Giro 2007

Cortina D’Ampezzo 26-28 maggio

Il Giro delle Tre Cime

 

 

Presentazioni

 

Si ricomincia da tre. Tre cime intorno al cor ci son venute: Cima Grande, Cima Piccola e Cima Ovest. Le Tre Cime di Lavaredo sono le protagoniste indiscusse del quindicesimo Giro d’Italia dell’Empolitour e ben ventisette ciclisti hanno pagato per essere giudicati dalla loro fiera e religiosa asperità. Il Supremo Custode dell’Ortodossia, Caparrini, che notoriamente è uno e trino perché presiede, promulga e pedala, ha disegnato senza incertezze questa solenne trinità dolomitica sulla copertina delle Sacre Scritture del Programma, e senza incertezze sono immediatamente pervenute entusiastiche adesioni da ogni parte dell’orbe ciclistico empolese. Perciò è stato necessario rinnovare il contratto al celeste auriga della Sita che in un corpo unico condurrà nella fastosa Cortina una moltitudine di probandi con le loro infagottate appendici.

Questo successo numerico di partecipanti giova al presidente ma nuoce al cronista che deve descriverli. Perciò il lettore s’ingegni a ricercare nelle puntate precedenti le note biografiche dei personaggi che storicamente corrono e ricorrono. Qui basti quella frettolosa enumerazione necessaria per non abbandonare nessuno per strada; cominciando, per obbligo di nobiltà, dall’onnipresente triumvirato composto da Caparrini, Chiarugi e Nucci, e proseguendo con un’estenuante litania alfabetica composta da Bartoli, Bertelli, Bitossi, Boldrini, Borchi, Cocchetti, Cucinotta, D’Alessio, Giunti, Goti, Landi, Lupi, Malucchi, Mancini, Marconcini, Marforio, Muritano, Pagni, Rinaldi, Salani, Seripa, Tempestini, Traversari, Vezzosi. A costoro, dotati di bici, vanno aggiunti il centauro Torcini, dotato di moto, l’avo Marchetti, dotato di telecamera, e tre familiari di Borchi, dotati di mani per applaudirlo.

Di questo insieme anormale sono possibili infinite partizioni. Ad esempio, Bitossi, D’Alessio e Landi costituiscono il sottoinsieme dell’Integrateam; Bartoli, Cocchetti, Lupi, Mancini, Rinaldi e Vezzosi il sottoinsieme del GS Avane; Bartoli, Borchi, D’Alessio, Landi, Mancini e Rinaldi sono esordienti al Giro; Cucinotta, Seripa e Marforio sono extraregionali; Bertelli e Cucinotta sono donne; Boldrini è transgenico. Degli esordienti alcuni sono sperimentati, Landi è già stato sottoposto a severi test d’ammissione in salita e Borchi a test di fuga immediata senza sosta; Bartoli, D’Alessio e Mancini sono inediti ma con credenziali e complessioni di ciclisti di lungo corso, come di lungo corso si dice il poderoso Rinaldi anche se a prima vista riassume caratteristiche morfologiche di Mastro Lindo e Mastro Ciliegia.

L’occupazione dell’Hotel Impero e il saccheggio delle scorte al Ristorante Tavernetta garantiscono tre giorni di pacifica coesistenza e sussistenza, anche se la presenza di tre squadre iscritte (pur con complicate sovrapposizioni di tesseramento e abbigliamento) e di alcuni isolati può favorire al cospetto del maestoso scenario dolomitico lo sviluppo di un’interessante trama agonistica, cioè tutti contro Boldrini.

 

 

Cime di rapa

 

In questo Giro trinitario i giorni consacrati al pedale sono naturalmente tre, ma il primo sulle scritture è blando e proemiale, creato per verificare l’integrità fisica e meccanica dopo sei ore d’ozio e affastellamento in autobus. Si dovrebbe percorre l’amena e planare via di Cimabanche, spacciata per passo, arrivare a Dobbiaco e poi tornare indietro per la medesima amena via. Un inverecondo anda-e-rianda insomma, condito con la contemplazione di qualche dolomia che vigila sul sopore delle membra dopo il primo imprevisto assalto alla Tavernetta.

