ANNO 2002
22/12/2002 Adeste fideles
A guardarla da lontano sembrava una lunga carovana di
dromedari curvi e gibbosi, guidata da un mastodontico cammelliere col turbante
giallo, ma le schiene bianche, i fianchi azzurri e le sole zampe posteriori
motrici tradivano la loro vera natura di ciclisti in pellegrinaggio.
In una calda grotta del villaggio pedemontano di
Ruota, anni or sono avevano depositato un’icona votiva che li rappresentava
belli e corruschi nel più fulgido istante della loro vita terrena. Quella foto
era molto più di un semplice quadretto commemorativo, perché era dotata di
proprietà che ad occhi profani potrebbero sembrare magiche. Si trattava infatti
di una matrice iconica a congelamento spazio-temporale con incorporato
generatore materializzante di ologrammi. Una foto, si dice, immortala; quella lo
faceva alla lettera. Era stata creata con una macchina capace di sospendere le
esistenze in uno stato di ibernazione digitale. Gli uomini, cioè, erano
conservati dentro quell’immagine in una forma di vita eterna e incorruttibile,
mentre i loro ologrammi, caduchi e mortali, si distaccavano dalla matrice per
condurre, come proiezioni discrete, l’esistenza mondana e corruttibile che
agli occhi degli altri appariva indistinguibile da una normale esistenza
biologica. Sennonché i privilegiati ciclisti avevano la possibilità di
ricaricarsi di tanto in tanto, semplicemente ricongiungendo i loro ologrammi a
quella matrice ontologica, e così facendo avrebbero rigenerato le loro vite
nell’attimo reso perpetuo dalla macchina infernale posseduta da uno di loro.
Semplicemente si fa per dire, perché per guadagnarsi
questo bizzarro dono d’immortalità avrebbero dovuto ripresentarsi al cospetto
dell’icona votiva con le stesse bici e gli stessi abiti originali,
sobbarcandosi una scalata di 4,4 chilometri che a detta degli esperti non era
molto socievole. Non si poteva barare, che so, arrivando in macchina vestiti da
messa, perché sarebbe mancato l’indispensabile riconoscimento fra il nucleo
immortalato e la sua proiezione terrena. La tattica dei nostri ciclisti era
perciò quella di tornare periodicamente a Ruota in bici rivestiti dalle stesse
e spesse livree con cui erano rimasti impressi quel dì; ed era necessario farlo
piuttosto frequentemente, un po’ come quelli che si tingono i capelli, perché
sennò i mortali si sarebbero insospettiti da cambiamenti improvvisi e radicali,
e poi, lasciando trascorrere troppo tempo tra un ritorno e l’altro, gli
ologrammi e le loro bici si sarebbero eccessivamente deteriorati, col rischio di
non essere riconosciuti, o peggio, di non essere più nemmeno capaci di superare
l’ostica e decisiva salita.
Fin qui l’aspetto scientifico della leggenda. Poi
si sa come vanno le cose, gli uomini non si accontentano dei fenomeni troppo
razionali della natura e tendono ad invocare comunque la superstizione in
soccorso alla loro ignoranza. Pertanto attorno a quell’icona s’era creata
un’aura di misteriosa taumaturgia che in breve tempo la rese un
frequentatissimo oggetto di culto. Il popolino di Ruota aveva sparso voci
incontrollate su questi baldi ciclisti che, come angeli piovuti dalla terra,
venivano a ringiovanirsi nel loro locale centrale ed unico, dove solevano
rifocillarsi con le offerte e i sacrifici dolciari lasciati nella grotta dai
fedeli laeti triumphantes. Fedeli, che lusingati da questo mito della
foto dell’eterna giovinezza, accorrevano a adorarla sempre più numerosi.
Naturalmente il meccanismo di ringiovanimento funzionava soltanto coi dodici
semidei in posa nel quadretto, ma questo la gente non lo sapeva, o se lo sapeva
faceva finta di non sapere, per non privarsi almeno di una fonte di speranzoso
misticismo.
Ruota era diventata la Lourdes del Monte Serra e
nella grotta della visitazione era sorto un angusto bar governato da una bionda
pia donna, l’unico essere aciclistico che era stato immortalato nella fatal
posa e che non aveva nemmeno bisogno di durare fatica per godere
dell’azzeramento spazio-temporale; le bastava non cambiare mai abito, trucco o
pettinatura davanti alla reliquia, tenuta in bella mostra sopra una mensola dove
bottigliette mignon di Stock 84 e Sambuca Sarti l’adornavano come lampade
votive.
Si vociferava però che la grotta fosse destinata al
cambio di gestione perché la bionda pia donna si sentiva ormai disposta ad
accontentarsi del prezioso sistema anti-invecchiamento ed a cedere il business
dei fedeli ad una compaesana cui velatamente aveva fatto credere che la
coabitazione con l’icona, alla lunga le avrebbe permesso di eliminare dagli
occhi le borse e le zampe di gallina.
Ad Empoli i ciclisti vennero a sapere di questo
ritiro all’eterna vita privata della barista e vollero organizzare un
pellegrinaggio speciale a Ruota, non solo per l’annuale ricarica degli
ologrammi, ma anche per un doveroso tributo alla donna insieme con la quale
avrebbero attraversato migliaia di generazioni future. E tanto era forte il
richiamo mistagogico, che si aggregarono alla santa carovana anche altri
ciclisti che nella foto non comparivano e che quindi avrebbero scalato invano il
colle di Ruota , tornando a casa più vecchi e più stanchi che pria.
Probabilmente anche fra gli stessi semidei la conoscenza del meccanismo
funzionale selettivo della matrice era stata soppiantata da una più irrazionale
credenza pluralistica.
Gibbosi come dromedari tredici ciclisti sfilavano
dunque nell’aria brumosa d’inverno nascente. Guidava la spedizione il
mercante arabo Al-Caparh che svettava su tutti con un immane turbante giallo
fosforescente, antisudore e antinebbia, necessario perché col suo respiro
talmente possente e tempestoso sollevava banchi impenetrabili di densissimo
vapore. Pare che Al-Caparh commerciasse proprio in aria. Vendeva cioè alle città
inquinate l’aria salubre delle alte quote che raggiungeva con la sua statura
ed immagazzinava negli smisurati polmoni. Suoi collaboratori fidati erano due
cavalieri bizantini, Kiarukgeco, detto geco per la sua predilezione a scalare
muri come la tarantola, e il pungente e velenoso Nuxur detto Nux, come la nux
vomica da cui si estrae la stricnina. Della fortunata schiera degli ologrammi
facevano parte anche il lord inglese Boldrake detto Ufo Robot, perché si diceva
che non fosse un ciclista umano ma un razzo missile con circuiti di mille
valvole, e tre filosofi greci della scuola eleatica, Tempestinocles, Barikides e
Borectos, il ciclista erectus poiché per le sue poco evolute capacità
atletiche non era classificabile come ciclista sapiens. Essi erano rigorosi
sostenitori del principio riduzionistico e metonimico di non commensurabilità
dello spazio, secondo cui l’infinito è uguale al finito, l’insieme al
sottoinsieme, il tutto alla sua parte e quindi un percorso ridotto è
perfettamente identico ad uno intero. C’erano anche il menestrello germanico Günther,
dotato di occhiali costruiti con le lenti del telescopio spaziale Hubble, la
bella pastorella Bertella Bretella, così detta per le caratteristiche bretelle
a lunghezza regolabile da due spilloni da balia, e sua santità Papa Magnus,
detto Pagnus con la crasi, un opulento magnate, anzi màgnate alla romanesca,
perché era onnivoro ed insaziabile, ed approfittava di queste opportunità di
ringiovanimento corporeo per abbandonarsi fra un pellegrinaggio e l’altro
all’ingrasso più dissoluto.
Venuto a conoscenza di questa processione, il
patrizio romano Borculus si era voluto aggregare con due famigli al seguito,
poiché Al-Caparh gli aveva promesso l’esecuzione di un’altra foto a raggi
cronostatici, senza però confessargli che la prodigiosa macchinetta era in
possesso di Pagnus, le cui probabilità d’arrivo in cima a Ruota, con la
stazza ultimamente conseguita, erano minime. Borculus era comunque interessato a
sfilare in carovana per sfoggiare le sue pregiate stoffe. Possedeva infatti un
campionario d’indumenti talmente vasto che per provare un abito almeno una
volta nella vita ne indossava cinque o sei uno sopra l’altro fino ad apparire
grasso quasi quanto Pagnus. I suoi servitori erano l’implume Puccinus o
Pulcinus, data la sua inesperienza ciclistica e il glabro Avunculuspuccini, un
altro homo novus di Ruota nonché zio del giovine Puccinus cui aveva
trasmesso l’antico mestiere di schiavo.
La salita di Ruota si avvicinava come un’entità sovrumana, ma pochi la temevano perché, se anche vi si fosse pedalato fino a morirne, lassù nella grotta i corpi sarebbero resuscitati davanti alla loro immagine generatrice. I tre filosofi discettarono a lungo sulla consistenza della salita. Ammettendo, dicevano, che la sua pendenza sia del 10%, noi possiamo supporre di ridurla di una quantità infinitesima senza modificarla. Per esempio, possiamo portarla al 9,99% senza che nessun ciclista noti la differenza fra 10% e 9,99%. Ma così è vero anche fra 9,99% e 9,98%, fra 9,98% e 9,97% e così via fino ad arrivare allo 0,01% che è indistinguibile dallo 0,00%, cioè la pianura. Pertanto la salita è uguale alla pianura e con lo stesso metodo possiamo dimostrare che qualsiasi distanza è uguale a zero, che il lontano è uguale al vicino e il pedalare al non pedalare. La foto dunque è già stata raggiunta senza arrivare lassù nella grotta. Insomma, Borectos, Barikides e Tempestinocles tornarono indietro a dieci chilometri da Ruota senza ringiovanire ma fortificati assai dalla coerenza del loro ragionamento.
Eliminata la nota infingardaggine di Borectos, il
problema a questo punto non era arrivare in cima, ma farci arrivare Pagnus che
si muoveva con preoccupante inerzia fin dal primo cavalcavia. Al-Caparh decise
allora di scortarlo ininterrottamente respirandogli alle spalle, che dal punto
di vista di Pagnus era come pedalare con un vento a favore di cento nodi. I
ciclisti arrivarono nella grotta della visitazione in condizioni pietose perché
ognuno, con la scusa di poter riportare il corpo allo status quo ante,
s’impegnò a duellare col prossimo suo in maniera cruenta. E così Boldrake fu
avvelenato da Nux, Borculus attaccò furbescamente Al-Caparh e Bretella, e
Al-Caparh, distratto da tutti questi attacchi, si dimenticò di Pagnus che per
non affondare gettò via tutta la zavorra di dosso, compresa la preziosa
macchinetta cronostatica. Arrivarono nella grotta talmente sfigurati dalla
fatica che i fedeli seduti a pregare sui tavolini neanche li riconobbero, e
sulle prime non li riconobbe neppure la pia barista, anche se poi fu
insospettita dal fatto che questi dieci madidi ciclisti, appena entrati si
misero a saccheggiare le dolci offerte votive conservate sotto una teca di
vetro.
In alto campeggiava la sacra icona, bella e
portentosa, piena d’impronte di dita e di labbra, soprattutto sulla zucca
lucida di Boldrake che si diceva portasse fortuna toccare e baciare. Tutti
allora fissarono intensamente la foto, poi si fissarono l’un con l’altro per
apprezzare l’effetto della metamorfosi. Fissarono in particolare Pagnus,
loffio e manducante, per assistere al suo dimagrimento, ma qualcosa andò
storto. Pagnus era troppo più grasso dell’originale e non fu identificato
dalla matrice, Günther indossava un’avveniristica tuta spaziale che non
compariva nella foto, Kiarukgeco aveva usato una bici troppo più lussuosa,
mentre Al-Caparh, Nux e Boldrake, che alla partenza si erano vantati di pedalare
nel solstizio d’inverno con la maglietta primaverile, si accorsero troppo
tardi che nella foto posavano col giubbino invernale. Morale della favola,
nessuno ringiovanì. Anzi no, solo per Bretella il meccanismo funzionò ma ebbe
effetti impercettibili perché la sua bellezza terrena non era soggetta al benché
minimo degrado. Dovette soltanto aggiustarsi le spille delle bretelle perché il
mutamento le aveva fatto ricrescere e sollevare un po’ le tette. Gli altri,
invecchiati ma non afflitti perché comunque c’era ancora la possibilità di
scattare altre foto magiche, quando seppero che Pagnus aveva gettato l’ordigno
in un fosso, si frenarono dalla tentazione di divorarlo solo perché erano già
satolli di dolciumi. Andò a finire che posarono in una normale foto cartacea
prima che arrivasse l’arcangelo Trasachele che se li portò via tutti nella
sua nube bionica. Ma prima ricevettero dal sindaco di Ruota una scrittura per il
presepe vivente del 26 dicembre. Puccinus ottenne la parte di Gesù Bambino,
Avunculuspuccini quella di San Giuseppe e Bretella ovviamente quella della
Madonna. Pagnus avrebbe impersonato il bue e Boldrake l’asino; Borculus il
centurione romano, Günther il suonatore di cornamusa. Il ruolo dei Magi toccò
ad Al-Caparh con l’oro, a Nux con l’incenso e la mirra a Kiarukgeco che
finalmente dopo 37 anni capì che roba fosse.
15/12/2002 Principe o Re
Travicello?
Sarebbe stato meglio tacere l’accaduto, per
rispetto della fama di carismatico condottiero e moderatore meritatamente
acquisita dal nostro presidente Caparrini sui decennali campi di ciclismo, ma
crediamo che un insuccesso marginale, come quello che ha dovuto oggi sopportare,
possa servire d’illuminante lezione per i futuri e più importanti
appuntamenti. Ed è per questo che lo invitiamo alla lettura del seguente brano
tratto dal Principe di Machiavelli.
“Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi
e governi di uno principe con li sudditi e con li amici allorquando sieno
partiti con li velocipedi per un itinere primieramente scritto et accettato da
tutti… Se adunque, per malaugurato accidente l’aere comincia a perdere una
pioviggine leggiera tosto che lo cammino s’è da pauche milia intrapreso, uno
principe bisogna che abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti
e le variazioni della fortuna li comandano e non partirsi dal bene, potendo, ma
sapere intrare nel male, necessitato. Et etiam si curi di non incorrere in
periculosi tentennamenti, mettendo in discussione con li sudditi ciclisti,
proponimenti et ordini che alla partenza essi iudicarono buoni.
Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la
fede nello percorso dato e perseguirlo con integrità non ostante lo
volubilissimo et instabile umore de li sudditi, ciascuno lo intende; non di
manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli principi che della fede
hanno tenuto poco conto e che hanno ceduto a’ lamenti delli uomini, et alla
fine sono tornati indrieto da’ loro disegni, e per volerne contentare alcuni,
non ne contentarono niuno, sicché lentamente ruinorono trascinando seco nella
ruina anche li sudditi virtuosi. Perché, oltra alle cose dette, la natura de’
ciclisti è varia, et è facile a persuadere loro con lo benigno tempo, ma è
difficile a comandarli nelle intemperie, massime se la milizia è composita da
un intiero branco di lavativi che si lascia intimorire da paulule gocciole d’aqua.”
Era uno dei peggiori incubi che angustiava le notti
del presidente: avere alla partenza un copiosissimo stuolo di proseliti ciclisti
e vederseli portare via, uno dopo l’altro ad ogni bivio, dalla neghittosità
loro e del clima. Nella sua crudeltà il destino è stato compassionevole perché
ha sì avverato l’incubo, ma lo ha fatto in una fase stagnante della stagione,
quando le mete sono deprezzate e le perdite di chilometri non feriscono la
competitività della squadra, che rasentando la nullità, difficilmente può
peggiorare per un banale allenamento mancato o ridotto.
Eppure alle 8.40 il cielo e la copiosa milizia non
promettevano una giornata così uggiosa e abortiva. Ce n’erano tanti e di ogni
estrazione atletica. Caparrini era riuscito a combinare alcune presenze che
simultaneamente sono rare quanto le congiunzioni astrali, vedasi il quintetto
Bagnoli L., Boretti, Giunti, Pagni, Pucci la cui probabilità d’incontro è
stimata circa 1/5! (0,008333); era riuscito a convincere ancora due ospiti già
collaudati come Borchi e Ziodipucci ed aveva riconfermato il quintetto dei più
stabili, Bertelli, Boldrini, Chiarugi, Nucci, Tempestini.
Sembrava tutto così normale fino alle prime gocce
sugli occhiali del presidente, che hanno cominciato ad appannargli le lenti
insieme con la mente. S’è visto subito un Caparrini stranamente inquieto
vagare con lo sguardo fra il grigiore delle nubi e le facce già rinunciatarie
di alcuni sudditi, e nondimeno vagare con la bici, in cerca di vane opinioni
concordanti e confortanti, da una parte all’altra del gruppo che si stava
pericolosamente frammentando secondo le varie fazioni decisionali, oscillanti
fra gli irrevocabili del “tirem innanzi” e i nichilisti del “torniam a
casa”. Nel mezzo stava un’indeterminata sfumatura di “cambiam percorso”
o “decidet voi”, che si sarebbe potuto facilmente plasmare con la volontà
incontrovertibile d’un condottiero forte e astuto. In quel momento il gruppo
aveva bisogna di un principe machiavellico e s’è ritrovato invece un re
travicello, sballottato di qua e di là dal ghiribizzo dei singoli e
dall’illusorio inseguimento di sprazzi celesti che si trasformavano ben presto
nelle nubi imbrifere che si volevano fuggire.
In breve, Caparrini ha terminato un macchinoso e
piovigginoso inviluppo sul Montalbano con 3 soli sudditi e 60 soli chilometri,
tutto questo per venire incontro a quattro o cinque lavativi che alla prima
occasione gli sono scappati di sotto il naso per rifugiarsi in una pasticceria
del centro. Caparrini è troppo buono, ma dovrebbe imparare qualcosa da
Machiavelli. “Ma quando el principe è con li eserciti et ha in governo
multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di
crudele, perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito né disposto
ad alcuna fazione. Intra le mirabili azioni di Annibale si connumera questa,
che, sendo alcuni soldati sostati contra el suo volere in una hosteria per
manducare et uccellare, elli prese lo capitano de li rebelli sostatori, lo impalò
coram populo e poscia cavolli dallo stomaco sventrato tutto lo lardo e li
dolciumi ch’el miserrimo aveva ingurgitato.”
Meditate, Pagni e Nucci, meditate.
01/12/2002
Dopo il Giro di Pulcinella
Il tracciato del Giro 2003, che tutti già conoscevano, ora lo conoscono anche gli altri. Il segreto di Pulcinella è stato finalmente svelato con la solita teatrale messinscena milanese che ci regala un’unica carnascialesca sorpresa, il monte Zoncolan affrontato dalla parte sbagliata, quella planare ed anodina che sale da Sutrio e si beffa dell’opposta ascensione mistica di Ovaro, dove si sarebbero esaltate le virtù sopranaturali di molti ciclisti, pagati e paganti. Un vero spreco di risorse geografiche. Difficilmente si potrebbero trovare nella letteratura mondiale esempi altrettanto eclatanti di sottoutilizzo di un oggetto pregiato. Ci vengono in mente, tanto per restare in casa Empolitour, la lussuosa Pinarello dell’ipopedalante Boretti, il ciclocomputer pluriaccessoriato dell’insipiente Pagni o le paia di fette biscottate Mulino Bianco consumate da Bitossi nel contesto d’una luculliana colazione a buffet. Li abbiamo citati anche per cominciare da chi non c’era ed entrare subito nell’attualità del nostro ciclismo, evitando ora e per sempre altre fonti d’amarezza che il ciclismo degli altri a volte ci propina.
