con salumi e formaggi non resistono a lungo. Cala a vista d’occhio il livello dei boccali di succo di frutta e quello di due tinozze colme di yogurt. Si ha l’impressione che molti mangino ben oltre il senso di sazietà sia perché sulle vette la presenza di cibo non è certa, sia perché il costo della colazione è comunque fisso e non proporzionale alle calorie acquisite. Gli ovviamente lunghi tempi di digestione ritardano la partenza e rallentano la velocità di scalata del passo S.Pellegrino che precede il temuto Fedaia. Questo ingiustificato timore è un ulteriore freno per Caparrini che riesce a farsi attendere più del solito perché nel frattempo si accorge di aver smarrito la cassa (un cartoncino piegato in due con la foto e il logo sociali, adattato al ruolo di portafoglio grazie a tasche plastificate che devono essere laboriosamente ricomposte ogni volta che, non senza difficoltà, si tenta di estrarre il denaro). A mo’ di consolazione si appella all’argomento del sorite per cui, se da una quantità illimitata (come le risorse dei membri dell’Empolitour) si sottrae una quantità limitata (come le 575.000 lire perdute), il risultato è sempre una quantità illimitata. Il primo ad attaccare il Fedaia è Boretti che si avvantaggia sul gruppo e da Malga Ciapela comincia a vedere quella strada come una crudele entità onnipotente desiderosa di sacrifici umani. Preferisce così fermarsi ed essere testimone del passaggio degli altri che sfilano tutti o quasi ad andatura pedonale. Giungerà anche lui comunque in vetta con una preoccupante facies cadaverica. Ai piedi della Marmolada i ciclisti sono accolti da un vento freddo e da una coltre di nubi non disposta a diradarsi. Pertanto Pagni, sfumata ogni speranza di meriggiare unto ed assorto, decide che per disinteressarsi alla corsa può bastare anche un confortevole locale di Canazei. Non disdegnano l’idea Boretti e Castiglioni che scendono con lui a valle. In sette rimangono ad assistere alla tappa raccogliendosi attorno ad un rudimentale braciere che riscalda l’aria e tende ad ustionare le nude cosce. Dopo meno di un’ora dal passaggio dell’ultimo corridore le tre auto sono già in partenza per attraversare quattro valli ed un passo e giungere a Ponte di Legno dove una pioggia annunciata costringe a parlare mestamente di percorsi ridotti e programmi alternativi per il giorno successivo dedicato al Gavia. Nemmeno i pizzoccheri, prenotati da mesi, sembrano dare l’adeguato buonumore alla compagnia che, prima di dormire il sonno rassegnato degli stanchi, accoglie nella passeggiata fra i due rami dell’Oglio un sedicente sessantottenne bergamasco dall’aspetto inattendibile. Il fatto che egli preveda nevicate sul Gavia è perciò di buon auspicio.

 