Accade però che l’arconte Pagni venga in possesso di un documento segreto che declama le previsioni meteorologiche locali con linguaggio forbito e indicatori statistici di probabilità e confidenza. Il tono scientifico del papiro incute soggezione e attendibilità su un responso pluviale riguardante il giorno dopo dedicato alla trimurti di Lavaredo. I ciclisti cominciano a pedalare e a mormorare. Invero c’è chi, come Tempestini, sbraita esigendo seduta stante le Tre Cime asciutte, altri approvano in silenzio, molti ruminano e Boldrini tira il gruppo a chiorba bassa. Ovviamente il mastodontico Goti è già staccato prima che la questione divampi e comunque per lui la questione delle Tre Cime non si pone né domani né mai. Caparrini suda, un po’ caldo per la velocità imposta dalla transgenica locomotiva, un po’ freddo per i venefici fumi d’eresia che si stanno diffondendo nell’aria. E nel frattempo il globicefalo continua a mazzolare le pedivelle fornendo agli avanesi il loro pane quotidiano della foga e alla Bertelli gli acuti vocalizzi della repulsa. Bitossi intanto è riuscito a frenare i suoi due scudieri dalle intemperanze, un insetto puntorio ha frenato Pagni, l’affanno ha frenato Marforio, la saggezza ha frenato Giunti, la stazza ha frenato Goti e la legge morale ha frenato l’integerrimo Muritano. Questi otto frenati saranno gli unici che Caparrini riuscirà a trattenere nell’ortodossia del programma palindromico. Tutti gli altri svolteranno a destra per un cammino di perdizione che sembra condurre proprio alle scellerate Tre Cime anticipate. Compresa la Bertelli che, dopo un’accorata invettiva contro il degrado dei costumi sociali, si fa trascinare con poca resistenza dalla torbida corrente dell’eterodossia.

In cima alla corrente c’è sempre lo psicopompo Boldrini che traghetta la flotta degli ammutinati verso i gironi infernali di Lavaredo. Egli è probabilmente inconsapevole dell’atto peccaminoso e si limita a seguire l’istinto belluino che lo guida in piena trance agonistica ai piedi del Rifugio Auronzo. Soltanto allora deciderà di alzare gli occhi dal manubrio e volgerli al sole oscurato dalle rocce, dopo aver lasciato cadere dietro di sé uno dopo l’altro tutti i ribelli. E se fra di loro alcuni hanno intenzione e potenzialità di parziale espiazione, bissando la prova nell’ufficialità dell’indomani, per molti si ha l’impressione che le Tre Cime siano finite qui, tanto per non citare il possente Rinaldi, il sorprendente Vezzosi, il timoroso Borchi e il baldo ma inane Malucchi. Forse per non rischiare questo duplice deviazionismo, Chiarugi e Marconcini giunti a Misurina voltano le spalle resipiscenti alle cime per collocarsi fra l’incudine dell’inverecondia e il martello dell’eresia.

La minoranza ortodossa stagna frattanto sulle sponde del lago di Dobbiaco, ove effettivamente l’inverecondia è superiore alle attese, tanto che viene celebrata da Pagni anche una delle sue soste eponime con caffè e paste, le cui minutaglie sono pure apprezzate dalle anitre lacustri. Si dirà che fra scalare le Tre Cime di Lavaredo e gettare briciole ai pennuti, la fama dovrebbe sapere dove andare. La lex caparriniana è però implacabile e i reprobi non avranno neppure il conforto delle telecamere che seguono pedissequamente il presidente e i suoi fidi cortigiani.

E i conti poi si fanno a cena. Nella Tavernetta Caparrini impera e divide: gli scismatici sono confinati in tavoli separati a commentare le loro cime di rapa. Con sincero pentimento molti dichiarano che hanno scherzato e che domani ripeteranno le cime sul serio. Ma oscuri presagi impediscono di dormire il sonno dei pentiti.