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi”. Lo diceva Neruda senza pensare al fondamentalismo topografico dell’Empolitour che ogni tanto si difende da questa morte lenta inserendo nel suo ripetitivo girovagare qualche effimero bagliore d’estro. Come la piccola salita di Santa Cristina in Salivolpe, così denominata dagli antichi, convinti che soltanto uno snello e astuto animale a quattro zampe potesse percorrerla senza ribaltarsi. Noi non abbiamo lo Zoncolan, ma possiamo pensarlo estendendo con la mente questo impervio tratturo qualche migliaio di metri più in su verso il cielo. In realtà la salita è una misera rappresentazione in due atti intervallati che nella loro fierezza massima non superano i cinquecento metri. Una caratteristica di queste due succulente porzioni è la presenza, a distanza di circa un chilometro l’una dall’altra, delle cosiddette “svolte gemelle”, due rampe curvilinee di nobile pendenza identiche fra di loro, cosicché il ciclista, se viene respinto dalla prima, può subito ridare l’esame sulla seconda ed ottenere la licenza sull’ultimo strappo rettilineo e viscido prima di un cartello di stop che tutti a quel punto sono ben lieti di rispettare ossequiosamente. I duri di comprendonio possono invece ridiscendere a valle da San Pancrazio e ripercorrere la salita con un breve circolo virtuoso finché non la imparano.
Dal punto di osservazione dello stop si può passare in rassegna tutta la scolaresca. Vediamo così Chiarugi torturare la catena con un pesantissimo ventuno, Nucci guaiolare dolorosamente come la volpe di Santa Cristina, Boldrini barrire secernendo bile mentre mazzola crudelmente i pedali, Tempestini biascicare impettito sul sellino, Borchi digrignare disteso sulla canna, Bertelli avvampare con le chiome zampillanti di sudore, Giunti sibilare come un oboe contralto, Bagnoli L. divincolarsi sulla carreggiata con andatura anguillesca che impedisce al retrostante Caparrini di seguire una lineare traiettoria convulsiva accompagnata da un bel fiato di lamentose trombe pentavocaliche (ah, eh, ih, oh, uh).
Caparrini arrivato allo stop parla di salita insensata. Così gli risponde ancora Neruda. “Lentamente muore chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati”. Il Salivolpe era un consiglio insensato a cui Caparrini per fortuna non è rimasto sordo. Si è così guadagnato dieci minuti in più di vita da spendere su una di quelle salite lunghe e regolari che gli piacciono tanto. Nell’affrontare questa insensatezza il presidente non temeva per sé. Sa di essere invulnerabile con quell’ampio e rotondo ventinove in mezzo alla ruota, e sotto sotto forse si diverte, anche se non lo ammetterà mai. Temeva per i suoi discepoli più deboli che si sarebbero potuti sdegnare davanti a quelle masochistiche impennate. Invece alla fine li abbiamo visti tutti rosei e arzilli a cominciare dal veterano Borchi (la cui debolezza è però tutta da dimostrare) che ci sta prendendo gusto, con quella maglietta di lana anni settanta nascosta sotto una larghissima casacca giallo-rossa. Pagni è avvertito. Un’altra assenza impropria e perderà il titolo di medico sociale, non quello di arconte eponimo delle soste perché Borchi si è già schermito e non è affatto disposto a nutrirsi di lardo di Colonnata dopo una salita.
17/11/2002 Strane presenze
In tale e tanta abbondanza d’odierne presenze,
vogliamo cominciare con l’assenza, quella di Nucci il quale, per
giustificarla, invece di mandare il certificato medico ha mandato direttamente
il medico, l’esimio Borchi nazionale in bici e calzamaglia invernale. Si narra
che Nucci la settimana scorsa si sia distinto in due fughe silenziose che
aspettano ancora un perché. Il caso, psichiatrico, è stato subito archiviato
dai compagni, da tempo adusi agli stati ciclotimici del segretario. L’unico
che non l’ha presa bene è stato Boldrini vittima, pare, durante una singolar
tenzone sul San Gimignano, di un' annaffiatura a base di maltodestrine sulla
nuda capoccia da parte del suo più pungolante avversario. Borchi, non convinto
di poter certificare la sanità mentale di Nucci, gli ha così imposto una pausa
di riflessione, diplomaticamente sorretta da un presunto ascesso gengivale.
Le stranezze della giornata finiscono poco dopo la
partenza, quando Caparrini fa la conta e scopre una maggioranza d’inattesi. In
un grigiore smorto e poco promettente i più attesi erano Boretti e Tempestini,
molto in sintonia con questi climi, Tempestini perché è corridore da bagnato,
Boretti perché è corridore smorto. Dalle premesse si capisce che non si sono
visti. Boretti non sorprende poiché, essendo inattendibile, quando è atteso
non si presenta. Ma poiché noi sappiamo, in virtù della sua inattendibilità,
che quando è atteso non dobbiamo attenderlo, allora diventa automaticamente
attendibile, perché basta attenderlo quando non è atteso. Insomma, se è
attendibile, è inattendibile; se è inattendibile, è attendibile. È un
paradosso logico di autoreferenzialità, come quello del barbiere che rade solo
quelli che non si radono da soli e quindi egli stesso, se si rade non può
radersi, se non si rade può radersi. L’attesa di Boretti come la rasatura del
barbiere porta ad una situazione indecidibile. Tempestini, che a differenza di
Nucci, Boretti e dello stesso narratore, è persona normale e ammodo,
sicuramente avrà avuto giustificazioni normali e ammodo, come febbre, diarrea o
impegni coi figlioletti.
Si diceva dunque di un collegio di presenti insoliti.
Oltre alla minuta e tenace sagoma di Borchi, Caparrini vede apparire, in ordine
decrescente d’incredibilità, Bagnoli L. su strada bagnata, Boldrini, Giunti
(altri due tipi da ciclismo asciutto), Pucci con lo zio e un omino che sembra
Peppiniello di Capua da vecchio e il bionico Trasacco nonostante
l’inverecondia del percorso. Baricci, Bertelli e Chiarugi che erano invece
attesi sono anche venuti, mentre Pelagotti assolutamente inatteso, non è
assolutamente comparso come gli succede ormai da mesi.
Tutti quanti bastavano per tirare su un gruppo
pachidermico, salutato spesso dai clacson di guidatori riconoscenti; ma può
anche darsi che qualche presenza ci sia sfuggita, perché di tanto in tanto, per
l’irresistibile lentezza di marcia, s’impaniavano nelle maglie del plotone
altri eterodossi, e non era facile capire la differenza fra l’occasionale e lo
stabile. Per esempio, uno con fascia paraorecchie e mountain bike a ruote fini
s’è aggregato e disgregato con la stessa indifferenza altrui. Un altro dai
lineamenti atletici e invernali ha risvegliato Trasacco e la velocità sul
Chiesanuova mentre Bagnoli e Caparrini di lì a poco si sarebbero estirpati i
manicotti per gigioneggiare beatamente estivi, per giunta Bagnoli coi
pantaloncini a giro-vita senza bretelle di cui esistono ancora rari esemplari
dimenticati nei bauli di qualche anziano ciclista.
E a proposito di anziano ciclista, per dimostrare la
caducità dell’odierna compagine anche Peppiniello di Capua svaniva nel nulla
prima di San Donato in Poggio, meta di una sosta Pagni dai risvolti
irripetibili, poiché per la solita caducità delle relazioni umane, Bertelli
Chiarugi, Borchi e Trasacco decidevano di eluderla filando via col favore dello
scirocco e delle zie che attendevano la Bertelli.
Eludere la sosta Pagni con l’Empolitour è come
imboccare la corsia d’emergenza in autostrada durante una coda: è un atto
considerato delittuoso che ti fa arrivare molto prima e più speditamente a
destinazione mentre tutti gli altri fermi ti additano con disdoro. Però è un
ebbrezza da provare almeno una volta nella vita.
03/11/2002 ACLI
Atti Ciclistici Liberamente Interpretati. Se dopo due
giorni sostituiamo il ciclismo muscoloso di Boldrini e il ciclismo impulsivo di
Pucci col ciclismo ridanciano e bulimico di Pagni, è prevedibile che oggi si
parlerà poco di ciclismo. Il fatto di aver usato questa parola già quattro
volte può bastare, pur ricordando a coloro che soltanto adesso si fossero messi
in ascolto o in visione, che i personaggi qui citati, inseriti in un contesto
umano più generale di quello strettamente ciclistico, si possono definire a
buon diritto atleti, capaci di pedalare su un centinaio di chilometri di ameni
colli senza perdere per intero il ben dell’intelletto. Detto dunque della
formazione schierata, molto simile ma più godereccia e rilassata di quella
d’Ognissanti, veniamo alle riflessioni a ruota libera che si perdono in un
altro cielo bigio e asciutto, gli odori e i rumori del quale, senza
l’interposizione turbativa di Boldrini, si riescono a percepire nella loro
pienezza.
Azzarda Caparrini L’Inseguimento. Ovvero, i
paradossi di Zenone. Riuscirà la ruota di Caparrini a raggiungere quella della
Bertelli? La domanda è meno paradossale di quanto sembri perché in questo caso
Achille Caparrini è più lento della tartaruga Bertelli la quale, oltre a
pedalare a scartamento ridotto per scelta viscerale, indossa il sudorifero
carapace della maglia a maniche lunghe, nonché il gonfio e penzolante basto da
manubrio che vale poco meno di un rimorchio. Sulla salita di Tonda osserviamo la
ruota d’Achille dietro a quella della tartaruga guadagnare prima un metro, poi
mezzo, poi un quarto, un ottavo, un sedicesimo e così via senza mai
raggiungerla. Zenone aveva ragione, fra Caparrini e Bertelli c’è
un’incolmabile distanza d’infiniti tratti sempre più brevi, accompagnati da
respiri caparriniani sempre più lunghi.
Attrezzo Computerizzato Largamente Inutile. Ovvero la
sindrome di Hal. Pagni rinnova orgogliosamente un computerino di bordo che,
oltre al banale ruolo di tachimetro, odometro, altimetro, clinometro,
contapedalate e cardiofrequenzimetro, offre a personale non specializzato anche
le funzioni di defibrillatore, sonar, astrolabio e laser a eccimeri. Inoltre,
contrariamente alle teorie di Alan Turing sull’intelligenza artificiale, è
dotato di uno speciale programma di autocoscienza che lo porterà, dopo qualche
mese di inutilizzo, a ribellarsi all’insipiente acquirente. Il costo
dell’oggetto, sommato a quello del corso semestrale d’addestramento
all’uso, è dieci volte superiore al valore attuale della spartana bici
Daccordi che lo trasporta. Come ama dire icasticamente il presidente, un maiale
col fiocco.
Avambraccio Coperto Liberismo Incerto. Ovvero,
l’entelechia del manicotto. A parte l’improvvida Bertelli, tutti gli altri
in questa mezza stagione si beano di tale sacrosanto indumento, spesso oggetto
alla partenza di amletici algoritmi decisionali di tipo dicotomico (manicotti sì,
manicotti no). La ratio ontologica del manicotto risiede nella sua estirpabilità
secondo la legge del tutto o nulla. Quando è in funzione, il manicotto deve
ricoprire l’arto dal processo stiloideo del radio all’articolazione
scapolo-omerale, quando è disattivato deve essere estirpato dal braccio e
ripiegato nella tasca omolaterale. Questa è la sintesi del dogma secondo
Bagnoli L. e il suo adepto Caparrini i quali, una volta denudate le braccia, non
tornano mai sui loro manicotti, e questo spesso avviene ante motum, nel
senso che i manicotti rimangono a casa. Sono riprovati dai puristi i
ripiegamenti volontari a fisarmonica sul polso, come si sono visti fare a Nucci
in salita, perché sottintendono indecisione e possibile resipiscenza, e
massime, sono considerati dannosissimi i cali involontari della circonferenza
elastica prossimale sul bicipite, che creano fra manica e manicotto
l’esposizione di carne viva, soggetta così a corrente d’aria detta
iperbolicamente bora. Tempestini (nomen omen) è stato l’esempio più palese
di effetto-bora coi suoi manicotti neri a barlaia, ma l’effetto era talmente
palese che ancora si pensa che fossero erroneamente gambali. Per scongiurare
l’effetto-bora, molti, fra cui lo stesso Caparrini, utilizzano il metodo supra
manicam anziché l’ortodosso sub manicam. Sulla legittimità di
tale variante si attende ancora il giudizio del comitato etico che ha già
espresso parere negativo sull’uso a permanenza perpetrato da Chiarugi; perché
nell’entelechia del manicotto sta la sua provvisorietà e chi lo indossa deve
prima o poi estirparlo, altrimenti cade in un reato di pavidità più grave di
quello commesso dalla Bertelli con le sue maniche lunghe, poiché col manicotto
a permanenza si pecca due volte: una per aver coperto le braccia, una per non
averle poi scoperte pur essendo possibile.
Assai Copiosa Libagione Interciclistica. Ovvero, il
compromesso storico. Laddove non riuscì Berlinguer, è riuscita l’Empolitour.
Il primo cambio di bar nella storia delle soste Pagni è avvenuto a Villamagna,
tra il Circolo ARCI, privo di paste, e il Circolo ACLI, fornito di un curioso
manufatto battezzato sul momento pesca doppia. A vederlo sembra una specie di
scroto d’elefante zuccherato in superficie. È simmetrico e molliccio,
costituito da due sferoidi appiccicati insieme da un budello interno.
Separandoli, ma soprattutto addentandone il fine involucro, rimaniamo stupefatti
da una ridondanza di crema mai vista prima. Lo stesso Pagni, titubante sulle sue
capacità di consumazione integrale del pezzo e deciso così inizialmente a
spartire i due sferoidi, dopo il primo morso di crema decide per un compromesso
storico: non uno scroto intero ma due sferoidi di due scroti diversi, sviscerati
per il resto anche da Nucci e Bertelli.
Che dire della salita finale di Bosco Tondo? Atleti
Corpulenti Lentamente Incedono. Ma comunque Abbiamo Corso Lietamente Insieme.
01/11/2002 Fenomeni
periodici
Passano gli anni, i mesi e se li conti anche i
minuti. Nella tavola dei fenomeni periodici dell’Empolitour la costante di
tempo ha come unità di misura la settimana. Ci sono due cicli ciclistici
isocroni e sfasati di un giorno: quello della domenica che tutti conoscono e
quello del sabato che rientra fra le regole non scritte e che Caparrini non ha
mai voluto istituzionalizzare per timore di trasmettere un’immagine troppo
allenata della sua squadra. Questa impermutabile ciclicità conforta assai
l’indole circolare del presidente e il suo amore per i ricorsi e per un
ciclismo armonico semplice, quello che prima o poi ripassa sempre dai punti
fissi. Può compiere un’orbita lunga come una cometa, ma ripassa.
La festa infrasettimanale è però un turbamento
temporale che mette a dura prova le riserve geografiche del presidente,
costringendolo a piccole deviazioni dal rito antico ed accettato, per dimostrare
al pubblico di non essere affetto da quella perniciosa sindrome detta leblanchismo,
dal nome dell’organizzatore del Tour che ogni anno ci stupisce col suo spirito
d’innovazione degno di fotocopiatrice.
Era dai tempi remoti dell’esistenza in bici del
ciclista interruptus Centola, che non si passava da San Gervasio, una variante
studiata per presentare sotto nuova luce località come Palaia, Peccioli e
Montefoscoli ed annesse insipide salite. Senza contare il primum movens
di tanta ardimentosa riproposizione, e cioè l’Orangina-unovirgolazerotre di
Montefoscoli.
San Gervasio è un paese che nessuno vede ed una
strada che conserva inalterate le stesse buche di dieci anni fa. Passano gli
anni, i mesi e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza
essere cresciuti. Ormai non cresceremo più. Allora c’erano Caparrini, Bagnoli
L., Nucci e Chiarugi. Oggi c’erano Caparrini, Bagnoli L., Nucci e Chiarugi.
Accompagnati da Bertelli, Boldrini, Pucci e Tempestini che a quei tempi non
erano nemmeno nati.
Sì, oggi c’era proprio Bagnoli L., non è una
finzione letteraria. Era proprio lui, in carne (molta), ossa (molto coperte) e
completino estivo (molto alleggerito). Anche lui è un fenomeno periodico e la
sua unità di misura è il quadrimestre. Si rivede in qualche sessione d’esame
per l’ammissione al Giro, poi trascorre lunghe pause aciclistiche,
concedendosi, si dice, fra un innesto e una potatura, qualche frettoloso studio
del Pietramarina. È un esempio paradigmatico del principio di conservazione
della massa. Dopo dieci anni ha riassaporato le buche di San Gervasio con la
stessa bici Colnago, gli stessi copertoncini Vittoria, e gli stessi pantaloncini
neri fuori corso. Stupisce semmai la sua evoluzione toracica. Per la prima volta
ha infatti abbandonato la primordiale maglietta-lenzuolo con scollatura
decimetrica, per l’evoluto modello con incernieratura bisecante. Continua però
ad esibire cappellini flosci e rigonfi come i medievali cappucci a foggia, che
si premura di aggiornare ai cromatismi di squadre professionistiche in attività,
giustificando così le sue tormentate partecipazioni al Giro.
Di solito la presenza di Bagnoli L. dà fomento alla
narrativa grazie alle sue proverbiali crisi cartesiane, quelle in cui la res
cogitans rimane separata dalla res extensa (nel suo caso molto extensa)
mentre assiste indifferente al suo collasso probabilistico. Qui il discorso si
fa complicato. Come le particelle elementari che secondo la meccanica
quantistica esibiscono complementariamente proprietà di onda e di corpuscolo,
allo stesso modo anche Bagnoli L. può definirsi un fenomeno quantistico. Egli
pedala in una sovrapposizione di stati, mentale e materiale, e può prevedere in
anticipo quando il mondo esterno, sotto forma di salita, decreterà il collasso
della funzione d’onda fisica, lasciandolo pienamente estrinsecato nella sola
funzione mentale. In altre parole, è la strada che decide, come un osservatore
sperimentale, quale aspetto di Bagnoli L. sia misurabile, ed in genere è quello
mentale in salita e quello corporeo in pianura ma soprattutto in discesa, dove
si riconduce ad un fenomeno di meccanica classica e la sua speditezza è
spiegabile banalmente dalla fisica newtoniana col concetto di massa
gravitazionale.
È innegabile che tutti oggi aspettassero una bella
crisi prosaica di Bagnoli L., ma qualcosa non ha funzionato. La capacità di
prevedere la crisi dipende dallo sviluppo di un sistema di equazioni
differenziali che tiene conto del suo stato di allenamento tendente a zero e dei
dislivelli del percorso, anch’essi oggi tendenti a zero. Quando Caparrini ha
annunciato la cassazione dell’ultima salita di San Miniato, in favore d’un
annacquamento pianeggiante della minestra risultata troppo corta a causa dei
calcoli errati del topografo Chiarugi, si è subito capito, da una serie di
atteggiamenti fin troppo espliciti di Bagnoli L., che quello sarebbe dovuto
essere il cruciale punto di collasso. Non si spiegano altrimenti i suoi attacchi
liberatori in pianura insieme allo psicopatico Nucci, i piegamenti ritmati delle
braccia coi pugni staccati dal manubrio ed i saltelli sulla ruota posteriore
come un gioioso fanciullo. È questa un’altra dimostrazione del fenomeno di
complementarietà quantistica fra mente e corpo: quando il corpo diventa
l’essenza predominante, è la mente che collassa.