La quiete dopo la tempesta

I primi occhi insonni che mirano l’umido cielo mattutino ricevono qualche timido segnale di speranza. L’assenza di pioggia è sempre per il ciclista un valido motivo per partire soprattutto se, come in questo caso, le strade sono parzialmente asciutte. Data per certa la pioggia in itinere, si trattava di prevedere se il Gavia avrebbe mantenuto la sua sinistra fama meteorologica imbiancandosi come nel 1988. La verifica era rimandata dopo 90 chilometri di itinerario preliminare progettato per esplorare i 30 chilometri della vecchia strada militare fra Aprica e il Mortirolo. In questa sottile e fradicia striscia d’asfalto il gruppo rimane compatto ed estasiato, sospeso in bilico fra la Valtellina e la Valcamonica ad un’altitudine fra 1800 e1900 metri. Si odono finalmente i rumori della montagna dopo un giorno passato fra orde di tifosi vocianti e macchine strombazzanti. È una stradina irreale dove i ciclisti possono annegare i loro pensieri nell’immensità dei paesaggi. È l’habitat naturale di Pagni cui soltanto l’erba bagnata e il clima nebbioso impediscono di stendersi in modo inamovibile sulle sponde del piccolo lago Lagazzuolo presso il passo di Giuppessa. Ma bisogna dimenticare ben presto questo clima da Arcadia ed immergersi nuovamente nel caotico clima del Giro affrontando una volta per tutte la sfida col minaccioso gigante del Gavia. Anche questa strada sprigiona una poesia ed un fascino incommensurabili ed è sentito perciò come una profanazione il transito dei veicoli della carovana pubblicitaria il cui unico scopo sembra quello di scaraventare i ciclisti nei dirupi o in alternativa schiacciarli contro le pareti rocciose. Il gruppo è sfaldato già in partenza in virtù di attacchi anticipatori o di soste incontrollate per rifocillarsi. Il plotone più numeroso è composto da Bertelli, Chiarugi, Nucci e Pelagotti. L’eroe del S.Pellegrino in Alpe rimane impietrito di fronte ad un cartello di pendenza al 14%. Nucci sale con irridente facilità soprattutto quando c’è da zigzagare fra le auto incagliate negli stretti tornanti. Chiarugi rimane incollato alla ruota della Bertelli ed assiste ad una specie di marcia trionfale scandita dalle ovazioni e gli incitamenti del pubblico. Bagnoli, che era in fuga, viene raggiunto in un momento di tale black-out che forse non si accorge nemmeno di essere entrato in una buia galleria a due chilometri dalla fine. Caparrini riassapora dopo tanto tempo il piacere naturale della crisi di fame ed annaspa a velocità minima incalzato da Chepe Gonzalez e le staffette della polizia. La tempra dei ciclisti è messa però a dura prova nel momento in cui si spegne il fuoco delle pedalate per lasciare spazio al confronto impari fra gli esili corpi madidi e stanchi ed il clima invernale nell’alto dei 2600 metri. Si vuotano tasche e zainetti per indossare indumenti che non bastano mai. L’ipotermia avvinghia i ciclisti in attesa. Vacillano anche i coibenti Bagnoli e Caparrini costretti ad infilarsi i manicotti. Pelagotti è in preda ad un irrefrenabile delirium tremens. Chiarugi viene ricoverato per pietà in un camper dove gli sono somministrati due bicchieri di vin brûlé. Anche gli altri sono costretti a sorbire questa disgustosa bevanda per acquisire un po’ di effimero calore. Il passaggio dei professionisti avviene piuttosto rapidamente anche perché molti procedono a spinte o al traino delle ammiraglie. A questo punto mancano 17 chilometri di discesa per conquistare la salvezza e sono interminabili. Un vento misto a pioggia e spruzzi di neve sferza e paralizza le parti nude dei ciclisti. Ben presto le dita delle mani diventano inanimate e metalliche come le leve dei freni a cui rimangono incollate per una sorta di rigor mortis. L’attraversamento della galleria offre una fedele rappresentazione della morte: tenebre profonde, urla disumane, lampi improvvisi e rombi di tuono. Tutte queste immagini apocalittiche fanno dimenticare il rischio concreto di scivolare sulla strada bagnata e ruzzolare a valle per le vie più brevi. Quando s’incontra una fila di auto che bloccano la discesa, nessuno maledice il loro puzzolente tepore ed una breve sosta non nuoce alle membra rattrappite. A Ponte di Legno il freddo e il turbamento si trasformano lentamente in felicità, subentra il piacer figlio d’affanno, la consapevolezza di aver raggiunto l’ennesimo obiettivo irrazionale, quasi folle che solo la passione ciclistica può convertire in intima sensazione d’eroismo. L’eccitazione per l’ardimento dimostrato allenta ogni freno inibitorio durante il ritorno ad Empoli e Pagni può così imporre una sosta di 2 ore e 45 minuti sul lago d’Iseo a mangiar trote. È un’imprevista fine in debolezza che si ripaga col giusto prezzo dell’allegria.

 

Pagelle

Come suole fare la Gazzetta al termine di ogni Giro, pubblichiamo i giudizi sintetici sui protagonisti tralasciando soltanto le valutazioni numeriche in quanto tutti, per l’impegno profuso e l’insostituibile contributo all’armonia del gruppo, meritano ovviamente il massimo dei voti.