 

 

Cime tempestose

 

“Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?” Nessuno dei supplici occhi delle finestre dell’Impero può illudersi: quelle sono nuvole e quella è vera acqua. Il papiro di Pagni purtroppo non mentiva. Ora bisogna districarsi nell’inviluppo d’indecidibilità che accompagna il risveglio dei ciclisti. Quasi tutti hanno già vissuto l’Armageddon pluviale l’anno scorso a La Thuile e non vorrebbero essere ripetitivi, nemmeno il cronista con le solite citazioni dantesche e dannunziane sulla pioggia. Vorrebbero parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane ma le gocciole sono lì, vicine e tangibili. Difficile riassumere sentimenti e intenti di una trentina di anime in pena. I reprobi sembrano partire avvantaggiati sugli ortodossi perché comunque vada potranno fregiarsi di Tre Cime, seppure illegalmente scalate. Il Supremo Custode dell’Ortodossia, che pure non è disposto ad omologare questa illecita anticipazione, ora coi suoi puri seguaci ha doppio obbligo di scalata: quello morale della conformità programmatica e quello di non inferiorità nei confronti degli eretici. Molti di costoro non hanno nemmeno abbandonato le promesse notturne di redenzione con la doppia immolazione. E si vedono infatti il minuto Nucci con zaino di ugual peso, il giovine Salani con baule sottosella e zaino da scalatore alpinistico di Tre Cime, il baldo ma inane Malucchi con farsetto che gli assicura una schiena a sei tasche e il blocco compatto degli avanesi che decidono di decidere secondo la volontà del condottiero Vezzosi perché, opinano, se bissa lui possono bissare tutti quanti. In altri invece si percepiscono segni di resa più o meno evidente: in Tempestini e Traversari che rimangono a letto, nella Bertelli che si offre come badante dello stentoreo Goti, e in Borchi che può organizzare un bridge o uno scopone scientifico in famiglia. Ma la resa più amara e incomprensibile è quella del riottoso Boldrini che non sa dove andare, comunque ci va. Così dopo il sole si perde pure il faro della corsa. Che inizia buia e tempestosa ma inizia. L’ottimismo della volontà prevarica il pessimismo della ragione.

Dura scripta sed scripta. Caparrini ovviamente non ammette varianti al programma che prevede l’iniziale circuito del lago Ghedina, per temporeggiare e rientrare sul percorso di tappa più convinti e bagnati che pria. Chi supererà senza cedere alle mollizie anche il secondo passaggio davanti all’albergo, allora sarà degno di partecipare alla mensa di queste epiche Tre Cime. Si pensa che sia un rilassante anello fuori dal caotico consorzio umano della tappa, e lo sarebbe se non si sganciasse subito un’inopinata fuga con gli inopinati Giunti, Muritano, Pagni e Salani. Cosa vadano a fare in fuga quei quattro scalzacani nessuno lì per lì lo capisce, fatto sta che non li rivedranno più. E se non fosse per sporadiche notizie di radiocorsa Torcini-Marchetti, ci sarebbe anche da preoccuparsi.

Quando compaiono le prime frecce rosa che annunciano il passo Tre Croci, Chiarugi si lancia al loro inseguimento, braccato da una muta di avanesi e dallo zaino sotto il quale pedala Nucci. I distacchi sono ben presto anarchici e nessuno sa più dove siano gli altri. L’ultimo è forse l’illocalizzabile Bitossi che, unto d’olio di canfora e grasso di balena, può però essere localizzato olfattivamente. Naturalmente i ciclisti salgono e la pioggia scende e in tale frangente il senso di solidarietà e di attesa va a farsi benedire. Di benedizione avrebbe bisogno anche Marforio che dopo una prima foratura viene aiutato da un’equipe meccanica con Landi, D’Alessio e la ricomparsa Bertelli, dopo una seconda dalla sola Bertelli e dopo una terza s’arrangia e viene dato per disperso. La lista dei dispersi però si allunga. A Misurina la muta di avanesi è composta da Bartoli, Cocchetti e Lupi, e nessuno giura sull’esistenza di Vezzosi, Rinaldi e Mancini.

Misurina è un crocevia di destini. Lì vagolano spettri con la mantellina bianca, fra i quali pare d’intravedere pure l’evaso Muritano. Gli avanesi svaniscono concordi mentre si materializzano gli spiriti di Tempestini e Traversari evocati dal sonno che sulla porta delle Tre Cime ammoniscono i viandanti con frasi come “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. E l’ammonimento ha effetto sulla combattuta Bertelli che mestamente desiste, mentre fermi sotto l’acqua e implicitamente desistenti rimangono Cucinotta e Seripa.