20/10/2002 Chianti
non fermentato
Prepariamoci a declamare un ennesimo carme bucolico,
nel nome di un ciclismo agreste, leggero, rarefatto, discreto e misurato come
quello che l’Empolitour sta cercando di teorizzare e divulgare alle masse.
C’erano ospiti illustri ad osservarci, addirittura il bionico Trasacco,
infusore di potenza e celerità in tutti i gruppi visitati, addirittura Cerri,
direttamente maturato dal recente indimenticabile Tour, addirittura il nobile
Seripa de Roma, migrato apposta insieme alla squadra di calcio per
l’importanza dell’evento.
Non potevamo sfigurare davanti a tanti autorevoli
occhi e non l’abbiamo fatto. L’Empolitour ha dato il meglio di se stessa: ha
imposto un’iniziale andatura podistica, ha sfoggiato una caotica garrulità
multidisciplinare, si è scorporata su ogni rilievo, ha prodotto una bella
dimostrazione di riduzionismo di massa, si è superata nelle esemplari
lungaggini della sosta-Pagni, dotata di ogni regolare attributo ontologico,
paste ridondanti, tramezzini viscidi, bibite imbevute, unzioni appuzzanti,
mescolanza catartica coi degenti del bar Italia di Castellina, fra i quali è
stato estratto il malcapitato fotografo per l’esecuzione del risibile doppione
iconografico, e per finire, di fronte all’incolmabile cumulo orario, ha
sfoderato una salva d’accelerazioni di ritorno ad ogni pensiero di familiari
in ansiosa attesa prandiale.
Non abbiamo sfigurato. Trasacco e Cerri sono rimasti
fino in fondo, resistendo alle innumerevoli tentazioni di fuga a velocità
ciclistica. Seripa, pedalando silenzioso dentro pantaloni color topo, incamerava
altri tasselli di bel mondo da appendere nella sua già ricca pinacoteca della
memoria ciclistica. Perché questo era il Giro del Chianti, che è il giro
bucolico per eccellenza, dedicato quest’anno al dio Pan, protettore delle
campagne e dei pastori; e noi infatti abbiamo pedalato come un mansueto gregge
che transuma, raccolto intorno al vigile e lento incedere di Caparrini, lungo
l’immodificabile sentiero luminoso della Classica di Chiusura.
Un cammino ritenuto troppo audace da una quaterna di
riduzionisti, Baricci, Boldrini, Boretti e Tempestini che si ormeggiavano nella
rada di Greve, privando la storia, chi di sobillazioni e intrighi tattici, chi
di deflagrazioni e disfacimenti fisici. Un cammino contemplativo per tutti gli
altri che si sono inebriati nel Chianti al ritmo di un saporoso livellamento, in
un impegno strenuo per la causa di anonimato comune da cui siamo riusciti
ugualmente ad estrarre alcuni interessanti, seppur non inediti, dettagli.
Il ponzamento di Caparrini. A noi che lo conosciamo
non fa più paura, ma per un ospite ignaro è un’esperienza stupefacente
udire, come scriveva Annibal Caro “il fiato ansio scotendo le gravi membra e
l’affannata lena”. Chi cerca d’imitarlo per burla rischia l’alcalosi
respiratoria.
La metamorfosi della Bertelli. Chi la vedesse per la
prima volta stenterebbe a scorgere in lei l’ascetica donna proiettile dei
tempi andati. Ha consumato una razione epicurea di viscido tramezzino,
pasticcini, bibita e caffè non inferiore a quella del pontefice massimo Pagni.
In discesa è rimasta incollata alla ruota di Caparrini, che equivale a
viaggiare in autostrada dietro un’Ape, una suora o un omino col cappello.
Il giubbino di Busoni. Questo infrequente
partecipante ha nell’Empolitour solo un’interiorità di riserva. La vera sua
essenza è esteriore, nel casco e nel giubbino rossonero gonfiabile dove si
legge GUMASIO MTB, il gruppo che nell’empolese insegna l’applicazione alla
mountain-bike della filosofia eroico-godereccia propugnata sull’asfalto
dall’Empolitour.
I calzini di Pagni. Si cade in basso ma era superfluo
parlare della sua voracità o delle sue carenze atletiche. Mentre è rimarcabile
che, dopo la lana merino, il filo di Scozia ed i collant, egli sia riuscito
finalmente ad approdare ad un paio confacente all’attività ciclistica.
L’attendismo di Nucci. È lì che vivacchia fra
l’incudine del valente scalatore e il martello degli agenti patogeni, di cui
ogni anno è insuperabile collezionista. A Radda prova a misurarsi con Trasacco
eseguendo un’imitazione molto veritiera di respirazione caparriniana.
Il fuoco di Pucci. Scalcia come un puledro sulle
prime rampette e fa bene, perché vivacizza una corsa altrimenti stagnante nel
grigiore della mediocrità. Ma quando va in crisi lo scoprono subito perché non
fa in tempo a sentire la fatica nelle gambe che il suo volto s’attizza di
vampe. Cosa che avviene puntualmente a Radda.
L’acqua di Giunti. La regolarità delle sue
pisciate è un fenomeno ancora da studiare che sta destando interesse fra gli
scienziati. Dai primi dati a nostra disposizione si prefigura un habitus
originale rispetto ai precursori Vinicio (pisciatore praecox) e Boldrini (pisciatore
esibizionista perseverante). Le ipotesi fisiopatologiche sono ancora svariate e
fantasiose (servomeccanismo cronobiologico, feed-back sensoriale con
l’ambiente o semplice scusa per fermarsi quando il gruppo va troppo forte).
Il carisma di Chiarugi. Quando ha deciso di svoltare
a destra per intraprendere un’imprevista ed estrosa scorciatoia per Radda con
punte di pendenza minima del 10%, fidando in un accenno di proselitismo, non
solo nessuno l’ha seguito, ma molti nemmeno si sono accorti della sua assenza.
Ci meritiamo lo Zoncolan.
Questa era la Classica di Chiusura. Da domenica nuova
vita con l’Empoli-Lucca, più piatta del mondiale di Zolder. Ci meritiamo
Cipollini.
13/10/2002 La luce
dell’est
Accade troppo spesso negli ultimi tempi che
l’Empolitour pedali come un singolare più che un plurale, come un amalgama di
particelle diverse ma coese da una forte attrazione gravitazionale. Vediamo il
gruppo modellarsi sulla strada priva d’asperità ed avanzare con movimento
ameboide, perdendo raramente qualche propaggine che subito si riaggrega come
fanno le gocce d’olio sull’acqua. È il trionfo dell’idillio ecumenico che
depura il ciclismo dalla fatica e lo avvicina alle delizie conviviali. Forse non
saranno d’accordo quelli come Boretti e Pagni, che anche in questi arcadici
frangenti penano di sudori reali, ma il concetto ha comunque valore didattico.
Se poi la natura si offre complice agli sguardi di festosa mansuetudine, allora
ogni elemento pulsatile di questo coacervo semovente può vivere istanti di
silenziosa emozione, riscoprendo con gli occhi del fanciullino le bellezze della
semplicità. Si scoprono per esempio mille ragnatele luccicanti di nebbia e
pensiamo a quante timide vite di ragno si nascondano fra gli innocenti arbusti.
Il ragno non conosce l’esistenza del ciclista come l’insetto. Ad eccezione
di qualche esemplare che dimora da mesi negli anfratti della Colnago di Bagnoli
L., il ragno non ha occasione di interagire con chi pedala. L’insetto può
urtare, pungere, annegare nel sudore o nelle lacrime, perdersi nella maglietta o
soffocare in gola. Ecco la differenza fra insetti e aracnidi, che nessuno ci ha
mai spiegato alle elementari.
Si sente che mancano i sobillatori Boldrini e Nucci.
Al loro posto sono arrivati Battisti e Mogol. La nebbia che respiro ormai si
dirada perché davanti a me un sole quasi caldo sale ad est. La luce si diffonde
ed io questo odore di funghi faccio mio. Era proprio così. Entrati in
Poggibonsi, dopo piatti chilometri freddi e opachi, un venditore ambulante di
funghi è apparso insieme alla luce dell’est ed allora un multiforme ciclista
collettivo formato da dieci particelle, s’è reso chiaro e distinto. Egli
muoveva la testa con la fascia giallo-putrido di Caparrini e il tovagliolo
profumato di sebo di Boretti. Stringeva il manubrio con i guanti bianchi da
cameriere di Chiarugi. Fendeva la nebbia con gli occhiali anabbaglianti di
Giunti. Si proteggeva le cosce dall’umidità coi gambali autoreggenti della
Bertelli e i piedi coi copriscarpa da Gatto con gli Stivali di Pucci ma aveva
braccia livide e orripilate come quelle ignude di Pagni. Per farsi scorgere
nella bruma si era profumato col dopobarba di Bagnoli A. e rumoreggiava con le
ganasce masticando la cilingomma di Tempestini. Qualcuno giurò d’aver visto
anche la polvere degli sterrati di Busoni miscelarsi al vapore acqueo e poi
svanire prima che la luce dell’est potesse dimostrare questa rarità.
Il composito e scomposto ciclista sulla salita di
Cipressino si allungò, mettendo avanti la testa di Chiarugi e indietro il culo
di Boretti, gli antipodi dell’attuale atletismo, separati sulla vetta di
Barberino dal solo spogliarsi di gambali. Divorò quindi otto paste non
assortite con la dentiera di Pagni e sorseggiò altrettanti caffè, per
intraprendere tonicamente il cammino di redenzione dalla fiacca. Battisti e
Mogol rividero la veste dei fantasmi del passato, ovvero la veste bianca del
biancocrinito Castiglioni e poi quella di Nucci, che sembrava proprio vero nel
cimentarsi con un giovinetto espositore, senza tema d’inverecondia, di una
suppellettile a foggia di roseo casco ricevuta in dono durante una
manifestazione ciclobubbonica denominata Pedalata Rosa. Sembrava tutto
così vero che i due sprintarono pure con Tempestini per la conquista dello
storico traguardo volante di Montelupo Sud. E il viso di Nucci, dopo questo
sforzo sovrumano, arse come un sole rosso acceso, quello che aspettavamo da ore.
06/10/2002 Uno virgola
zero tre
“Così dai distrutti sentieri e foschi prese nome
il paese di Montefoscoli”. L’insegna davanti ad un tabernacolo chiamato
“La Figuretta”, nei pressi del Tempio di Minerva Medica, offriva sul ciglio
della strada una lunga storia etimologica da cui abbiamo estratto la
conclusione, mentre la Bertelli era intenta a trafugare polline e il gruppo
s’allontanava verso Palaia dopo una lauta sosta. A Montefoscoli non esistevano
finora esperienze d’approdo. Qualche rotta di bassa stagione tutt’al più
poteva lambire i suoi rilievi. Non come Palaia, dove sono conservate tracce
d’Empolitour risalenti al periodo fetale. Palaia ha una fama
extraterritoriale. Non solo per le ciliegie. Mia mamma di fronte ad una
richiesta o ad un evento inaspettatamente esorbitante, suole esclamare con
ironica costernazione “Meglio Palaia!”, come per dire, “Ci
mancava anche questa!”, e non ne ho mai capito il perché. L’espressione
è abbastanza diffusa in Alta Valdelsa ma non compare nel Piccolo Vocabolario
Empolese curato dal nostro Lambruschini.
Abbiamo così scoperto che Montefoscoli deve il nome
ad una giornata come quella in cui l’abbiamo conosciuto, fosca appunto,
bisognosa di manicotti (Caparrini, Chiarugi, Giunti), di maniche lunghe (Bertelli,
Boldrini), di gambali (Tempestini) o di braccia ignude (Pagni). Doveva toccare a
Castelfalfi la mezzora di raccoglimento con sfilata intra moenia per
abbeveraggio, ma con stupore e disappunto apprendiamo che pure gli spettatori di
rally sono organismi eterotrofi, che cioè abbisognano di nutrimento
dall’esterno per la loro attività contemplativa di rombi e polveroni. Si
pensava ragionevolmente che coloro che stanno fermi a guardare le macchine
campassero di fotosintesi clorofilliana non di pane e salame acquistato nei bar.
E invece è grazie all’invadenza di una di queste mandrie pascolanti
nell’unico bar di Castelfalfi che si è scoperto Montefoscoli. Un ripiego
folgorante, una rampa di lancio pungente prima del paese arroccato ed incognito
nel quale molti nutrivano dubbi sull’esistenza di un bar o esercizio
equipollente per soste-Pagni.
Cominciamo bene. Affisso alla saracinesca sprangata
del circolo ARCI c’è un foglio bollato dell’Ufficio Igiene della Provincia
di Pisa. Ma niente paura, paese che vai Bar Sport che trovi, e questo si trova
in Piazza del Gelso, dieci metri quadri densi d’umanità fra Via del Prunalbo
e Largo del Corbezzolo. A Montefoscoli non devono vivere molti ciclisti, a
giudicare dagli sguardi degli astanti quando atterra la pattuglia
dell’Empolitour, cicliste men che meno, poiché gli stessi sguardi scivolano
repentinamente dalle Gazzette e i Corrieri al culo della Bertelli. Il brusio
s’infittisce mentre quelli che sembrano principi azzurri si tolgono i regali
copricapo ed entrano a ritmo di tip-tap nel locale. Ma un prolungato vocalizzo
di Caparrini mette a tacere la platea. È lei. Nell’inconfondibile
bottiglietta a pera da 33 cc, 30 di vetro più 3 di liquido, si materializza
l’Orangina. Il gestore la utilizzava come motivo ornamentale accanto alla
frutta d’alabastro, con identici fini alimentari. A volte riusciva ad
infilarvi uno stelo di tulipano finto, perché aveva notato che quelli veri col
succo a disposizione, sebbene dolce ed energetico, seccavano dopo pochi minuti.
Quando il presidente gli spiega che nel cuore di tanto vetro smerigliato alberga
una bevanda d’elevatissimo valore affettivo e commerciale, acquistabile in
Francia a non meno di 2,5 € a flacone, e quando gli comunica di volerne
ordinare svariati pezzi, l’attonito barista corre in un vicino rifugio
antiatomico, dove ricorda di aver depositato alcune casse di tali preziose
bottigliette da usare contro il nemico al posto delle granate, e poi riemerge
con le armi in mano per distribuirle ai già dissetati ciclisti, che bevono per
voluttà non per sete, poiché l’Orangina per definizione asseta i dissetati,
i quali nell’attesa spasmodica di un sorso di tale decantata bibita salivano
copiosamente come i cani di Pavlov, perdendo dalla bocca ingenti quantità di
liquidi che naturalmente non saranno mai reintegrati da quei 3 cc d’aranciata.
Quando escono in piazza i ciclisti trovano tutta la
popolazione desta di Montefoscoli ad attenderli, e cioè una quindicina di unità
fra cui cinque opinionisti stanziali, che danno un rapido ripasso al culo della
Bertelli, quattro comari accorse all’uopo, il fotografo ufficiale che presta
subito servizio, la direttrice del museo della civiltà contadina, un espositore
con la stadera arrugginita ed una mamma con un cinquenne, l’ultimo nato nel
popoloso borgo che, Caparrini ha giurato, sarà oggetto di numerose altre
visitazioni. L’Orangina ha potere chemiotattico sull’Empolitour. E il
titolo? Siccome il barista non aveva idea di quanto potesse costare una
bottiglietta per assoluta mancanza di precedenti vendite, ha dovuto improvvisare
un prezzo equilibrato di uno virgola zero tre: un euro per il vetro e tre
centesimi per l’aranciata.
29/09/2002 29 Settembre
Seduto in quel caffè Pagni non pensava a te. Nel
caffè dei Priori a Volterra l’arconte annusava pensieri meno umani. Pensava
al ritorno come ad un verdetto e intanto un possente disco pieno di salame si
disintegrava nelle sue fauci attonite. Guardava un trentatré giri di
schiacciata che girava intorno a sé. Poi d’improvviso lui sorrise e ancora
prima di capire si trovò sul valico di Boscotondo, indenne. La sentenza era già
stata pronunciata: innocente. Pagni è ancora un ciclista. Scarso, ma ciclista e
di quelli orgogliosi. Tacciano ora e per sempre coloro che maliziavano sulla sua
presunta estinzione o conversione alla randa. I suoi flaccidi e villosi garetti
rivestiti di patetico calzino bianco lanoso continueranno ancora a trasmettere
ai pedali la loro stentata esistenza priva d’allenamento e l’Empolitour sarà
ben fiera di abbassare la velocità ed alzare la sosta pur di non perdere negli
oscuri quartieri della malavita il patriarca del ciclismo epicureo. Bisogna
soltanto adeguare i nostri mezzi. La Bertelli ha saputo che per le vie di Londra
girano reparti di medici ciclisti col defibrillatore sulla bici. Qualcuno si
dovrà attrezzare all’uopo se vogliamo che Pagni partecipi a pari condizioni
d’impreparazione atletica al prossimo e più lungo giro del Chianti. Se poi
venisse anche Bagnoli L. ne potrebbe approfittare.
Intanto però l’arconte, tomo tomo, quatto quatto,
s’è guadagnato questo preludio senza allenamento versare. E in ciò sta un
perverso meccanismo d’autocelebrazione, perché egli sapeva ed esigeva che la
totale abnegazione al giro lo avrebbe innalzato ai sommi fasti della cronaca
dopo mesi di penoso anonimato, dal quale vanamente tentava d’emergere con
qualche frusto morso a panini col lardo. Questa citazione letteraria, insomma,
è la causa, il movente, non l’effetto della sua impresa che si colloca senza
enfasi al confine dello shock cardiogeno. I suoi compagni hanno vissuto di fama
riflessa e le loro vicende sono tutte connesse con rigido determinismo alla sua
volontà primaria e incontestabile.
Anche la recrudescenza del riduzionismo, pur senza il
capostipite Bagnoli L., può essere spiegata secondo questa logica causale.
Quando a San Gimignano Pagni si è votato inopinatamente al percorso integrale,
tutti hanno capito senza troppi calcoli che il ritorno a casa sarebbe stato
posticipato di almeno un’ora. Ed è così che anche tre ciclisti attualmente
dignitosi, come Bagnoli A., Baricci e Tempestini, hanno preferito girare un
cortometraggio insieme al pingue Pelagotti, il quale umanamente, tanto più
lontano non sarebbe potuto andare con quel fagotto anteriore che in posizione
arcuata di sforzo sui pedali urta ripetutamente fra la pipa de manubrio e la
canna.
Con sobria fierezza Caparrini osserva che il blitz di
Pagni fa pendere la bilancia a favore degli integralisti, 5 a 4 grazie
all’apporto scontato di Bertelli, Boldrini e Chiarugi. Anzi, 6 a 4 perché
compare anche il compare debilitato Nucci in macchina. Boldrini è la solita
selvaggina erratica. Impallinato da Chiarugi a San Gimignano, s’invola da solo
verso Volterra, conversa con le auto d’epoca parcheggiate in piazza dei
Priori, beve il suo inveterato ed invetriato caffè, starnazza, piscia e fugge
via per sempre spargendo effluvi d’olio canforato dalle cosce adamantine.
Un sole ingannevole illumina l’agonia di Pagni. Le
sue braccia ignude s’increspano nel vento frigido. Già, il vento. Si sale
verso Boscotondo a velocità che sarebbero appropriate ad un Mont Ventoux,
rimpiangendo però la sua calura, almeno questo brama Chiarugi che non riesce a
togliersi i manicotti. La Bertelli scorge in lontananza i soffioni di Larderello,
Chiarugi ode in vicinanza i soffioni di Pagni, ma siamo già in cima. Altri
trenta chilometri propizi consegneranno Pagni nuovamente al ciclismo che lo
stava impazientemente aspettando insieme alla sua bici piena di sporcizia
fossile.