 

Bagnoli. Ha portato al giro una bicicletta più lustra del solito per lo scarso utilizzo nelle settimane precedenti. Grazie ad un’incrollabile fede ciclistica ed all’aiuto di qualche entità sovrannaturale (come la Madonna di Fatima e quella del Ghisallo negli ultimi chilometri del Fedaia) è comunque riuscito ad uscire indenne ed appagato dalla sfida con le montagne.

Bertelli. Ha mostrato al pubblico plaudente lungo le salite la sua armoniosa miscela di grazia e doti atletiche. L’inatteso sfoggio a colazione di un conturbante body sociale da cronometro le vale la lode ed il bacio accademico. Dovrebbe però sforzarsi, quando si lancia giù dai passi, di far prevalere qualche volta l’istinto materno su quello predatorio della discesista.

Bitossi. Si vede che la genetica conta qualcosa anche nel ciclismo. In salita ed in discesa mostra uno stile naturale ed è esteticamente ineccepibile anche se i laboriosi preparativi lo costringono a ritardare l'orario di partenza. Ha evidenziato segni di crisi soltanto in occasione dei lunghi e frettolosi trasferimenti automobilistici a cui l’Empolitour è temprata da anni di duro allenamento.

Boretti. Merita un elogio per la perseveranza che ha sempre prevalso sulle sensazioni di disfacimento fisico provocate dal primo duro impatto con le grandi salite. È chiaro che, se ad una limitata preparazione ed una zavorra di qualche chilo naturale si aggiunge uno zainetto pieno di un intero campionario di indumenti (compreso un cappello con paraorecchie), il rendimento in salita non può migliorare.

Caparrini. Dopo mesi di salite dosate col bilancino del farmacista, sul Gavia ha finalmente riscoperto l’umano senso della crisi che sembrava abbandonato ai primi Tour inadeguatamente preparati. Più che la negligenza per il denaro perduto (e comunque miracolosamente ritrovato) stupisce l’approssimazione con cui ha chiuso i conti delle spese di viaggio e che non è del tutto giustificata dal clima di lassismo creatosi sulla via del ritorno.

Castiglioni. È apparso più sornione del solito. Talvolta sembrava che si nascondesse dietro a qualche albero per sbucare all’improvviso e sorpassare con la sua pedalata inesorabile. Merita una nota sul registro per aver ceduto ripetutamente alle lusinghe dell’agio e della mollizia in ottemperanza ai dettami del ciclismo secondo Pagni.

Chiarugi. Non è mai riuscito ad impensierire Nucci in salita. I maligni sostengono che questo calo di rendimento sia imputabile alla prolungata e ravvicinata visione delle grazie della Bertelli. L’interessato ha dichiarato che, da cultore di Dante qual è, Beatrice val bene una crisi. Ha offerto inopinatamente la sua migliore prestazione sulla discesa del Gavia affrontata in stato di ebbrezza insieme a Bagnoli e Caparrini notoriamente termostatici.

Nucci. Non ha avuto rivali in salita e probabilmente non ne avrà per lungo tempo se continuerà a mantenere l’allenamento e il peso acquisito con peculiari modalità restrittive d’alimentazione. Anche stavolta ha infatti seguito la sua tattica dietetica che è paragonabile ad una eiaculatio praecox: una fame incoercibile che al momento della verità lo porta raramente a vuotare il piatto bramato in maniera petulante.

Pagni. Ha interpretato metodicamente il ruolo che il suo personaggio gli impone. È mancato il sole per poterlo ammirare seminudo sui pascoli alpini ma le sue fragorose risate a tavola sono sempre state puntuali. Ogni anno raccoglie un numero crescente di proseliti in quelle abitudini che un tempo l’Empolitour considerava viziose o inopportune come la doccia prima di ripartire o le trote a cena.

Pelagotti. Ha studiato e si è applicato con impegno ottenendo buoni risultati su tutte le salite trattate. Le grandi montagne, affrontate per la prima volta, hanno avuto su di lui l’effetto eccitatorio di una sostanza stupefacente causando come effetti collaterali inappetenza, insonnia e insensibilità al dolore. Ora lo attende una lunga cura di disassuefazione a base di S.Baronto, Pietramarina e Castra.

Sommario

 

Tour