Non sappiamo ancora quanti abbiano varcato quella fatal soglia, ma dentro i loro fragili involucri una sola anima si stava per elevare al cielo. Il cielo nubiloso cominciò ad inghiottirli lentamente, molto lentamente. Rare figure pedestri e incappucciate rafforzavano il convincimento che quel silenzio preludesse a qualcosa di simile all’oltretomba. Poi qualche ingrata vettura arrivava a ricordare che quella era la terra e questi erano gli ultimi chilometri della quindicesima tappa del novantesimo Giro d’Italia. Se gli occhiali appannati di pioggia e lacrime impedivano una chiara visione della salita, l’odore di frizione e di salsiccia faceva intendere che eravamo nel tratto di massima durezza.

“Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?” Sulle prime l’ipotesi onirica sembra prevalere ma all’improvviso i ciclisti si rendono conto di essere sbucati oltre un’inimmaginabile realtà: la nube piovosa sotto di noi, le cime assolate sopra di noi. Non è il sole che spacca le dolomie ma anche quel suo tenue pallore è sufficiente ad alimentare le ultime celestiali pedalate. Sono proprio pietre. Riusciamo a contare tutte le Tre Cime di Lavaredo e ora si tratta di contare i superstiti. Tre precoci fuggiaschi, Giunti, Pagni e Salani sono già in posa raggianti uno per cima, e la Cima Grande spetta addirittura a Giunti. Poi si aggiunge l’indomo Chiarugi e quindi una lunga attesa fatta di ipotesi. Mentre tutti scommettono sul basto di Nucci o sul caracollo di Caparrini, spunta Bitossi che come sempre vince la gara d’imprevedibilità. Prevedibili invece sono gli arrivi di tutti gli altri che sono in debito morale con le Tre Cime. Ecco pertanto il rantolante Caparrini, il rigoroso Muritano, il temprato Landi, il caparbio Marconcini e il canoro D’Alessio. Mancherebbe soltanto Marforio, pace alla ruota sua, e Caparrini manifesta sincera pena per lui, fino a chiamarlo a casa, forse per sapere se fosse rientrato a Stresa con un jet. Ma soltanto quando la rassegnazione diventa superiore all’indugio, compare anche lui a corto d’aria nei polmoni e nella ruota, tanto da minimizzare il cerimoniale fotografico e scendersene a Misurina prima di rischiare un ritorno sul duro cerchio.

Di tanti presunti doppiatori di Tre Cime pertanto solo lo zavorrato Salani rispetta il voto, dato ormai per renitente l’altro più autorevole zavorrato Nucci. Anzi no, ci sono testimonianze che pure il baldo, e ora non più inane, Malucchi abbia raddoppiato e sia già in albergo dopo una fugace visita a suoi compaesani di Mastromarco tifosi di Nibali. Malucchi è stato il più veloce dei retroversori ma quando le pietre si tramutano in nuvole e il sogno in realtà, quasi tutti ne seguono l’inglorioso esempio.

Il cielo piovoso sopra di me, la legge morale in me. Con Caparrini, che custodisce strenuamente l’ortodossia della visione della tappa, rimangono i probi Chiarugi e Muritano, e Bitossi per quanto sovente introvabile. Così, mentre la neghittosa maggioranza si bea a Cortina fra televisione e frivolezze rosa, il proscenio spetta a questa valorosa minoranza. Ma la via che conduce alla virtù è ancora lunga e irta di quattro difficoltà.

La vestizione. Bitossi e Muritano, ciclisti da soma, scaricano la zavorra e si agghindano di tutto asciutto. Ma anche le giberne di Chiarugi non lesinano conforto. Caparrini, che ha già una zavorra corporea da trascinare, non può appesantirsi ulteriormente e in queste occasioni suole affidarsi ai mercanti di gadget all’arrivo. Lassù però l’unico genere di conforto che vendono è la Gazzetta con la quale in effetti qualche ciclista avvolge gambe e braccia. Ma Caparrini oggi ha un capo in più: i gambali. Da lui sempre denigrati, ora li estrae timidamente dal cellophane e li indossa con pudore mascherando incipiente orripilazione.