Giornale Radio: ieri 29 settembre Pagni ha percorso
127 Km alla media di 22 Km/h, senza farsi mai spingere. Una nuova canzone, un
remake ha inizio da oggi e sarà incisa su enormi dischi pieni di salame.
08/09/2002 Gola profonda
“Se quattro ore vi sembran poche provate voi ad
ascoltar. E capirete la differenza fra pedalare ed ascoltar”.
S’intravede un autunno caldo nell’Empolitour, un
autunno di lotte e rivendicazioni sociali. I sindacati hanno infatti giudicato
insufficiente il pacchetto di riforme presentato domenica scorsa ed hanno subito
presentato altre proposte rivoluzionarie che mirano a tutelare le fasce più
deboli. In particolare s’annunciano duri scontri, con comizi, manifestazioni
di piazza, girotondi e scioperi selvaggi sulla legge delle quattro ore.
Il totalitarismo dialettico di Boldrini sta portando
all’esasperazione le classi uditive meno tolleranti. “Provate voi” dicono
i fautori di questa mozione “ad ascoltare per ore ed ore le ininterrotte e
stridule orazioni di Boldrini”. Egli è loquace di default, e nessuno lo vuole
snaturare, ma ci sono giorni, come oggi, in cui tracima. Un tempo le
conversazioni in bici, tanto osteggiate dai clacson impazienti, si svolgevano in
coppie o terne con casuale rimescolamento degli interlocutori e degli argomenti.
Ora si osserva un unico oratore, Boldrini, che rimbalza da un ascoltatore
all’altro senza requie, perché la resistenza uditiva al suo timbro di voce ed
alle sue tematiche è limitata a pochi minuti anche nei più allenati, ed è
naturale che ognuno tuteli la propria incolumità auricolare fuggendo o
defilandosi.
Difficile è spiegare in poche parole i fondamenti
della retorica boldriniana. Si sente in lui una forte avversione per i sofisti
ed il loro concetto di eloquenza come sterile compiacimento della parola ornata
e dissociata dal pensiero. Boldrini dice quel che pensa e lo dice in maniera
schietta e disadorna, sottomettendo il lessico alle proprie peculiarità verbali
ed emozionali. Se per i sofisti la parola aveva funzione psicagogica, era un
rapimento dell’irrazionale, un’estasi metrica, un allettamento melodico, per
Boldrini la parola è uno sfollagente, è come uno sparo nel silenzio, un
motorino con la marmitta rotta, la frenata di un treno merci, un allarme
antiaereo, una nota a squarciagola di Nucci.
Per questo si è resa necessaria la proposta di legge
delle quattro ore. Sarà concesso ad ogni ciclista di parlare per non più di
quattro ore consecutive col rispetto di due pause sindacali di mezz’ora. Nella
fattispecie di Boldrini le due pause dovranno durare due ore ciascuna. Il
governo presieduto da Caparrini non può rimanere sordo a questa proposta che ha
più l’aria di supplica.
In margine a questo fondamentale disegno legislativo
l’odierno giro fra le notissime asperità di Palaia, Villamagna e Iano,
frequentato da quasi tutti gli stessi parlamentari della scorsa settimana, ha
offerto pochi altri interventi degni di menzione. La Bertelli ha nuovamente
proposto il famoso body conturbante, in stato di ormai avanzata lisi posteriore,
che perciò lascia nitidamente trasparire due rosee mele. In caso di
riproposizione sarà forse opportuno un regolamento sulla turnazione dietro la
sua ruota. Pagni, visibilmente provato, ha chiesto una settimana di tregua, non
dalle fatiche del pedale ma dal suo personaggio che gli impone di mangiare lardo
di Colonnata dopo una salita anche quando sarebbe intimamente desideroso di un
digiuno o di un digestivo Antonetto. Bagnoli A. e Boretti, dopo le brillanti
dimostrazioni di fedeltà all’integralismo nelle ultime settimane, hanno
richiesto come norma transitoria e finale di vietare la riorganizzazione sotto
qualsiasi forma del disciolto partito riduzionista. Ma si sa come va la storia
di questi partiti disciolti che sono peggio della Fenice. Non per nulla Bagnoli
L., ancora una volta annunciato ma assente, dai suoi lidi oziosi pare stia già
meditando il progetto di una RR, Rifondazione Riduzionista.
01/09/2002 Riforme
istituzionali
Tira aria di riformismo in sede Empolitour. Preso
atto dell’odierno svolgimento dei fatti ciclistici, il presidente Caparrini
pare intenzionato ad apportare sostanziali ritocchi allo statuto sociale, lui
che è sempre stato devoto all’usitato, al noto ed al rifatto. Più che di
riforme si tratterebbe di un adeguamento del diritto alle cose, in base alla
risaputa strategia permissivista di liberalizzare ciò che non si può
reprimere.
Il ritorno di Pagni, Boretti e Giunti, i primi due
mirabilmente bradicinetici dopo mesi di stasi, al posto dell’indestabile
Pelagotti, di una flemma ulteriore ed unanime ha accresciuto il gruppo, già
provato dalla pochezza altimetrica di domenica scorsa, ed ha introdotto ex novo
o consolidato a duratura memoria alcuni momenti evolutivi che ora il presidente
a voce di popolo dovrà tradurre in regole. Questi in sintesi i principali
argomenti che passeranno al vaglio del pensiero legiferante di Caparrini per
rendere più nuova la stagione ventura.
I crediti fermativi. Per risolvere la spinosa
questione dei ritardi alla partenza sarà consentita una gestione individuale
bilanciata di anticipi e posticipi. Gli anticipatori godranno di un bonus
mensilmente cumulabile, pari ai minuti d’arrivo in anticipo sull’orario
tabellare, che potranno spendere in termini di ritardo nelle quattro settimane
successive, dopodiché sarà azzerato (altrimenti quelli come Chiarugi
potrebbero arrivare a vantare debiti d’attesa di qualche ora). Lo spunto è
nato da Pagni che dopo una vita di posticipi ha deciso di presentarsi in sede
quindici minuti prima guadagnando un equivalente credito fermativo, nel senso
che la prossima settimana potrebbe tenere il gruppo fermo ad aspettarlo per
altrettanto tempo, senza che la Bertelli riverberi la sua martellante
argomentazione dei favoritismi cronologici concessi all’arconte e non a lei.
Piuttosto, per sua fortuna, il corrispondente debito fermativo per ora non verrà
sanzionato con nessuna misura d’anticipazione coercitiva.
Il legittimo sospetto. Tutti siamo sfiorati dal
legittimo sospetto che Boldrini sia una fava, quando lo vediamo filare via dal
gruppo senza voltarsi o attendere nevroticamente e poi fuggire spazientito per
la troppa attesa. Ma sappiamo che non è così. Egli è mite ed affabile, forse
troppo ingenuo nel credere ancora che con l’Empolitour si pedali per
allenamento. La legge sul legittimo sospetto verrà però incontro alle sue
straripanti esigenze atletiche. Qualunque ciclista potrà ricusare i compagni di
viaggio anche ante motum, se non li riterrà all’altezza delle proprie
cosce e potrà andarsene via col proprio superiore passo senza voltamenti o
snervanti attese itineranti, con l’obbligo però di percorrere la strada
pattuita (perché se gli inferiori compagni dovessero malauguratamente
raggiungerlo egli subirebbe la pena del nocchino multiplo sulla nuda zucca) e di
fermarsi ad Empoli per un’unica e finale attesa nel bar pattuito per la
sosta-Pagni post motum, unica concreta e innovativa riforma fra tutte
quelle presentate.
Morae sunt multiplicandae praeter necessitatem. Ovvero, completa liberalizzazione delle soste senza necessità di giustificazione o preallarme. Divide et impera, pensa Caparrini. Bisogna dare a tutti un po’ di potere e di visibilità, la sosta-Pagni istituzionale non basta più. Nucci e Bertelli premono da tempo per farsi intitolare una loro tipologia di sosta, Giunti, dopo il vano tentativo di Boldrini, cerca di sostituire l’estinto Vinicio dalla toponomastica delle soste minzionali. E poi ci sono quelle che nascono d’istinto, come la sosta sepolcrale di Pagni e Boretti al cimitero degli americani, per provare una globale ed antica sintonia col loro status cadaverico insorto già dopo trenta chilometri e un Chiesanuova come massima asperità. Ma poiché i cimiteri non sempre sono aperti, per istituire nuove soste bisogna consolidare quelle già esistenti de facto anche se non ancora de iure, come la sosta post motum in qualche elegante ed affollato locale a degustare aperitivi, vini, orangine et similia. Le sanzioni per gli inadempienti si preannunciano severe, anche al limite della vendetta divina. Chiarugi, per esempio, che si è sottratto con protervia al rito, dopo un chilometro ha forato, constatando in mezz’ora d’imprecazioni l’inanità della minipompa tascabile (moderno artificio molto utile a livello teoretico come conforto illusorio dall’idea d’appiedamento, che nelle moderne biciclette sostituisce l’antiestetica pompa lunga da telaio la quale, a differenza della minipompa, era anche in grado di gonfiare una gomma) e finendo l'avventura sul cerchione.
Il falso in bilancia. Tutte le dichiarazioni mendaci
riguardo al proprio peso saranno depenalizzate. Così Caparrini, che dichiara un
minimo storico di 87 Kg, non sarà perseguibile. Sulla massa di Boretti bisogna
invece intendersi, rispolverando le nozioni di fisica sulla differenza fra massa
inerziale e massa gravitazionale. Quella che dichiara la sua bilancia non fa
testo, non è la massa pedalante. Chi lo ha spinto per tutta la salita di Luiano,
pensando che l’eterea densità della sua Pinarello potesse compensare le dense
adiposità dei suoi lombi, ha fatto male i calcoli e si è trovato fra le mani
il macigno di Sisifo.
Incentivi per la purezza chilometrica. Alla luce del
secondo percorso integrale consecutivo di Bagnoli A. (compiuto tutto a
propulsione propria) e di questi nuovi servizi di propulsione impropria elargiti
dai più allenati, i riduzionismi non dovrebbero avere più ragione
d’esistere. E comunque i percorsi dell’Empolitour continueranno ad essere
talmente inverecondi che sarà moralmente molto duro ridurli. Per avere piena
applicabilità questa legge dovrà però passare all’esame della commissione
brevimirante presieduta dal riduzionista principe Bagnoli L. di cui s’annuncia
imminente ritorno.
25/08/2002 Come sono
diventati
Li abbiamo lasciati liberi un mese o poco più e già
sono altri. Sembrano uguali come le strade che sono tornati a solcare insieme,
ma sono altri.
Via Baccio si ripopola di ciclisti segnati dal tempo
nei corpi o nelle anime, alcuni coperti ancora dalla polvere dell’ozio, altri
con colori sociali sbiaditi da tanti recenti sudori, ma nessuno è uguale a come
l’avevamo salutato.
Caparrini non è più lui dal triste episodio della
pizza irredenta di Carpentras. Un mese di sedute psicanalitiche, tra fritture di
totani e blandi ammolli salmastri, non è servito a rimuovere il trauma. Alla
partenza s’infervora su banali questioni d’economia calcistica per sviare la
propria coscienza dal nocciolo del cruccio, ma si vede che non è più lui. Con
l’ingrasso repentino di Pelagotti ha perduto anche la soddisfazione del
primato ponderale. Ma il divario è minimo, non s’affligga, c’è tempo e
pizza per rimediare e dimenticare.
Chiarugi pare il solito indefesso. Quel che gli
avanza, elargisce a piene spinte a chi i suoi allenamenti agostani stenta ad
eguagliare in un anno. Eppure non è solo nel volto corrugato dall’asfalto del
Col d’Allos che egli è diverso. Una cert’uggia come quella
dell’Innominato lo sta pervadendo. La conversione è forse prematura, ma
intanto tolleranza e rassegnazione lo rendono imbelle ed incapace di affermare i
suoi anacronistici principi nella squadra ormai sfuggita al suo controllo.
Per Bagnoli A. la presenza è già un cambiamento.
Irriconoscibile è stato, se pensiamo che dopo un periodo immemorabile non si è
arenato nelle lusinghevoli secche del percorso ridotto. A vederlo così com’è,
piuttosto arrotondato e dichiaratamente ipotonico, viene da pensare che non sia
stato lui a recuperare i livelli atletici del gruppo, ma il contrario semmai.
Boldrini era la colonna portante del nostro
atletismo, perché tutti credevamo che un essere meccanizzato, anche se
difettoso in qualche addentellato, non potesse mai indulgere alle debolezze
della crisi. Oggi lo ritroviamo apparentemente nell’orrido del suo status
abituale, ma in giro si va mormorando che pochi giorni prima mani misericordiose
lo abbiano propulso sul Golgota di una salita mugellana, passo Sambuca per la
precisione, mentre recitava un mesto ed inatteso de profundis. Se fosse vera
quest’esperienza di contrizione, lungi dal mettere in dubbio la natura
transgenica di Boldrini, darebbe un risalto benevolo a tutti gli organismi
geneticamente modificati, a torto considerati dall’opinione pubblica disumani,
nocivi ed indesiderabili.
Su Nucci quando si dice che ha perso il senno è
detto tutto. Avvisaglie ce n’erano state da quel dì, ma ora che la carica
d’arconte delle soste sembra messa in discussione dall’atteggiamento
perennemente vacante del titolare Pagni, l’antico segretario ha completamente
deragliato. Chi lo ha seguito nell’ultimo mese può documentare che il suo
ciclismo si è ridotto a vagabondaggi fra enoteche e cantine sociali, ossessive
scorribande in centri storici impraticabili e ripetuti tuffi nei rovi ubertosi
di more. Fin qui niente di nuovo, direte voi. Il bello è che, per chissà quale
grave fenomeno allucinatorio, si è pure convinto di saper cantare e qualsiasi
malcapitato uditorio sarà un valido testimone della sua follia.
Sulla grazia della Bertelli non tramonterà mai il
sole, però scordatevi la bellicosa donna d’agone che irrideva la Canins e il
Mortirolo e disdegnava ogni espressione di sosta. Alle prime esperienze con
l’Empolitour rimaneva ben distante e un po’ schifata dalla soglia dei bar,
ora vi si fionda senza indugio, sgomitando con Nucci per la conquista della
prima pasta. A guardar bene, da un po’ di tempo ella ama fare a un dipresso
quello che si è scritto per il dissennato Nucci, ma per fortuna è più
intonata.
Chi ha spinto in salita l’attuale Pelagotti ha
ancora nelle braccia i segni dolorosi del suo mutamento. Per riuscire a battere
Caparrini in stazza c’è voluto un matrimonio e una vacanza a Ponza. Ora in
salita ponza che è una meraviglia. Nel profondo dell’anima, sotto vari strati
di grasso, è ancora intatto quell’impeto di velocista che lo sprona
istintivamente allo scatto, almeno finché non subentra la consapevolezza che un
enorme orso bruno sui pedali non può scattare un granché.
In quest’atmosfera di metamorfosi Tempestini è
l’unico che assicura regolare continuità al suo personaggio. Virtuoso nel
mezzo fra i lenti e i veloci, biascicatore patentato di cilingomma, abile
invasore della corsia di sinistra e rammaricato per l’assenza di stuzzicadenti
nel bar di Tavarnelle, dove per la cronaca si è consumata la sosta-Pagni (o
bisognerà chiamarla d’ora in poi sosta-Nucci o sosta-Bertelli?) dopo
l’inopinata inagibilità dell’osteria di Badia a Passignano su cui Nucci
aveva riposto non poche speranze alcoliche.
Tutto ciò valga come parziale aggiornamento sulla
condotta di alcuni alunni dell’Empolitour in attesa di un vero primo giorno di
scuola con la classe piena.
23/06/2002 L’isola
che c’è
Sembra impossibile ma l’Empolitour è riuscita a
colonizzare anche l’isola d’Elba, nonostante il boicottaggio del
resipiscente presidente e dei suoi più pavidi accoliti. Si deve purtroppo
parlare di scisma, ma la forza della squadra si vede anche da queste situazioni
di separazione consensuale che, disinibendo le individualità, corroborano i
desideri di future riunificazioni. E d’altronde le argomentazioni di
resipiscenza addotte da Caparrini erano tutte ben condivisibili: clima intenso,
traffico torrido, congiunzioni astrali sfavorevoli, mal di mare, moti di
nutazione dell’asse terrestre e flussi di neutrini solari a spin destrogiro.
Dunque, doppia Empolitour e doppio appuntamento: ore
7.30 in Via Baccio per un rifrittissimo giro della montagna pistoiese; ore 6.30
alla stazione di Empoli per un ineditissimo giro dell’Elba, appuntamento
questo, direte voi, assai simbolico, perché tutti immaginano che al trio di
scapestrati, Bertelli, Chiarugi e Nucci non si aggiunga nessun altro. Alla
stazione infatti c’erano tutti, dal commissario al sacrestano, ma nessun
ciclista Empolitour oltre al trio. Però ce ne sono due vestiti da Maltinti
Lampadari ed hanno facce note. Incredibile visu: sono i due Bitossi,
junior e senior, attratti a sorpresa dalla lusinga di questo intrigante periplo.
Franco Bitossi, in verità, si rammarica molto per l’assenza del suo
principale fan (Caparrini) e tuttavia si rassegna a subire l’attaccamento
bottoniero della Bertelli che in fondo è l’unica ciclista italiana a non
conoscere la storia del mondiale di Gap. Risultato parziale alla partenza: Elba:
5 – Sammommè: 6. Infatti le argomentazioni rinunciatarie di Caparrini hanno
indottrinato anche Boldrini, Boretti, Giunti, Pelagotti e Tempestini. A San
Baronto però si ristabilisce la parità perché Pelagotti si ricorda che deve
andare a sposarsi. Il pareggio sembra il risultato più equo, senza entrare nel
merito se valga di più una celebrità come Franco Bitossi o una calamità come
Massimo Boldrini. Ma la vera partita deve ancora cominciare. A San Vincenzo
s’incrocia per caso un grosso ciclista Empolitour in mezzo ad un gruppo di
bubboni. È Sani detto Vinicio, quello delle soste minzionali per antonomasia,
che sta lì in villeggiatura ma l’idea del diversivo sull’isola gli garba
subito. Arruolato. L’Elba passa in vantaggio 6 a 5. E poi dilaga. A Piombino
sul molo 7 sono pronti per l’imbarco altri tre inattesi ciclisti Ecco Pagni,
che del resto era l’ideatore del giro insulare, colto da una resipiscenza
della resipiscenza e poi abile ad assoldare di nascosto dalla Versilia anche
Bagnoli L. e Lambruschini per un percorso ridotto. Dispiace per Caparrini ma la
vittoria è già schiacciante prima del fischio d’inizio: 9 a 5.
Mentre l’aliscafo vola veloce verso il porto di
Cavo, giungono notizie sconfortanti da Pistoia. L’aria alle nove del mattino
è già ustionante, le ruote s’incollano all’asfalto e l’omino della
frutta delle Piastre sta vendendo frullati. A Sammommè scatta l’allarme
siccità, per fortuna c’è Caparrini che strizza la fascia tergisudore in un
campo e dà un po’ di sollievo alle coltivazioni. Sull’isola tira proprio
un’altra aria, ed è fresca. Montagnole di smeraldo immerse nella turchese
marina non sono soltanto un belvedere ma soprattutto un miracoloso refrigerio.
Appena sbarcati i nove ciclisti sono inebriati da quest’innaturale oasi
d’aria condizionata e Bagnoli L. rimpiange subito i negletti manicotti.