Il tendone. Se Caparrini indossa i gambali vuol dire che il clima è artico e nessuno si azzarda a pensare di resistere così cinque ore. Viene perciò adocchiato un tendone pieno di avvinazzati e conquistata una lignea panca, condividendo il tavolo con altri quattro della stessa risma alcolica. Pensare di resistere così cinque ore resta sempre azzardoso, ma almeno riparato e rifocillato con salsiccia e minestrone. Per di più nel frattempo la pioggia ha cominciato a scrosciare e Caparrini ad eseguire il noto rito di cessazione che consiste anche quest’anno nell’alzarsi ripetutamente per vedere se smette. Quando il tendone sotto il peso dell’acqua comincia a sviluppare minacciosi bubboni, anche la ferrea volontà presidenziale comincia a vacillare come il tendone stesso.

Il camper. Una decisione dolorosa sembra nell’aria plumbea: fuggire appena smette di piovere. Poi alla prima tregua questa disperata arrendevolezza si mitiga nella speranza di un misericorde usbergo: il camper di Mastromarco. In fondo, sostiene Caparrini, siamo di una stessa regione, di una stessa passione, raccomandati da Malucchi e se serve anche tifosi di Nibali: non possono negarci appoggio ed ospitalità. E infatti non ci negano l’appoggio al camper delle bici e di una spalla, fuori all’addiaccio ma con possibilità di sbirciare la tappa in TV dalla finestra, dalla quale i magnanimi tifosi traspaiono ebbri e accaldati. Resistere un altro paio d’ore a questo supplizio di Tantalo è però possibile perché intorno si va formando uno scudo di spettatori che protegge dalle sferzate di vento e pioggia. È bello abbandonarsi alla variabilità del tempo che atterra e suscita, che affanna e che consola. Il dualismo fra pietre e nuvole è mutevole. Le Tre Cime e il Rifugio Auronzo ora appaiono, ora scompaiono, quasi come Bitossi.

La tappa. Forse saranno i gas delle moto e delle ammiraglie o le traspirazioni degli stravolti ciclisti, o forse perché vincono Riccò e Piepoli che pubblicizzano caldaie, sta di fatto che la visione della corsa fornisce calore anche ai nostri quattro prodi spettatori che pure se ne stanno docili dietro le transenne. Accalorano i primi e consolano gli ultimi che pedalano con respirazione e velocità caparriniane. Ma questa consolazione non basta a trattenerli a lungo dietro le transenne, e al ventesimo applauso si rompono gli argini e un fiume limaccioso di stufi spettatori e arrivati professionisti comincia a scendere mentre salgono i più bisognosi. Bitossi e già scomparso sulla scia del consimile Perez Cuapio, mentre i più frenanti Caparrini, Chiarugi e Muritano arrivano a Misurina con qualche centimetro di zoccoletti in meno ma con qualche metro di gloria in più.

La dottrina della fede così è salva, le bici e i peccati del mondo lavati, e la cena meritata. Caparrini, rex et sacerdos, nel cenacolo della Tavernetta mostra ai commensali tutta la sua clemenza. Davanti a piatti fini, in tutti i sensi, e abbondanti, solo in senso geometrico, non infierisce sulle debolezze terrene dei figlioli smarriti ma li assolve dai loro peccati, nel nome della Cima Grande, della Cima Piccola e della Cima Ovest.

 

 

Da cima in fondo

 

Toccate le cime, aldilà dei sogni e delle nuvole, l’indomani si rischia seriamente di toccare il fondo. A dare retta al papiro il rischio è proprio certezza: pioggia al cento percento e tutti a casa. Anzi peggio, tutti a pranzo. Perché, sostiene Caparrini, se è possibile ottenere una deroga all’ortodossia cassando il Falzarego e il Giau per impraticabilità di passo, non è altrettanto possibile cassare l’ultimo rituale simposio alla Tavernetta, checché ne dicano specialisti nazionali di salto del pasto come Bertelli e Chiarugi. È inutile appellarsi ad argomentazioni dottrinali perché il custode dell’ortodossia è anche custode della cassa sociale e sostiene che i passi senza la corsa rosa sono facoltativi, mentre il pranzo prenotato e pagato è obbligatorio. Bisogna allora appellarsi alla fallibilità delle scienze meteorologiche e dormire il sonno degli speranzosi, ignorando le raccapriccianti alternative al ciclismo che serpeggiano nel gruppo.

“Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?” L’interrogativo di Dino Buzzati si ripete attraverso i vetri assonnati dell’Impero: quelle sono le Tofane e quello è il Cristallo, non nuvole scolpite nel cielo come bastioni di roccia. È l’insperato segnale di partenza. E bisogna pure sbrigarsi prima che lo scultore del cielo ci ripensi.

Alle otto infatti sono tutti in strada con la bici in mano e l’inverno sulla pelle, tranne Caparrini con le maniche corte e Salani con zaino a due piazze che forse contiene un sacco a pelo. E tranne Bitossi che non c’è proprio perché si sta scaldando le gambe col phon. Quando anch’egli incede caldo e odoroso nell’arengo, gli altri gli battono le mani o i denti, ma è l’unico momento di assoluta unanimità in tutto il Giro. Che dura fino al varco del torrente Boite. È qui che inizia il passo Falzarego ed è qui che Chiarugi inizia ad attaccare, perché non ha portato il phon e quello è l’unico modo per scaldarsi. Boldrini, credendo che lo faccia per volerlo staccare, subito lo francobolla e Chiarugi, ritrovata l’omeotermia, dopo qualche chilometro di convivenza transgenica appetisce di staccarlo davvero. Ci riesce al termine della salita, perdendo un anno di vita ma guadagnando un minuto di gloria televisiva accanto al binomio filmante Torcini-Marchetti.

Sul Falzarego si mescolano pensieri e percezioni termiche in rapida successione. L’attesa protratta fino al bradipone Goti è incompatibile con la vita a meno che non si ottenga ospitalità sotto la tenda di Salani. L’attesa del solo presidente non muta il concetto giacché egli è tenuto per catechesi ad attendere tutti. Ne consegue che Chiarugi è già protratto verso il Giau che, dopo gli stravizi del Falzarego, scalerà a velocità solitaria e caparriniana, confidando sul fatto che nessuno verrà mai a saperlo.

La riconquista dell’unanimità assoluta è ormai impossibile, tuttavia le percezioni termiche ed atletiche sul Falzarego consentono di ottenere alcune interessanti unanimità settoriali. Ad esempio, tutti gli extraregionali, tutti gli avanesi e tutti gli Integrateam eseguono un’unanime retroversione a Cortina (in realtà Bitossi, che sfugge ad ogni tentativo di unanimità, ha scalato anche il piccolo raccordo del Valparola). Il Giau diventa così un affare di famiglia Empolitour, compresi gli atleti adottivi come Salani che ha sostato nel sacco a pelo, Borchi che non sosta mai e Marconcini che sul Giau ambisce a sfidare Muritano per la conquista dell’ultima piazza lasciata vacante da Goti. In realtà la coda è l’unica parte chiara della classifica su questo Giau che avrebbe dovuto concedere libero sfogo agli istinti agonistici, non fosse altro per imbastire trame di dibattito sull’autobus del ritorno.

Sul fine di corsa Muritano non ci sono dubbi e dibattiti, ed egli è fiero di riappropriarsi dopo un anno di progressi di tale prestigioso titolo, in un Giro che lo vede insieme al presidente unico irreprensibile esegeta delle Sacre Scritture del Programma. Sul proclamando vincitore non c’è stato invece accordo nemmeno dopo cinque ore di viaggio. Perché Chiarugi vorrebbe l’attribuzione secondo l’ordine di arrivo reale, Boldrini secondo l’ordine cronologico dei tempi di scalata e Tempestini secondo l’ordine morale di chi è partito insieme al presidente.

Ma questi dettagli tecnici non inficiano la soddisfazione di chi ha domato a dispetto dei papiri e delle nuvole anche quest’ultimo tenace passo. Ove si vedono scene festose da ultimo giorno di scuola: l’esultante volata di Borchi sulla Bertelli, l’affettuoso arrivo di Tempestini e Salani a mani congiunte, la distaccata gelosia di Traversari, l’appagata lentezza di Giunti e Pagni, e il sorpasso di Malucchi doppiatore di cime su Nucci doppiatore di fiaschi.

E le nuvole stanno a guardare. Ma non troppo, perché riversano sui ritardatari una piccola aspersione che vale come benedizione idrica finale. La benedizione ufficiale, quella alcolica, che sancisce l’allegra conclusione del Giro, sarà tripartita come le Cime: un polveroso spumante alla Tavernetta, un casereccio vinsanto sull’autobus e il botto finale tra i tuoni empolesi, quando le nuvole sembreranno pietre scure oltrepassate dai sogni.

 

Fotogiro