Sosta-Pagni ante motum per scaldare le membra col caffè e poi acquisto
di macchinetta fotografica usa e getta dotata di 30 scatti, che in 115
chilometri previsti equivalgono ad una sosta ogni 3,83. Vinicio osserva con
sollievo che per la sua vescica, in questi anni d’assenza divenuta ancor più
incontinente, equivalgono ad un numero appropriato di pisciate. Quindi si parte
quasi battendo i denti mentre dall’altra parte dell’Empolitour Caparrini e
compagni ridiscendono a Pistoia dove stanno sopravvivendo a fatica cactus e
piante xerofile.
Nel miraggio dell’Elba Lambruschini propone la
variante del monte Volterraio per sudare un po’. Se ci fosse caldo sembrerebbe
la crosta calva del Mont Ventoux, invece si vedono ciclisti scendere con guanti
e mantelline. Sulla cima il gruppo si fa fotografare più volte affinché
Caparrini non pensi che sia tutta una burla. Si devono portare al verosimilmente
incredulo presidente il maggior numero di prove fotografiche, così in certi
punti di paesaggio caratteristico, dove si vede il mare che prende il colore
innaturale del freddo, le soste si susseguono nell’ordine di una ogni
centinaia o decina di metri, tanto che Vinicio si trova più volte in seria
difficoltà a svuotare la vescica. Anche perché si fa fatica a bere nonostante
le fontane siano frequenti, rigogliose e glaciali.
Nei pressi di Biodola si vede una biondina in
bicicletta che si sta facendo fotografare da un passante e ci si unisce alla
posa scoprendo che costei è una nostra vecchia conoscenza, Zina Stahurskaia, in
visita di ricognizione all’Elba dove verrà disputata una tappa del prossimo
Giro d’Italia. Decimo gol: anche lei decide di pedalare con l’Empolitour e
con Bitossi di cui era accanita tifosa fin da quando giocava a palline sulle
spiagge di Sebastopoli. Caparrini intanto, liquefatto sul San Baronto, sente un
acutissimo sibilo nelle orecchie.
Fra salitelle ardite e ridiscese verso il blu dipinto
di blu, s’arriva al momento topico del programma-Pagni: bagno e frittura a
Cavoli. Una baia incontaminata accoglie i ciclisti stupefatti. Non si capisce
umanamente perché sia così bella e deserta. Primo a tuffarsi nel gelido mare
è l’intrepido Nucci. Pagni ha il suo bel daffare per raggiungerlo e staccarlo
nella prova di nuoto ma nella prova di pesce fritto Nucci si prende la
rivincita: frittura mista mangiata prima e dopo il gelato che si stava
squagliando malgrado la temperatura semifredda. Ma qui si era materializzata
un’altra apparizione: Bagnoli A. e Traversari al ristorante con mogli e prole.
Sono in vacanza a Cavoli con bici al seguito. Non se lo fanno dire due volte.
Arruolati anche loro. È una goleada. Oltre tutto i tre presunti riduttori
Pagni, Lambruschini e Bagnoli L. alla fine, estasiati dalla meravigliosa cornice
dell’itinerario, non riducono un bel niente. Chi l’avrebbe mai detto: dodici
ciclisti felici, campionesse e campioni compresi, a circumpedalare l’Elba
sotto il sole più benigno dell’anno, mentre Caparrini sta tornando a casa
lesso, credendo di poter leggere il resoconto di una spedizione dei soliti tre
gatti.
Ma non è finita. Mentre la Bertelli cerca
d’appartarsi all’inizio della salita del Monumento, per effettuare certe
oscure operazioni manuali in profondità irripetibili, passa di slancio un folto
plotone multicolore, in mezzo al quale ella riconosce Cadel Evans urlando il suo
nome con le mani ancora infilate nel basso ventre. Invece era Dario Cioni che si
volta lo stesso invitando alla fusione dei due gruppi. Si trattava di una
ventina di ciclisti fra professionisti ed ex che, appresa la notizia di
quest’isola climaticamente felice in mezzo all’afa italiana, si erano
consorziati per un rinfrescante allenamento. Nei pochi chilometri di salita la
Bertelli riesce ad intervistarli tutti: l’amico Cassani, Fondriest, Casagrande,
Tafi, Fontanelli e Cipollini tanto per citare i più famosi per lei. E senza
sapere chi siano conversa amabilmente anche con il grasso Argentin, che qui
sfrecciò in una tappa del Giro 1993, e col non meno pingue Hampstein,
l’americano vincitore del Giro 1988 che adesso abita a Castagneto Carducci. La
strada è ora invasa da parte a parte ma non si creano problemi di viabilità
perché siamo al novantesimo chilometro e non si è vista ancora una macchina
viva. Nucci, per rendere più credibile l’evento ad un Caparrini, che starà
strabuzzando gli occhi, riceve il permesso dal gruppo di andare in fuga a scopo
fotografico. La Bertelli riceve da Cioni l’invito alla Vuelta, da Tafi
l’invito al Tour, da Hampstein l’invito a fare la cameriera di Armstrong e
da Cipollini la personale borraccia zebrata. La fata declina tutti gli inviti,
perché è fedele almeno lei ai programmi Empolitour, ma non la borraccia di
Cipollini suscitando l’invidia di Chiarugi che tenta di sottrargliela con la
forza. Ne nasce un alterco durante il quale l’oggetto del contendere diventa
corpo contundente provocando a Chiarugi una frattura composta delle ossa nasali
guaribile con vari interventi di chirurgia plastica. Questa piccola cicatrice
rimarrà però come sigillo indelebile di un’indimenticabile giornata
d’esilarante esilio. Il finale è poi spettacolare: una trentina di preziose e
luccicanti bici stese sul bagnasciuga di Cavo mentre i loro insoliti
proprietari, riconoscibili fra i normali bagnanti per le variegate abbronzature
compartimentali, si beano in fresco ammollo nell’attesa dell’aliscafo che li
riporterà stanchi, colorati e appagati sulla terraferma.
Può sembrare una storia inverosimile ma ci sono
trenta inconfutabili prove da esibire contro ogni riserva e la trentesima foto
dimostra anche quello che potrebbe essere il dubbio più ragionevole, e cioè
come abbiano fatto queste trenta bici ad essere traghettate tutte insieme su una
navicella tanto agile e snella, senza per altro pagare nemmeno un euro di
pedaggio.
16/06/2002 Finalmente Tobbiana
Va a finire che dopo lunga e penosa gestazione la
montagna partorisca un topolino. La montagna è quella pistoiese, quasi pratese,
che frescheggia sopra il borghetto di Tobbiana. Il topolino è Caparrini a cui
per due anni aveva fatto tremar le vene e i polsi il solo accenno a questo
paesello incognito, principio d’una salita dipinta di tenebroso pathos.
L’abbiamo aspettata per un biennio di rifritture domenicali e quando è
arrivata s’è presto sciolta nell’aridità delle sue cifre: lunghezza
undici, dislivello settecento, pendenza media seivirgolatrentasei, massima
diciotto. Accontentiamoci di questo diciotto che però dura poco. La
spaventevole leggenda di Tobbiana termina dopo un chilometro anche se la sua
nomea aveva già messo in fuga i tre riduttori Baricci, Pagni e Tempestini
svelando il parziale bluff ai nove impavidi integralisti: Bertelli, Boldrini,
Boretti, Caparrini, Chiarugi, Nucci, Pucci, l’ospite asociale ma assiduo
Vettori e l’ospite asociale, ma socializzato con maglietta a nolo, Trasacco.
Sembra ieri e invece è due anni fa: Trasacco scopritore di Tobbiana fece la
proposta e Caparrini fece per viltà il gran rifiuto. Ne nacque un incidente
diplomatico sanato solo oggi.
Nell’occhio dell’anticiclone si muovono presto e
lenti i dodici ciclisti e si avverte già dal mattutino Pietramarina che la
faccenda andrà per le lunghe. Una provvidenziale nebbiolina stende un velo
pietoso su Pagni che soffre subito il repentino ritorno da nostromo a ciclista.
Biancheggia la sua crema facciale mentre Boldrini, unto di canfora, repelle ogni
forma di vita nei pressi delle sue zampe.
Numerosi tifosi sono appostati lungo la discesa di
Carmignano per acclamare la sfilata dell’Empolitour che ha già mezz’ora di
ritardo sulla tabella di marcia. Caparrini rallenta ancor più le operazioni
d’avvicinamento alla salita nel disperato tentativo d’asciugare l’immane
fascia tergisudore ormai sovrasatura dopo la prima torpida e fresca ascensione
al Pinone. Niente da fare. Quest’inseparabile orpello frontale a Tobbiana è
ancora putrido e la salita, iniziata da un chilometro, deve ancora sfogarsi. Ma
anche dal punto di pedalata dei forti l’azione diventa molto sudoripara. A
parte Trasacco che è bionico e stacca tutti con irrisoria asciuttezza, la
profusione corporea è abbondante pure in Chiarugi che più volte è colto nel
fallo di bere, in Nucci che così s’illude di sciogliere un po’ d’epa e in
Boldrini sulle cui luccicanti cosce aleggiano provvidenzialmente tutti i tafani
delle aree boschive limitrofe.
La mulattiera è ripida e silenziosa con molte pause
di falsopiano e rumore. Il rumore è quello d’inopportuni gitanti automuniti e
quello di Boldrini che sferraglia col cambio sul ventitré e non riesce a
reggere nemmeno il passo dell’adiposo Nucci, trovando in questo litigioso
rapporto coi rapporti un degno pretesto di forzata sottomissione al ritrovato
scalatore munito di pancia e di ventotto.
In medio stat virus et Bertelli che è equidistante
dal quartetto di testa e quello di coda e si lamenta per i dolenti lombi e per
il fatto che nessuno si sia accorto con la dovuta ammirazione dei brillantini
cuciti pazientemente sulla circonferenza della testa dell’uomo-bici effigiato
sul retro della maglietta nel punto più occultato dalle sue debordanti e madide
chiome. Dietro di lei arriva a passo suonato il Quartetto Cetra, ossia
Caparrini, Boretti, Vettori e Pucci. Non ti fidar d’un Caparrini a
mezzogiorno, se c’è il sole non ti fidar. Il presidente è sudato perché
quando pedala è capace anche di sudare apposta, ma non ha il solito sguardo da
fine salita, quello per intendersi del branzino appena lessato. Col timore
d’incappare da un momento all’altro in chissà quali rampacce, ha pedalato
col passo del raccoglitore di mirtilli ed ha accumulato un pericoloso potenziale
energetico, tutto da spendere nell’ultimo sambaronto dove lo aspetta un
bramato record da potare.
Glissiamo sulla sosta all’Acquerino e facciamo
dunque un balzo di un’ora e mezzo, di ottocento metri di discensione e di
dieci gradi di temperatura. Atterriamo a Casalguidi, ottanta metri di altitudine
e trentacinque di temperatura. Scatta il cronometro e Caparrini insieme a lui.
È attorniato da Bertelli, Chiarugi, Nucci e Trasacco, ma dalle smorfie e i
contorcimenti non si percepisce come nella sua sbuffante anima l’incitamento
di questo quartetto di ciclisti celeri sfumi spesso in impaccio e molestia.
Quando Caparrini rallenta la Bertelli denudata gli urla qualche inutile
monosillabo. Inutile perché lui nemmeno la considera ed alla vista del
conturbante reggiseno sociale preferisce quella ossessiva dell’orologio che è
il suo sfidante. È solo col tempo, gli altri sono forme d’aria nell’aria.
Quando taglia il traguardo il suo aspetto è come sempre sfingeo. Dichiara un
inatteso diciassetteminutiequarantaseisecondi, vale a dire tredici secondi
potati, pieno della stessa allegrezza con la quale, anni or sono, dichiarò di
aver perduto la cassa sociale al Giro.
Caparrini si migliora inesorabilmente, contro la
volontà sua e del suo tonnellaggio. Deve soltanto imparare a sudare. Se il suo
sudore straripasse dai pori dopo una fatica come la sua esultanza dopo una
gioia, potrebbe finalmente rinunciare a quelle ridicole ed ingombranti fasce
frontali senza le quali, ama ripetere, il suo ciclismo non sarebbe mai
cominciato.
02/06/2002 La
sveglia
L’Empolitour passa al vaglio d’Avaglio, modica salita umbratile e pedissequa che Caparrini ha provvidenzialmente inserito come ammortizzatore sociale fra le fatiche del Giro e l’inizio della preparazione al Tour. Nel setaccio di Via Baccio rimane intrappolato un omogeneo amalgama tra futuri protagonisti della corsa francese (Bertelli, Caparrini, Chiarugi, Giunti e Nucci) e futuri protagonisti delle scene mondane e balneari (Baricci, Boretti, Pelagotti e Tempestini) senza dimenticare il novello e puntualissimo Alfredo che nella sua giustificata innocenza non ha ancora imparato ad aggiungere l’IVA sugli orari di partenza.
Stavolta la maggiorazione oraria è stata superiore
al canonico 10% in virtù della candida dabbenaggine di Tempestini il quale,
contro gli ammonimenti di Caparrini ad illuminarsi di frescura mattutina in
vista di un’imminente caldata e plagiato dall’inaffidabile Boretti portatore
insano di sostitutivo, decideva di tornare a casa per recuperare il k-way
saggiamente dimenticato e si menava quindi all’inseguimento del gruppo per una
strada tutta sua, compiendo un circolo vizioso di una decina di chilometri
mentre gli altri avevano già dato a Baricci l’incarico di allertare gli
elicotteri della Protezione Civile. Questo simpatico preludio tratteneva i
ciclisti alle 8.30 ancora ai piedi del Cerreto e sarebbe stato un ritardo
colmabile se tutti avessero partecipato al treno di Pelagotti per lo sprint di
Larciano. Il pingue velocista si sbarazzava comunque facilmente di Nucci e
Chiarugi anche senza l’aiuto di Baricci, Caparrini e Giunti, perduti nella
frenesia dei preparativi, sfruttando la tiratura scelta di Tempestini e Boretti
e la neutralità di Bertelli e Alfredo. Al termine di una volata senza storia
Pelagotti s’imponeva sui due rivali con dieci metri di distacco e dieci minuti
di rantoli per riprendersi dallo sforzo.
Il ciclismo moderno esige specializzazione. Non si può
andare forte tutto l’anno e su tutti i terreni, ed anche l’Empolitour si
adegua a questa filosofia di vita. Pelagotti, locomotiva ad alta velocità,
quando scocca la salita d’Avaglio sente addosso il suo 30% di grasso corporeo
come se fosse la pendenza della strada. Fa talmente pena che pure Boretti, uno
che di pena in salita se ne intende, s’impietosisce e diventa il Noè della
situazione, similitudine da intendersi sia in senso biblico, Boretti salva
Pelagotti dall’annegamento, sia in senso storico ciclistico recente, Boretti
scorta Pelagotti come il fido gregario della Mapei ha fatto con lo stracotto
Evans sulla salita di Folgaria. Il più specializzato di quest’anno è però
Nucci che ha seguito gli insegnamenti di Ullrich, rinunciando a tutte le
Classiche e le corse di un giorno, acquistando in inverno una decina di chili
tutti addominali e partecipando al Giro come preparazione al Tour che diventa
così l’obbiettivo unico della stagione. Intanto ha raggiunto e superato le
ruote di Tempestini che fino a poco tempo fa dominava gli arrivi in salita privi
di Chiarugi. Un Chiarugi che, appagato dalla scorpacciata di successi e
bomboloni al Giro, si è cimentato in una goliardica telecronaca in diretta che
Nucci ha tollerato con ansimante silenzio, forse incubando prossime vendette.
Conscio del cordone ombelicale che lo lega ancora a
Caparrini, Giunti ha preferito inibire ardite fughe dal ventre del presidente a
cui è rimasto sempre incollato, ma i suoi desideri di staccarsi da questa
ingombrante placenta sembrano sul punto di realizzarsi. Ottima anche la
prestazione del novello Alfredo che, con tre forature in discesa di cui due
contemporanee, è già approdato ad un livello di sfiga insuperabile anche da un
Caparrini in stato si grazia. Comunque se ambisce a spodestare il maestro di
iatture e contrattempi dovrà rompere almeno due catene e disarticolare entrambi
le pedivelle.
Si potrebbe proseguire di questo passo con altri
interessanti temi della tappa, come le due teglie di crostata acquistate da
Nucci per ingannare l’attesa o la fuga prematura di Chiarugi o il record
frustrato di Caparrini, ma è inutile perdere altro tempo in frivolezze. È
dall’inizio della cronaca che i lettori fremono per conoscere i motivi
dell’assenza di Boldrini. La vicenda ha sollevato ancora scalpore ma non c’è
nessuno scoop. Quel che ha dichiarato Boldrini alla stampa (“Non m’è sonata
la sveglia”) corrisponde a verità, con le dovute precisazioni, sennò sembra
la solita scusa presa in prestito da Pelagotti.
Chi ha potuto osservare Boldrini da dietro ha
sicuramente notato la peculiarità del suo collo che presenta grossolane
increspature della massiccia cotenna. Ebbene, sotto quelle apparentemente
raccapriccianti pieghe si nasconde un sofisticato circuito integrato che
pianifica tutte le sue principali operazioni: quando svegliarsi, quando bere,
quando pisciare, quando attaccare, ecc. La vita del ciclista transgenico è
programmata da una serie di segnali temporizzati che partono a livello cervicale
e lo guidano minuto per minuto nelle sue azioni. L’Alto Programmatore che lo
ha creato si è conformato ad una logica rigidamente deterministica che non
tiene conto delle variabili ambientali: quando arriva l’input dell’attacco,
Boldrini attacca anche se siamo al primo metro di salita; quando arriva
l’input della pisciata, Boldrini piscia anche se siamo in pieno mercato;
quando deve tirare in gruppo, Boldrini tira senza curarsi se alla sua ruota ci
sono ancora ciclisti. Il programma ha però il suo punto debole nell’orologio
interno che scandisce questi ritmi cronobiologici e che funziona a batteria, e
questo piccolo generatore, per una madornale dimenticanza, non è stato
ricaricato al momento della recente revisione. Le prime avvisaglie del
conseguente calo di tensione e dello sfasamento temporale si sono avute durante
la settimana, quando Boldrini ha pedalato da solo verso l’Abetone come se
fosse il giorno della Gran Fondo. Ma il comportamento più sospetto lo ha notato
la moglie alla vigilia di questa domenica d’Avaglio quando il consorte si è
presentato a cena in tenuta Empolitour, ha bevuto solo dalla borraccia liquidi
verdastri, ha orinato sul ciglio della cucina e se n’è andato senza voltarsi
dandole appuntamento alle 13.45 di sabato prossimo. Poi l’indomani la batteria
ha cessato definitivamente di funzionare e il black-out della sveglia biologica
ha lasciato Boldrini in uno stato catatonico d’attesa di comando.
Per ovviare a questo spiacevole inconveniente, nei
Laboratori Bitossi di Sovigliana stanno sperimentando un sistema di autoricarica
a pedali che così permetterebbe di non disperdere in cicli futili tutta
l’immane potenza generata dai suoi coscioni. Nel frattempo Boldrini dovrà
essere programmato per dormire una volta al mese con le dita infilate nella
presa di corrente.
19/05/2002 Anteprima Giro con
scoop
Come avviene giornalmente nel Giro dei
professionisti, anche nel Giro dell’Empolitour comincia a serpeggiare la
cronaca scandalistica, già una settimana prima del via. La tappa odierna di
preparazione era dedicata alla rivincita sul Serra interruptus dal nubifragio
del cinque maggio e da questo punto di vista lo svolgimento è stato roseo per
tutti i partecipanti, compreso il cielo. Ognuno in definitiva ha avuto le sue
piccole ragioni per dire di non aver vissuto invano in questa piccola montagna,
su questa piccola strada dalle grandi pendenze.
Chiarugi si è sentito ancora partecipe di un
illusorio regno dei dominatori, almeno fino a quando non ha aperto gli occhi
davanti alla ruota posteriore del bionico Trasacco incontrato sulla vetta ed
incaricatosi al ritorno di tirare sui colli tirando i colli degli altri. Nucci
pare scampato per sempre dagli inferi con disarmante candore. Pensare che
durante questi suoi cinque mesi sabbatici c’è chi si è pure allenato
regolarmente per andare più piano di lui. E non ci riferiamo a Pelagotti che
pratica come unica regola d’allenamento quella dell’ingrasso, tant’è che
ha disattivato l’allarme del cardiofrequenzimetro ed ha scoperto un sistema più
naturale ed efficiente per segnalare il superamento della soglia aerobica, cioè
quello dell’oncone o conato. In pratica quando va troppo forte comincia a
vomitare. E non ci riferiamo nemmeno alla Bertelli che, come suole coloritamente
affermare, non ha l’uccello ma in salita non ha mai patito l’invidia del
pene. Da fata è passata a crocerossina. Prima ha accudito il convalescente
Nucci, poi il nauseato Pelagotti, i quali per tutta riconoscenza l’hanno pure
staccata.
Per Caparrini è iniziata la stagione della potatura
dei record. Lui li taglia e loro ricrescono, cosicché l’anno successivo può
migliorarli di nuovo senza l’obbligo, per lui moralmente inaccettabile, di
migliorarsi. Tanto nessuno tiene a mente i suoi innumerevoli tempi di scalata
(assoluto, stagionale, annuale pari, annuale dispari, assoluto indoor, assoluto
ventoso, ecc.) e nessuno può contestargli il miglioramento che è ovviamente
fittizio, perché tutte le volte, il record da battere dichiarato ad inizio
salita è ritoccato in eccesso di qualche minuto, e per rendere più credibile
l’adulterazione Caparrini si finge inane di fronte all’inattaccabilità di
siffatto primato e poi incredulo di fronte al verdetto cronometrico che accoglie
sempre con apparente sobrietà per rendere meno millantata la frode. Nonostante
questa commedia della tela di Penelope dei record, Giunti si vede sempre
sfuggire l’enorme schiena del suo riferimento culturale. Il chitarrista
sociale parte in tromba onde avere almeno per un chilometro l’illusione di
poter staccare il fine ultimo della sua missione ciclistica, cioè Caparrini che
però prima o poi lo sorpassa senza pietà, anch’egli in tromba. Giunti
sperava di esaudire il sogno della vita con una banale sostituzione di telaio.
Infatti la sua monumentale Daccordi in lega speciale di piombo e uranio
arricchito è stata accantonata, per ora senza successo, in favore di una
principesca Pinarello, ispirandosi al vento di aristocrazia che sta soffiando
sulle biciclette dell’Empolitour e le sta rendendo sempre più preziose e
leggere.
Chi non si preoccupa di tempi, pesi, distanze e
volumi è Baricci che affronta tutte le salite con l’aplomb del lord inglese,
alias lord Twentysix, dalla sua innata propensione a shiftare istantaneamente la
catena sul ventisei quanto comincia ad avvertire un’impercettibile
inclinazione della strada. Davanti a lui caracollava l’ospite cibernautico
Alfredo che sta silenziosamente apprendendo i primi rudimenti sull’abbecedario
dell’Empolitour.
E qui termina la carrellata sui presenti, escluso
ovviamente il Lento che quando si parla di Serra diventa un concetto
consequenziale e sottinteso. Ma anche alcuni assenti meritano la luce
riflettori. Bagnoli L., preoccupato che Baricci possa sottrargli la leadership
delle crisi cartesiane, si è dato irreperibile, probabilmente alle spiagge, con
una mossa di riduzionismo nichilista che dovrebbe fargli riacquistare un po’
di staticità perduta. Boretti è il ciclista più in del momento:
inaffidabile, infingardo, ingestibile, inconsueto, insensato, incoerente,
insondabile e naturalmente incerta è la sua partecipazione al Giro. L’assenza
di Tempestini ha risvolti umanitari. Si è reso conto che negli ultimi tempi,
tutti gli atleti inopinatamente staccati da lui in salita scompaiono o meditano
il ritiro, come se fosse un peso intollerabile l’andar più piano di un bravo
e allenato ciclista, sebbene dotato di evidenti lonze. Così Tempestini si è
temporaneamente e diplomaticamente defilato per non essere costretto ad
infliggere qualche altra nerbata al povero Boldrini. Ma qui sta il bello: anche
Boldrini era assente e la cronaca gossip si è subito impadronita di questo
inaspettato evento. L’assenza del ciclista transgenico ha suscitato stupore e
brusio nel gruppo. Le voci di carovana erano incontrollate ma due le tesi
prevalenti. Quella dell’avviso di garanzia (Boldrini sarebbe iscritto nel
registro degli indagati della procura di Brescia per spaccio di sostanze
proibite o addirittura sarebbe già agli arresti domiciliari) e quella dei
doveri coniugali protratti oltre il limite di tolleranza anche per un marito
mutante. La verità si è scoperta più tardi ed è molto più edificante per il
nostro personaggio: Boldrini ha fatto sciopero. Ha voluto attuare un’esemplare
forma di protesta in risposta ad una foto pubblicata sul settimanale Le
Scienze che qui riportiamo. Il sindaco di Odalengo Piccolo, dopo
aver
appreso dell’esistenza di un ciclista così mostruoso, ha voluto preservare i
suoi 300 abitanti da incontri che potrebbero minare la già scadente natalità
del paesino. È noto infatti che la visione improvvisa di Boldrini a cosce
ignude può provocare nelle donne incinte aborti spontanei o malformazioni del
feto. Sono poche, invero, le probabilità che Boldrini transiti in bicicletta
dalle parti del basso Piemonte, ma il sindaco ha voluto ugualmente attenersi al
principio di precauzione che vale anche per gli altri OGM o per le onde
elettromagnetiche o per tutti gli agenti fisici, chimici e biologici la cui
patogenicità è per ora solo presunta. E Boldrini si è giustamente indignato,
anche perché altri sindaci, sull’onda dell’emotività, stanno attuando
ordinanze analoghe. Quelli di Teramo, Torricella Sicura e L’Aquila pare che
abbiano preso provvedimenti straordinari una volta venuti alla lettura del
Calendario Sociale. Così la presenza di Boldrini al Giro diventa problematica,
ma tutta l’Empolitour è solidale col suo sgraziato e tartassato membro, e il
presidente Caparrini è pronto a ritirare la squadra se le forze dell’ordine
si opporranno al passaggio di Boldrini. “È una palese violazione
dell’articolo 16 della Costituzione e poi Boldrini non è neanche dopato, è
solo geneticamente modificato”, ha dichiarato il presidente ai microfoni di
Raisport, mentre Boldrini rimane rintanato a Pulica in silenzio stampa.
Il responsabile dei Laboratori Bitossi di Sovigliana,
dove è stato plasmato questo splendido esemplare di ciclista in provetta, fa
sapere che la sequenza genomica di Boldrini è stata regolarmente registrata
all’ufficio brevetti e che la sua manipolazione è stata eseguita in conformità
a tutte le norme ISO 9002 per la qualità dei prodotti transgenici. Non si corre
pertanto nessun rischio ad incontrarlo in maniera ravvicinata o ad accoppiarsi
con lui. L’innovativa e segretissima modifica del suo DNA ha riguardato vari
geni fra cui quello della catena pesante della miosina, la proteina muscolare
che è stata resa ancor più pesante e voluminosa. Questa variante proteica,
denominata boldrina, tende a gonfiarsi a dismisura in presenza di
molecole d’acqua, provocando mostruose ipertrofie soprattutto a livello delle
cosce. Per mantenere però la corretta idratazione, i suoi apparati
gastroenterico e urinario sono stati resi capaci di tollerare l’ingestione
giornaliera di almeno un barile di liquidi, molti dei quali finiscono come ben
sappiamo sui cigli della strada o sui tronchi d’albero. Boldrini è anomalo ma
pulito e noi siamo tutti con lui.
P.S.
Piove sul bagnato. Mentre quest’articolo stava
andando alle stampe è giunta in redazione una notizia ANSA secondo la quale
Pelagotti sarebbe stato trovato non negativo per una festa di compleanno. Se le
controanalisi confermeranno questa intenzione scatterà la squalifica dal Giro
come è già avvenuto per Pagni, trovato positivo per un corso di vela.
12/05/2002 Carne al fuoco
Troppa carne al fuoco in questa rinata edizione della
Classica del Parco di Cavriglia e non ci riferiamo soltanto alla dovizia di
materiale narrativo che essa ci ha offerto (la resurrezione di Nucci, i tormenti
del giovane Boldrini, il nuovo caso di proselitismo cibernautico, il corteo di
ambulanze e di lama, la piaga del riduzionismo e dell’olio canforato…) ma
anche letteralmente alla dovizia di carne ed ossa, quelle miseramente triturate
dai denti artificiali ma possenti di Pagni emulato con più o meno onore dai
commensali Baricci, Caparrini, Tempestini, Boldrini e Chiarugi, elencati in
senso antiorario di disposizione al desco ed in ordine decrescente di volume
alimentare ingurgitato. È superfluo rimarcare che l’Empolitour è l’unica
squadra ciclistica in attività capace di scalare dopo ottanta chilometri una
salita che è un Mortirolo in pectore e poi fermarsi un’ora
all’addiaccio a sgranocchiare carni arrosto di animali protetti, rese
massimamente indigeribili da copioso contorno di patate fritte, e con tale e
tanto chilo tornare ai patri lidi su e giù per valli e clivi, accumulando alla
fine 2500 metri di dislivello, un metro per ogni caloria assunta
nell’anticiclistico ristoro.
D’altronde Pagni non si sarebbe mai esposto ad un
percorso tanto inopportuno per il suo attuale miserrimo stato d’allenamento,
rinunciando fra l’altro ad allettanti proposte di sport alternativi come la
vela, il polo, il cricket o il nuoto sincronizzato, se non avesse avuto
fortemente nel cervello impressa fin dal primo metro la rappresentazione
lusinghevole del girarrosto. Nei due chilometri di Mortirolo le sue flaccide
gambe giravano esclusivamente per sincronismo onirico con quel sublime instrumentum
cocturae che gli stava girando nell’immaginazione per trascinarlo
prodigiosamente al parco. Il girarrosto era una specie di argano mentale che lo
stava issando su per quelle rampe malvagie e gli faceva superare tutti gli
ostacoli che il fato volle interporre davanti alla meta: un temporale
personalizzato, un branco di lama potenzialmente scaracchianti allo stato brado
e un branco di gitanti schierati in attesa della bramata porzione di carne. E se
Pagni riusciva facilmente ad avere la meglio sui pasciuti lama, era costretto a
cedere di fronte ad un elemento invalicabile della fila dei gitanti
immeritatamente affamati, nonostante ne avesse già corrotti un paio per
avanzare di posizione. Ma dopo tre quarti d’ora eccolo arrivare con una gerla
di provviste rapidamente scaricate sul tavolo ligneo. C’era ovviamente una
pirofila ricolma di membra arrostite degli animali del parco. Oltre alle
rosticciane di lama si potevano apprezzare petti di cigno e salsicce di
rinoceronte. Su prenotazione sarebbe stato possibile degustare la bistecca di
panda o addirittura, ma è una voce da verificare, anche la coscia di dodo,
l’uccello del Madagascar estinto dal XVIII secolo. Per amore di verità
storica è doveroso precisare che, mentre tutti si riempivano i piatti di ossa e
reliquie, Chiarugi, obbiettore di coscienza, rendeva degno di partecipare alla
sua mensa anche il micio dell’azienda.
La carne al fuoco è ancora tanta e molti lettori
saranno impazienti di riascoltare le vicende di Lazzaro-Nucci, risorto fra i
ciclisti dopo sei mesi di sarcofago. In effetti, per come si presenta al raduno,
sembra proprio una mummia egizia, imbacuccato fino agli occhi per coprire la
cera cadaverica. Però pedala e l’aria di Giro gli rinfocola pure sconsiderate
pulsioni che lo portano a sviscerarsi per un centinaio di ondulati chilometri
nel gruppo dei riduttori. Eh già i
riduttori, piaga ormai inarrestabile. Il percorso offriva molte fantasiose
possibilità di abbreviazione. Ne sono state scelte due, quella minimalista
della Bertelli e quella cerchiobottista di Bagnoli L. (padre fondatore del
riduzionismo), Boretti (fervente adepto del movimento) e Pelagotti (ultimamente
riduzionista nichilista, nel senso che non partiva nemmeno). È il risaputo
compromesso storico fra desiderio d’allontanamento e consapevolezza d’inanità.
In questo plotone, oltre al figliol prodigo Nucci che merita l’uccisione del
vitello grasso (attento Pelagotti!), c’era anche Alfredo, un appassionato
studioso via Internet di usi e costumi dell’Empolitour che ha deciso di
passare alle prove pratiche mescolandosi nel gruppo in itinere. Nel breve
periodo d’inizio tirocinio ha quanto meno verificato l’esistenza dei due
poli morfologici dell’Empolitour, la leggiadra Bertelli e il mostruoso
Boldrini.
Pure quest’ultimo è in fase di rinascita.
Attualmente sta attraversando la fase orale, chiacchiera e pedala a vuoto.
Prende schiaffi su colli e colletti, salite e salitelle. Invece di suscitare la
compassione che si deve ai convalescenti, subisce attacchi e distacchi impietosi
da tutti, non solo da Chiarugi e Tempestini, gli scalatori del momento, ma anche
dal letargico Pelagotti a Marcialla e dal larvale Nucci a Tavarnelle, sia pur
con qualche artificio. E se Caparrini non fosse il solito incorruttibile
risparmiatore lo staccherebbe anche lui. Tutte queste provocazioni hanno un fine
benefico nei confronti di Boldrini che così arriverà al Giro adeguatamente
imbestialito. Le sue carni erano già cariche di potenza repressa ed egli ha ben
pensato di ungerle come i pancraziasti alle antiche Olimpiadi. La miscela di
pece ed olio canforato di cui si era cosparso teneva lontano dal gruppo gli
insetti molesti, tranne quelli che vi rimanevano invischiati affogando
tragicamente nelle sue cosce, e teneva lontano l’intollerante Pagni che nel
naso oggi desiderava solo pollini aulenti e fumi d’arrosto.
In tema di carni cotte non possiamo non parlare di
Baricci. Da quando Bagnoli L. ha abbracciato con fervore la corrente
riduzionista, spetta all’ormai svezzato neofita l’imprimatur delle crisi
cartesiane, o nel suo caso socratiche, giacché Cartesio non portava la barba.
La dignità con cui Baricci arriva al punto di cottura lo fa sembrare un esperto
del settore. Non cambia mai espressione neanche quando cambia rapporto in salita
e si accorge di non averne uno più agile. È il primo ciclista europeo ad aver
inserito il ventisei sulla dolce salita di Falciani, eccezion fatta per qualche
turista tedesca con tenda e sacco a pelo (e in ogni modo anche lui si porta
dietro un pesantissimo campionario di brugole che ha salvato Boldrini dalla
disarticolazione della pedivella prima di Cavriglia). Con Pagni si mette a
giocare a chi va più piano senza fermarsi, e vince lui perché l’arconte,
dopo la sosta ante motum ad Empoli e la incommensurabile
sosta-girarrosto, decreta la terza sosta-Pagni a S.Casciano, denominata
sosta-aranciata per coinvolgervi anche Caparrini, noto oranginologo.
Riconosciamo che ironizzare sulle debolezze altrui è
un atto vile come sparare sulla Croce Rossa o mandare affanculo un’ambulanza a
sirene spiegate. Ma per dimostrare che nell’Empolitour la satira non conosce
barriere, ne manderemo affanculo un intero corteo. Per l’esattezza le dodici
che a Castelnuovo dei Sabbioni ci hanno prima sorpassato e poi ci sono tornate
incontro per salutarci proprio all’inizio della salita del parco. Comunque, il
premio per il più spiritoso se lo contenderanno Boldrini, che chiede un
passaggio col pollice alle suddette ambulanze, e Tempestini che a Dudda per
sollecitare l’andatura del gruppo in fase di pennichella post-prandiale lo
sprona con un esortativo “Avandi Dudda!”.
05/05/2002 Il Cinque Maggio
Napoleone-Caparrini ritorna dal breve esilio di Capri
e guida l’esercito verso Waterloo-Sant’Andrea di Compito.
Cominciamo bene, direte voi, ma continueremo anche peggio. Un bel
parallelismo con Manzoni non ve lo leva nessuno e d’altronde il prossimo
Cinque Maggio utile per un’uscita ciclistica domenicale sarà nel 2008.
Purtroppo non c’è nessun morto, ciclisticamente parlando per carità, da
celebrare. L’ideale narrativo sarebbe stato un bel tracollo di Caparrini sul
duro Serra lucchese dopo una settimana di bagordi. Suonava proprio bene quell’Ei
fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro…Invece è morto soltanto
l’onore sociale. L’ode funebre è dedicata al Serra, come primo esempio
nella storia dell’Empolitour d’interruzione di pubblico servizio in salita,
unanime e di sponte propria (escludiamo cioè i casi di resipiscenza individuale
da sfinimento e quelli dovuti all’opposizione invalicabile dei gendarmi del
Tour). Esso fu. Siccome immobile, data l’ultima pedalata, stette la truppa
immemore orba di tanta salita, così percosso e attonito il Lento al nunzio sta,
muto pensando al primo chilometro del Serra fatale.
Alcuni interrogativi si affollano nella mente. Sono
più rispettabili i ciclisti non partiti (Pagni, Pelagotti), i partiti altrove
(Bagnoli A., Bagnoli L.), i partiti e tornati indietro dopo quindici chilometri
di pianura (Boretti, Giunti) o i partiti e tornati indietro sotto l’acqua dopo
nemmeno un chilometro di salita (Bertelli, Boldrini, Caparrini, Chiarugi,
Tempestini)? Quanta pioggia bagna il confine fra viltà ed eroismo? Di quale
materiale sono tessuti i pantaloncini sociali? Chi è responsabile della
riparazione di Boldrini?
Innanzitutto Boldrini. E sparve, e i dì
dell’ozio chiuse in sì breve sponda (Pulica) segno d’immensa invidia
e di pietà profonda, d’inestinguibil odio e d’indomato amor. Poi gli
hanno accomodato l’artiglio transgenico, lo hanno ulteriormente siliconato per
esaltare il turgore delle sue carni e lo hanno nuovamente tarato all’abbandono
dei compagni in pianura, senza preavviso e senza mai voltarsi, secondo un
meccanismo di feedback interiore temporizzato. Già che c’erano, avrebbero
potuto revisionare anche la scheda audio che lo fa parlare tuttora in maniera
stridula e opprimente. Ne sa qualcosa Chiarugi, massacrato dai suoi acuti per
scarsa collaborazione in pianura. Sotto il temporale Boldrini si è messo a
cantare. Ahi! Forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo, e disperò; ma
valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò.
Respinti dal Serra, i ciclisti interrupti hanno scelto il più spirabil aere del
Giannarello e di Faltognano come vano tentativo di redenzione.
Non fu vera gloria. Il Massimo Fattore Caparrini ha
dichiarato ch’era follia sperar in un Serra procelloso e trepido
e che è stato meglio serbare le sofferenze climatiche per Giro e Tour. Noi
chiniamo la fronte alla sua autorità, alla paterna saggezza di Tempestini, alla
materna prudenza della Bertelli, alla programmazione ragionata di Boldrini e
torniamo indietro con loro. Dal Serra al Montalbano, dal Canal Rogio all’Arno,
pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al monumentale
leccio di Faltognano sulla scia della Bertelli, con Boldrini lontano a cercare la
gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo
esiglio. Bagnoli L., giallo ocraceo come il sole che non aveva mai
abbandonato Empoli, aspettava tutti al varco di S.Ansano, come aspettando il
fato.
Due segnali di speranza al morir di questo giorno
inerte: una sosta-Pagni fulminea come i rai chinati di Napoleone e i
meravigliosi colori che l’acqua può lasciare. Blu, celeste, celestino,
grigio, grigino, bianco madreperlaceo, trasparente. I pantaloncini Empolitour
delle ultime generazioni sono idrosolubili e questa è la sequenza di sfumature
di colore che assumono dopo ogni lavaggio. Indosso alla Bertelli, folgorante
in solio, dopo un acquazzone rinnovano il gusto contemplativo di starle a
ruota, almeno finché non si asciugano e ritornano opachi. Bella Immortal!
Benefica fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo allégrati.
L’Empolitour non si è chinato al disonor del Golgota. È soltanto una
salita mancata. La superba altezza del Serra non tarderà ad essere
domata dalle stesse o più numerose ruote. L’Empolitour è cresciuta, è
diventata più saggia e predisposta a posarsi sulle deserte còltrici. D’ora
in poi non aspettiamoci più gli aulici versi manzoniani ma quelli rinunciatari
di Fred Buscaglione: “Avevo appuntamento per le nove, ma piove, e chi si
muove. Avevo appuntamento per le nove, ma piove, ed ho le scarpe nuove”.
01/05/2002 Conto alla
rovescia
Nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di
province ma bordello. Questa è l’Empolitour senza il presidente Caparrini.
Una scolaresca indisciplinata senza professore, un gregge impaurito senza
pastore, un fiume in piena senz’argini. Il presidente sa aggregare ed
ammansire, consolare e conciliare, trovare la via comune per plasmare un
coacervo altrimenti intrattabile di ciclisti, tramite percorsi collaudati,
salite collaudate, fontane collaudate, soste collaudate, due palle, è vero,
collaudate, perché si finisce per passare sempre dalle stesse strade ed entrare
sempre negli stessi bar, ma almeno lo si fa tutti insieme ed al postutto chi
parte anche arriva, fatte salve le defezioni itineranti annunciate prima del
via.
In uno dei rarissimi giorni d’assenza del
presidente, invece di seguire i suoi ammonimenti e recitare uno dei tanti
canovacci stagionali fritti e rifritti (Avaglio, Casore, Serra…)
l’Empolitour si è affidata alla mente del cattivo consigliere Chiarugi che ha
partorito un tragitto nevrotico con nove colli tutti nel raggio di venti
chilometri da Empoli, anche su implicito suggerimento della Bertelli che la vera
“novecolli” di Cesenatico dovrà affrontare tra poco. Si trattava di una
rivoluzione copernicana in casa Empolitour, una metodica innovativa e rischiosa
attuabile soltanto in una situazione di vuoto di potere come questa. Il rischio
era chiaro e calcolato. Ad ogni bivio si sarebbe perso qualche pezzo ma in
compenso si sarebbe potuto indurre nei riduttori meno dogmatici la tentazione
dell’incremento, perché in fin dei conti ogni colle scalato in più avrebbe
significato un minimo aggravio di chilometri e, di tentazione in tentazione per
una sorta di reductio ad infinitum, anche un riduttore ostinato come
Bagnoli L. avrebbe potuto completare l’arzigogolato giro.
In realtà le cose sono andate diversamente perché i
ciclisti, più che percepire il lato innovativo del progetto e dare così un
esempio d’efficienza allo scettico Caparrini, hanno approfittato della sua
assenza per lasciar erompere dalle loro anime represse da troppa regola sociale,
i più retrivi istinti d’individualismo. Intanto i membri più assidui e
metodici, come Baricci, Giunti e Tempestini, per saggio timore d’anarchia sono
rimasti a casa. I presenti in sede erano Chiarugi, Bagnoli A., Traversari,
Pelagotti, Boretti, Pagni, Bertelli e nientemeno che Boldrini. Poteva essere il
suo giorno, il celebrato rientro dell’amato compagno transgenico dopo la
revisione biomeccanica e l’aggiornamento del software gestionale, e invece
siamo qui a piagnucolare e rassegnarsi che la politica del presidente ha sempre
ragione.
Si diceva dello sfogo degli istinti repressi. La
Bertelli, prima d’essere inglobata nel magma godereccio dell’Empolitour, era
una donna d’agone che partiva ed arrivava senza mai voltarsi. Ebbene, oggi è
tornata agli antichi splendori. Pronti. Via. Ed è già in fuga. Imbocca con
pervicacia il ponte non canonico e tutti dietro all’inseguimento. Bagnoli L.,
che stava invano aspettando sul ponte canonico, è già tagliato fuori.
Chilometro Zero. Meno uno.
Stupisce la presenza di Bagnoli A. e Traversari.
Finalmente li rivedremo in azione in salita. Ai piedi della rampa di S.Ansano
s’odono le loro frenate e i loro saluti.
Chilometro otto. Meno tre.
Pazienza, siamo ancora in sei e piuttosto convinti,
anche se i denti intermittenti di Pagni minacciano ristori ordinari e
straordinari. Primo colle: Pinone. Bertelli inquieta, Pagni sospetto. In discesa
si ferma a fotografare un campo fiorito. La Bertelli invoca lo scisma
dell’Artimino (secondo colle) poi si rappacifica per il versante programmato
di Poggio alla Malva. Ma per poco. Dopo una sequela di ventipercento, Pagni non
ha più freni inibitori e si scaraventa in un bar uscendone fiero e gaio con
lardo di Colonnata e calice di pregiato rosso di Capezzano. Sono le 9.48 e la
Bertelli indignata era già da tempo evasa a valle.
Chilometro trentuno. Meno quattro.
Pazienza, siamo ancora in cinque e piuttosto
convinti, anche se sul terzo colle di S.Vito, Pagni ha l’alito e Boretti il
sudore pesante. Malmantile: toh, la Bertelli pentita è tornata indietro e, coup
de theatre, Bagnoli L. ci viene incontro dopo un inseguimento forsennato.
Che bello! Chilometro quaranta. Si torna a meno due.
Tutti e sette in fila sul quarto colle, tipicamente
chiarugiano, di S.Donato a Livizzano. È il momento di maggiore comunione ed
idillio anche se Pagni e Boretti stanno maturando pensieri licenziosi annegati
nel sudore e nel succo gastrico. Boldrini passa davanti casa ma tira innanzi
nonostante le preghiere della moglie. Lui sì che è convinto. Incombe ancora il
Pinone da Castra. Il ritardo sulla tabella di marcia più pessimistica è di
circa un’ora. Pagni e Boretti si guardano negli occhi e negli stomaci. Seconda
sosta-Pagni a Limite sull’Arno. Pelagotti arruolato. Gli altri quattro
renitenti.
Chilometro sessantuno. Meno cinque.
Chiarugi, Boldrini, Bertelli e Bagnoli L. È comunque
un’aurea quaterna che sta scalando un colle indocile dopo altri quattro non
meno garbati. Non può essere un insuccesso come Caparrini, sotto sotto, sta
sperando. Bertelli ancora inquieta sul GPM. Va avanti e indietro come il famoso
Vinicio con la restless leg syndrome sullo Stelvio. Bagnoli arriva
zigzagante sull’ultima rampa al 3%. Mi sa che i suoi colli finiscono qui. In
discesa la Bertelli è irrefrenabile. Sfreccia, si ferma, aspetta, riparte, non
aspetta. Fischi ed urla vani. È andata a diritto.
Chilometro settantadue. Meno sei. Anzi, no. Torna
indietro ed è pure incazzata.
Il sesto colle sarebbe un banale Vinci da S.Donato,
anche lo sfinito Bagnoli tituba, forse insiste. Ma altro coup de theatre,
arrivano Pagni, Boretti e Pelagotti giù dal Pinone. Alè! Si ritorna a meno
tre, a tre colli dalla fine. Caparrini schiatterà d’invidia. Neanche per
idea. I tre reprobi sostatori filano verso casa motteggiando gli altri e Bagnoli
opta per la terna più gaudente.
Chilometro settantadue. Meno sei. Questa volta per
sempre.
Peccato. Ma restano pur sempre tre fior d’atleti a
completare la prova. Anche al presidente è successo spesso di finire in tre o
meno. Consoliamoci. In fondo riusciamo a trascinare fino in fondo la Bertelli
che per tutta la mattinata pareva elettricamente instabile. Fino in fondo si fa
per dire perché allo scoccare di mezzogiorno Cenerentola si ricorda che la sua
bici sta per essere ritrasformata in una zucca.
Chilometro ottanta. Meno sette.
Ora tocchiamo davvero il fondo. Chiarugi e Boldrini
concordano per un settimo ed ultimo colle che per vendetta sull’altrui
neghittosità ed asocialità sarà l’inedita scoperta della variante di
S.Baronto da Tigliano con punte del 21%. Almeno Boldrini l’hanno riparato
bene.
Chilometro cento. Meno nove.
Caparrini ritorna, le colline sono in fiore.
28/04/2002 I confini
del silenzio
Taci. Sulle soglie del bosco non odo parole che dici
umane. Non è La pioggia nel pineto, è la mediofondo di Vallombrosa che,
dopo la scorsa edizione fradicia e disaggregante, è tornata oggi asciutta ed
aggregante. In tempo e modo perché il folto gruppo al passaggio sull’Arno
potesse finalmente intonare Mattinata fiorentina di Narciso Parigi. È
proprio primavera. Alle Cascine le bambine sono sveglie ed anche tutte le
autovetture dei loro babbi che ci danno il festoso benvenuto insieme a una
decina di torpedoni turistici che a malincuore reprimono il desiderio di
triturare qualche bicicletta sotto i pneumatici. La fiumana dell’Empolitour
sui viali di circonvallazione è davvero imponente, tracima oltre la corsia, non
si ferma agli incroci, travolge e ingloba chicchessia, tranne una signora con
tailleur e vetusta bici da passeggio che sfugge alla presa del plotone scattando
sul Ponte alla Vittoria.
Di medio questa mediofondo dai grandi chilometri ha
soltanto la media oraria, nonostante ripetuti tentativi di fuga di coloro che si
fanno belli di velocità perché già predestinati alla viltà del ridotto. Sui
loro capi pende un sentimento oscillante fra genuino ludibrio e pietas
cristiana. Un bel giro Empoli-Firenze-Empoli con sosta al Piazzale Michelangelo
evoca la nostalgia del tempo che fu, quando eravamo povera gente, e questi
quattro esecutori meritano solenne menzione: i due Bagnoli, maestri supremi di
riduzionismo, Boretti, maestro d’inaffidabilità e il dato per estinto
Traversari, assolto per insufficienza di prove.
Concentriamoci sui probi viri mediofondisti che,
guidati dal loquace Cicerone-Virgilio-Caparrini, tentano di attraversare i
gironi infernali che li separano dalla salita di Vallombrosa, una scala verso
l’Eden, verso un silenzio sopra al quale c’è solo la morte, c’è solo il
Chiarugi che, dopo la deludente maratona, ha poca voglia di parlare. Parla poco
anche la Bertelli con una voce modulata su Gino Bartali e Aldo Giuffré ed
alternata a mitragliate di tosse. Gli altri parlano con un linguaggio simbolico:
Bitossi parla con l’olio canforato che lascia la scia dalle gambe nere come il
carbon, Pagni con una banana marcia fuoriuscente dal taschino ed un paio di
ridicoli calzini poplitei, Tempestini con un raggio rotto che gli tentenna
inavvertito per molti chilometri, Giunti con gli occhiali fronto-temporali di
Tazio Nuvolari, Baricci con freschi pensieri che l’anima schiude novella
davanti alle incognite salite.
Si susseguono però le Malebolge lungo la statale 67:
Compiobbi, Quintote, Girone, Sieci, Le Falle. Sì, ne abbiamo le falle fiene di
questa strada. Ci pensano i raggi di sole a riscaldare i corpi e il raggio di
Tempestini a riscaldare le menti. Svitamento destrorso o sinistrorso? Riunione
accalorata d’insipienti tecnici, poi l’infruttuosità fa decidere per
l’asportazione a mani nude. C’è troppa fretta di quiete e di salita,
soprattutto nelle acerbe fibre di Baricci e Giunti che s’incamminano solitari
verso Tosi, paese di mobilifici, pecorari e barbieri. I compagni li lasciano
trotterellare fin sulle soglie del bosco. Taci. Non odo parole che dici umane,
ma odo parole più nuove che parlano gocciole di sudore, respiri caldi e catene
oleose. Il gruppo si allunga verso il cielo come i rami di questi alberoni che
portano il silenzio alla foce dell’anima. Come queste fronde, i ciclisti si
separano restando uniti al tronco della loro anima comune che adesso si ristora
all’ombra della purezza dopo essersi macchiata delebilmente nell’immondizia
della sonora civiltà. Niente di meglio di un’abbazia per nutrire
quest’anima, niente di meglio di un chiosco da porchetta per nutrire Pagni e
compagni con pane e companatico. La porchetta che campeggia sulla Capannina di
Vallombrosa è però uno specchietto per allodole e lo schietto gestore può
purtroppo impartire solo qualche variante suina più digeribile ma senza alcuno
sprezzo dell’onerosità. L’altitudine rarefa l’aria ma non sempre i prezzi
e così la spesa pro capite risulta superiore al costo globale medio di una
sosta-Pagni dal Lento del Monte Serra.
Anche la discesa è ricca di spunti, oltre che di
panorami sul Valdarno. La Bertelli sfreccia a Pietrapiana dove un colto negozio
di vasellame le dedica una massima di San Tommaso scritta sulla vetrina: pulchra
dicuntur quae visa placent, come dire che la sua bellezza sta nel piacere di
vederla in bici. Prima di smorzarsi a Figline la strada senza pedalate passa da
Vaggio, paese ispirato al famoso calciatore del Vrescia, ex Vologna (:-)).
Da qui in poi i luoghi ci regalano altre dediche. Poggio alla Croce, come quella
che deve portare Baricci per arrivare in cima col solito cireneo Caparrini; San
Polo, come il prossimo sport che praticherà Pagni dopo la vela, giacché in
bici ormai ha sul collo l’imbarazzante fiato di Caparrini; Ferrone, come
l’eterea bicicletta di Giunti; Falciani, come la falce manzoniana che pareggia
tutte l’erbe del prato e tutti i ciclisti, ora intorpiditi in un comune
desiderio di lentezza; San Casciano Val di Pesa, pesa come la bici fra gli
stanchi pedali, come la fame di Pagni che impone un’altra sosta per poter
arrivare indenne ai propri lari di Bassa. Bassa come la voce della Bertelli,
come la pressione delle sue gomme, come l’attenzione di Tempestini dimentico
degli occhiali nel bar, come la probabilità di pioggia, come la lega di molta
ironia in questo racconto e come l’energia residua nelle gambe di tutti i
ciclisti, tutti comunque alti sul traguardo dei loro cuori silenziosi.
07/04/2002 Il taglio
del bosco
Nelle verdi terre della Svizzera pesciatina la
primavera pedala lentamente, tanto che sulle cime romite oltre i confini di
Vellano la stanno ancora aspettando. Sale più piano dell’imperterrito Baricci
che sembra indugiare per aspettarla, ma dietro di lui c’è solo il respiro
indistinto delle morte stagioni, c’è solo un cielo cinerino e stagnante come
i pensieri dopo un risveglio forzato, come i pensieri di Pelagotti perduto
insieme al centellinante Bagnoli A. nel grigiore di un’alba troppo precoce e
paludosa prima di una salita che non ci sarà mai. Il ritardatario Pelagotti è
talmente grigio in volto che si mimetizza nell’aria e Caparrini si accorge di
lui solo dopo venti chilometri.
Baricci ha tronco e radici maremmane, impenetrabili
come le macchie mute d’ogni luce dove si muovevano le pazienti vicende dei
boscaioli descritti da Cassola. Da costoro ha ereditato il rispetto per la
fatica e per l’attesa e quel compassato atteggiamento di sottomissione al
potere della natura di cui conosce i lati invincibili quando sente la sua bici
elevarsi bruscamente al cielo. Davanti a sé avrebbe una coppia di spettacolari
ballerini da inseguire ma non accelera perché il bosco gli sussurra frasi di
resine aulenti che lo inebriano e gli catturano la volontà di osare. Caparrini
e Pucci smentiscono l’opinione popolare che il ciclismo sia il risultato di
uno schema motorio per sole gambe. La loro pedalata è un’onda tersicorea che
si propaga per tutto il corpo in tutte le direzioni. Dopo un po’ che stanno
insieme imparano anche ad ondeggiare in fase: beccheggia l’uno, beccheggia
l’altro; rolla l’uno, rolla l’altro; imbarda l’uno, imbarda l’altro.
Caparrini accompagna queste unisone danze con le trombe dei polmoni mentre Pucci
illumina le scene col rosso vermiglio della faccia.
La salita era cominciata a Pescia con l’incitamento
al gruppo di un potatore di rami di platano ed aveva preso il massimo vigore tra
le fronde disseminate sull’asfalto da una squadriglia di operai con le
motoseghe. Si era un po’ riposata tra i muri di Vellano per poi ricominciare a
correre alta e silvestra fra tanti toppi umidi e tristi, lasciati a
testimonianza di un destino reciso dall’uomo che sa tagliare di netto le vite
come la parca Atropo. Forse le passioni hanno bisogno ogni tanto d’essere
potate come i rami e i tronchi di questi alberi, affinché possano ricrescere più
nuove e rigogliose di prima. Questo vale per chi si è fermato ad aspettare un
corpo più forte e cioè per i due amati sobillatori di pugne, Boldrini e Nucci,
che hanno lasciato nelle braccia della monotonia gli arrivi in salita
dell’Empolitour.
Il narciso Chiarugi è ignorato anche dalla
telecamera. Ha serie difficoltà ad andare piano in salita con la sua esile
principessa nera. Si volta e vede Tempestini meditabondo che sogna in mezzo a
quel ben di Dio di legname tutti gli stuzzicadenti che vi si possono fabbricare.
Conta i suoi lignei amuleti dentari e finisce per addormentarsi nel suo passo
regolare senza immaginare che il bar della sosta-Pagni a Marliana ne sarà
sprovvisto.
Pagni invece trova sempre qualche espediente per
tenere desta la platea. Oggi ha riesumato i pantaloncini neri di prima
generazione che sono elastici e aderenti come le brache del nonno e risalgono la
coscia di circa mezzo centimetro a pedalata, assumendo dopo cento chilometri una
suadente conformazione inguinale, poco più di un’adamitica foglia di fico. La
Bertelli non si sottrae a tanta virile grazia e in vista del GPM di Macchino lo
raggiunge dopo aver confabulato a lungo con quello spiritello nascosto nel suo
addome adamantino che ogni tanto le mostra un carattere acidulo e intrattabile.
Fra questo muscoloso ventre e i ventri danzanti di Caparrini e Pucci, si agita
Giunti per il quale il distacco dal ventre materno è ancora doloroso. Vorrebbe
affrancarsi, pedalare in avanguardia, procacciarsi il cibo senza dipendere
sempre dall’allattamento al seno di Caparrini, ma da solo non resiste a lungo
e alla fine è costretto ad invocare la materna protezione del presidente che lo
affianca e gli porge di nuovo il capezzolo. Tanto è però forte l’anelito ad
un volo libero in balia dei venti, che Giunti in discesa si mette addosso un
k-way gonfiabile ad uso mongolfiera, e non riesce a sollevarsi da terra soltanto
perché il telaio della sua bici ha una densità di poco inferiore a quella
dell’uranio impoverito.
E per passare di palo in frasca, dai metalli pesanti
ai gas nobili, parliamo ancora, per l’ultima volta, della bici di Chiarugi, più
specchiata della regina di Biancaneve. Durante la sosta-Pagni rimane
apparentemente incustodita davanti alla vetrina del bar attraverso la quale
tutti i ciclisti coi bomboloni in bocca seguono gli sviluppi di una religiosa
epifania. Una processione di marlianesi le si avvicina. Venite adoremus. La
guardano, la sfiorano, la palpeggiano. C’è un uomo con la sigaretta, uno con
un bimbo sulle spalle, uno col cane sciolto e un pastore con un agnello a
tracolla. Tutti spalancano le bocche e lasciano doni. Peccato che nessuno abbia
pensato di donare un po’ di mirra. Dopo trentasette Natali era l’occasione
per capire finalmente che roba è.
01/04/2002 Miseria
e nobiltà
È inutile rifugiarsi nell’idilliaco giardino fiorito della letteratura: la terza edizione della Medio Fondo di Monteriggioni si è risolta in un sincero insuccesso di pubblico e di critica. Lo ha ammesso a malincuore anche il presidente Caparrini che con una programmazione ardimentosa aveva sfidato la liturgia di Pasquetta, ben sapendo di doversi scontrare con le insopprimibili esigenze di mogli, suocere, zie e figliolanze, desiderose di pranzi ecumenici o scampagnate. L’esito della manifestazione si è così concretizzato in un’audience scarsa in partenza e dimezzata all’arrivo con moltissimi spunti di sana banalità che stenterebbero a trovare spazio nel repertorio di Gigi Marzullo.
Accantoniamo, perché già usate in passato, le citazioni dantesche (“però che come sulla cerchia tonda Montereggion di torri si corona…”) o le figure retoriche, a parte questa preterizione (un modo come un altro per dire che la citazione dantesca non è stata accantonata affatto, tanto per allungare il brodino della narrazione) e tuffiamoci dunque in questo mattino di evolvente brillantezza che avrebbe meritato ben altra sorte di quella della minestra riscaldata, sorbita per intero solo da pochi irriducibili.
A pensarci bene un afflato d’ispirazione lirica ce l’abbiamo: le bici nuove di Caparrini e Chiarugi. Valeva la pena partecipare solo per adorare le loro Pinarello: neoclassica quella di Caparrini, principesca quella di Chiarugi, al cospetto delle quali gli altri vissuti corsieri esibiscono tutte le stigmate della loro militanza, come la pece extravergine d’oliva sulla catena della Daccordi di Pagni, le cilingomme appiccicate sotto i tubi della Daccordi di Tempestini, le tracce di magma primordiale sulla Cannondale della Bertelli e le chiazze di corrosiva seborrea sull’ebano della Pinarello di Boretti che gli osservatori più disattenti ritengono identica a quella di Chiarugi. Chiarugi e Caparrini, ogni vetrina che passa è come uno specchio d’acqua sul monte Elicona ove i due narcisi si rimirano con avidità; il presidente è più pudico e si lancia soltanto qualche fugace sguardo di ammirazione temendo di essere visto, Chiarugi è più plateale, rallenta, indugia e si assapora con gli occhi, anche perché ha scelto una mise di calzino e scarpa che fa pendant col telaio e la borraccia. Per fortuna arrivano i selvaggi borghi e le colline della Val di Pesa e del Chianti, privi di qualsiasi superficie speculare, così Chiarugi è costretto a rimirare per ripiego la Bertelli, che forse non sarà bella come l’immagine riflessa di se stesso ma che, a quanto pare, possiede uno stile in bicicletta piuttosto ammaliante.
Appena il tempo di togliersi qualche presidio termoregolatore posticcio (gambali, mantelline e giornali addominali) a fronte di una temperatura triplicata nel giro di due ore, che Boretti e Tempestini lasciano la via maestra e si avventurano in un percorso ridotto destinato verosimilmente alla corsia di sorpasso della vicina superstrada Firenze-Siena. L’arrivo dell’auto col cineoperatore Nucci sembra distogliere la Bertelli da questo stesso insano proposito, maturandone però un altro ben più peccaminoso.
L’attraversamento ad ore precoci di strade beatamente bucoliche sottrae per un po’ i pensieri dalla realtà cronologica in atto, ossia dalla constatazione di trovarsi vicino all’epicentro turistico di una Pasquetta assolata. Il fresco vento della veloce discesa da Castellina alla Cassia risveglia bruscamente dai sogni agresti i quattro ciclisti che vedono sgorgare dalle viscere della statale un’orda indistinta di gitanti automobilistici fuori porta che a Monteriggioni si tramuta in una mandria vagolante di allegre coppiette con sguscianti bimbi allo stato brado. La piazzetta medievale naturalmente brulica di pedoni e pedoncini ma le cinque sedie degli anni precedenti sono libere e consentono a Pagni di rilassarsi e cominciare a giocare in casa con due ipertrofiche fette di pane ed altrettanto ipertrofico companatico, indorate da pregiato calice di Chianti. Caparrini pareggia l’arconte nel ruolo che fu dell’ormai inappetente emulatore Nucci, il quale si limita ad emulare l’unzione del viso senza però denudare come Pagni le membra, peraltro coperte dall’antiquata tuta-coltrone sociale.
Il povero Pagni, con le gengive imbullettate dal dentista, è costretto a masticare con le mani pur di tenere fede al ruolo che tuttavia lo vede ancora protagonista. Il povero Nucci invece, con mezzo minuto di filmato e mezz’ora di assistenza alla sosta, si guadagna la presenza nelle due foto sociali e il ritorno a casa con la nobildonna Bertelli che al termine di elucubranti trattative familiari opta per il percorso interruptus sull’auto della regia. Ad onor di cronaca, neanche i tre superstiti concludono l’itinerario nella modalità integrale poiché Caparrini e Chiarugi sono colti da un trasporto di pietà nei confronti di Pagni, debole non solo nella dentatura, e gli risparmiano le salite finali di San Gimignano e Badia a Cerreto. Si crede che all’una del dì di festa tutte le mandrie siano ferme ai dolci pascoli, invece sulla statale 429 ci danno ancora il benvenuto molte famiglie di transumanti sgassatori con le bauliere ricolme di provviste da picnic, compreso qualcuno che per amor di spaziosità viaggia a bordo di un fumante autotreno che, per un crudele destino di semafori, sorpassa quattro volte i tre derelitti ciclisti. Può sembrare un finale inglorioso ma al postutto, fra i metalli preziosi delle due nuove Pinarello e dei nuovi denti di Pagni s’intravede anche un cenno di compiaciuto sorriso.
17-24/03/2002 Cime
tempestinose
Ovvero le danze floreali delle api operaie, omaggio
primaverile a queste due radiose domeniche a cavallo dell’equinozio che hanno
esaltato il popolo industre dell’Empolitour privo dei cosiddetti capitani.
Bici bagnate di servo sudor, abituate ad anonime posizioni mediane, si sono
finalmente consacrate protagoniste al cospetto di due salite veraci ma non
feroci, giuste per celebrare le doti di silente costanza dell’ape operaia più
veloce del momento, Tempestini. Lo conoscevamo per alcune sue peculiari
costumanze come la cilingomma, lo stuzzicadenti, la visiera da saldatore, il
ventisei in pianura e la guida contromano, tutte qualità che non gli impedivano
di beccare ogni tanto imperiose crisi liquescenti; ne ricordiamo due sul Serra
di proporzioni geologiche. Ma proprio sul Serra l’alacre Tempestini ha
raccolto i primi frutti di una lentissima maturazione tecnico-tattica,
assaporando un’esperienza che a molti ciclisti è raramente concessa in
qualche angolo dei sogni: essere solo al comando in salita con un folto gruppo
che lo insegue ed una telecamera mobile che lo immortala. Sì, perché da quando
l’allenamento domenicale del capitano Nucci è imperniato sulle scalate
automobilistiche e filmistiche, attività che a quanto pare saranno predominanti
nel futuro dell’Empolitour al Giro e al Tour, la cineteca sociale sta
diventando interessante ed anche la fantasia del narratore assente ha margini di
galoppo più ristretti.
Le grandi manovre del Serra erano cominciate a
Bientina con una collettiva sosta minzionale ortostatica, dalla quale la
Bertelli, per sue irrinunciabili caratteristiche anatomiche, preferiva
esentarsi, onde avventurarsi da sola sulle prime pieghe del Monte Pisano a
caccia d’altri maschi più dinamici e meno vescicali. Penar non poco devono
Tempestini e Pelagotti per rincorrere e catturare l’ape regina, ma se il fido
operaio riesce anche a staccarla, pur con qualche tarantolismo finale,
l’enorme calabrone sulla via finale comune delle antenne subisce da lei un
inesorabile risorpasso che lo lascia piuttosto piantato e ronzante. Alle sue
spalle svolacchia Pagni tutto sbudellato ed un determinatissimo Caparrini che,
ballando il suo dondolante twist, quasi quasi segna il tempo della vita. Con più
stabile morigeratezza arrivano appaiati Bagnoli L. e Giunti e quando sul
piazzale assolato si presenta anche l’imperturbabile Baricci, tutti facendo un
po’ di conti si accorgono che manca Boretti e inferiscono che abbia fatto la
botta. Infatti è botta piena, di quelle che tolgono la capacità d’intendere
e di volere. Boretti non sembra affaticato, è semplicemente annichilito e
questo stato catatonico gli dura un’intera sosta-Pagni, peraltro una delle
soste-Pagni più lunghe del secolo.
Clamoroso al Serra: Walter l’amicolento, che molti
davano già per emigrato a valle, è invece tuttora esercente ed ovviamente
lento. Anzi, per migliorare il servizio di temporeggiamento, è riuscito a
plasmare mirabilmente un assistente che in certe operazioni di melina
addirittura lo sovrasta, come nella ricerca di aranciate, dove è
d’impareggiabile inconcludenza, o nella preparazione dei caffè che inizia
dalla tostatura e la macinazione dei chicchi. L’attesa dei consumabili, che
per chiunque sarebbe snervante, è per il plotone biancoceleste un motivo di
sfrenata e sonora gaiezza che rende tollerabile, forse perché le risate
riescono provvidenzialmente a coprire le note, anche il repertorio completo di
Alexia, diffuso nell’aere a volume semimassimale.
Passa una settimana e si va a suonare la salita di
Massa e Cozzile. Si riducono i musicanti ma la melodia cambia di poco. Novità
importante è il barlume di Bagnoli A. che si rivede per qualche chilometro,
quanto gli serve per un primo velocissimo ripasso della materia suo malgrado
trascurata ed in particolare per l’apprezzamento delle esplosive virtù
posteriori della Bertelli e della virtuosa esplosività in volata di Pelagotti
che dopo la Milano-Sanremo si può fieramente definire cipollinità.
Raddoppiano i Nucci addetti alla cinematografia
itinerante e il film della salita comincia con un altro abbrivio della Bertelli,
stavolta senza il beneficio della non minzione, ed è necessaria tutta la
progressione dell’indomito Tempestini per riacciuffarla a Massa. Qui ci viene
in mente il Tour del 1988 quando Ghirotto vinse la tappa pirenaica di Guzet Neige
approfittando di un errore di percorso di Millar e Bouvatier che lo precedevano
ma che si fecero portare fuori strada da una distratta staffetta della
gendarmeria. In questo frangente i distratti sono i due Nucci che imboccano
erroneamente la via di Buggiano e si trascinano dietro i battistrada Bertelli e
Tempestini, irretiti dal fascino attrattivo della telecamera. Per sollevare da
ogni responsabilità l’onesta macchina della regia bisogna però sottolineare
che, conoscendo le loro innate capacità geografiche, i due erano destinati
comunque a sbagliare strada. Neanche in seguito a questo vantaggioso episodio
l’inseguitore Pelagotti riesce a fare il Ghirotto della situazione, semmai
soltanto il ghiro, scalando l’ultima parte della salita con passo tardo e
sonnacchioso e con una turbolenza respiratoria simile a russamento, fino a
mantenere il distacco dall’imprendibile Tempestini nei limiti del minutino,
sorpassando però la Bertelli che come volevasi dimostrare perde di nuovo
l’orientamento e si ritrova in un campo arato di fronte ad un trattore. Dietro
di lei la situazione è ancor più soporifera con Caparrini che, privo di
riferimenti cronometrici storici da migliorare, ora consola la lentezza di
Boretti e col distinto Baricci che dall’alto del suo aplomb si guarda bene dal
raggiungerli.
Le api operaie rifornite di polline a Vellano si
abbandonano ai voleri del vento che atterra e suscita, che affanna e che consola
sul deserto padule. Poi a Fucecchio quando tutto sembra finito, un presagio si
materializza sotto forma di Chiarugi. Il fantasma del capitano viene a dire che
la sua anima ciclistica non è morta. È bello e corrusco sopra ad un nero
purosangue snello e principesco, funesto sigillo di duratura imbattibilità. E
nello sciame si brusisce che la festa danzante delle api operaie appena
cominciata è già finita.
03/03/2002 Stregati dall’Empolitour
È tutta questione di empatia. Accade quando una
persona riesce ad immedesimarsi nei sentimenti di qualcun altro attraverso una
sintonia relazionale che è pane per i denti della psiche e degli psicanalisti.
È accaduto anche all’Empolitour. Una squadra che sembrava esoterica, con un
linguaggio iniziatico, una ritualità maniacale, una spontanea propensione ai
comportamenti ossessivo-compulsivi ed alle abitudini controriformistiche e
controciclistiche, ora è fiera di aver attratto empaticamente nello stesso
giorno due diverse entità ciclistiche: un baldo cicloamatore con licenza di
foga ed un’amabile campionessa cesellata di vigoroso candore. Due seduzioni
casualmente confluite sulla stessa strada, che hanno intriso d’inaspettata
vivacità la domenica di vigilia della classica Tinti, altrimenti votata ad un
precauzionale sopore atletico, alimentare e narrativo.
Tutto è cominciato con l’arrivo del primo ospite,
il castellano Ramerini, guidato in sede da un’istintiva curiosità per le
leggende ipertestuali sull’Empolitour, che ormai diffondono in tutto il web
binomi criptici come sosta Pagni, sosta Vinicio, classica Tinti
e oscuri paradigmi semiotici come fascia caparriniana, salita
chiarugiana, mostruosità boldriniana, leggiadria bertelliana
ecc.
Un ampio orizzonte di varia umanità biancoazzurra s’apre alle sue conoscenze in pochi minuti: lo smisurato Caparrini, lo scavato Chiarugi, l’intonso Baricci, il biascicante Tempestini, l’imprevedibile Boretti, il lupoide Pelagotti, il fuoristradista Busoni, la fatata Bertelli, il cartesiano Bagnoli L, il ridente Pagni e il minuto Nucci, nelle convalescenti vesti di operatore televisivo coadiuvato da Nucci senior. Grave lacuna conoscitiva scaturisce indubbiamente dall’assenza del transgenico Boldrini sottoposto ad un delicato intervento di tornitura nelle stesse officine che costruirono il Terminator.
Destinazione Malocchio, salita per l’appunto
chiarugiana, foriera d’immeritati presagi ominosi, fallacemente funesti come
qualche scuro nembo e qualche umidore stradale destinati a dissolversi nel sole.
Bertelli, leggiadra quanto magniloquente, si
accaparra subito l’ospite e ne saggia la resistenza alla fatica uditiva con
una litania a lingua libera di personaggi, interpreti e riassunti delle puntate
precedenti, temi sui quali egli pare però già piuttosto preparato, anche senza
bisogno di tanto, seppur suadente, assillo viaggiante. Ma la salita richiede
altro tipo di preparazione e infatti i discoli meno studiosi si avventano con
spropositata ferocia sulle sue ombrose spire, dimenticando i loro cronici vizi
di forma atletica. Grazie alle riprese di Nucci dalla bauliera della
Cinquecento, vediamo in testa due sgraziate locomotive a vapore, Pelagotti e
Pagni, che nel furore delle loro menti ottenebrate dall’affanno quasi
deragliano mentre le incolpevoli bici si avvinghiano nel bosco. Assistono così
inanimi ai sorpassi dell’inesorabile Chiarugi e dei più prudenti Ramerini e
Tempestini. Non lontano dai fasti della telecamera salgono una coppia (Bertelli,
Busoni), un trio (Bagnoli, Boretti, Caparrini) e un singolo (Baricci) che al
pondo naturale gradisce aggiungere anche quello dell’armatura sociale
invernale. Ramerini verifica così a Malocchio che Chiarugi su una salita
chiarugiana gioca in casa, ed a Massa che Pagni nella sosta Pagni gode di una
supremazia territoriale emerita ma che molti altri non hanno ormai più niente
da imparare dall’arconte eponimo nell’arte del consumismo.
Sembrerebbe finita così, col solito ritorno piatto
condito da qualche orgia di baccanti sulla salitella cerretina. Invece
all’improvviso nella tundra di Monsummano il gruppo riceve dalla terra un
candido omaggio floreale. Spunta, non si sa come, non si sa quando, una ciclista
biondina che il solo Caparrini riconosce, pur storpiandole il nome, come Zinaida
Stahurskaia, campionessa del mondo e vincitrice dell’ultimo Giro d’Italia.
È un folgore che abbaglia il sonnacchioso plotone. Accanto alla fragranza
purpurea della rosa canina Bertelli, sboccia una rosa della Russia Bianca, coi
bianchi petali e il fusto scultoreo. Sulle prime sembra una presenza fortuita ed
effimera. Si sa come vanno questi incontri; il campione si trova intruppato in
mezzo ad emulatori bradicinetici ed attende con circospezione il primo bivio per
svicolare. La Stahurskaia invece rimane sempre lì. Dopo uno, due, tre, quattro
bivi imboccati insieme, si comincia a sospettare che non si tratti di una
coincidenza di percorso ma che la zarina, stregata dall’Empolitour, si lasci
trasportare empaticamente dall’onda disordinata di questo gruppo, diciamo pure
dall’orda disordinata, dove ognuno, forse per farsi bello agli occhi suoi,
accelera senza regola e ritegno, sorpassando da sinistra, da destra e dal
centro, dove Pagni cerca di abbordarla chiamandola Irina ed invitandola al
prossimo banchetto del Tinti e dove il cerretino diventa teatro di un duello
all’ultimo rantolo fra Chiarugi e Pelagotti. Incuriosita da tanto sbuffante
agone, la Stahurskaia si accoda al duo di testa con una nonchalance che incanta
tutti. La scena cui assiste da vicino è quella di un forsennato (Chiarugi) che
tira con recondite ambizioni di solitudine e di un altro (Pelagotti) agganciato
alla sua ruota che respira come un martello pneumatico ma che poi lo sorpassa e
lo stacca di dieci metri negli ultimi venti. Se la pellicola di Nucci non fosse
già irresponsabilmente esaurita immortalerebbe un ordine d’arrivo quanto mai
insolito ed irripetibile: primo Pelagotti, secondo Chiarugi, terza Stahurskaia
con un’espressione un po’ così, fra l’allibito e il divertito.
Mentre Pelagotti fugge esultante, il battuto si
consola innamorandosi dell’angelica bielorussa nel breve spazio di un GPM.
Dialogo fra i due: “Scusa se non parlo ancora slavo. Mentre lei che non capiva
disse bravo.” Ma la luce dell’est si spenge di lì a poco nell’ultimo
fatal bivio di Sovigliana che dissolve il profumo d’un amore troppo presto
sfiorito.
“Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state.”
Oppure si mette da parte il malinconico Gozzano e
s’adotta la tattica dell’architetto Melandri di Amici miei. Si va dal
marito della Stahurskaia e gliela si chiede in usufrutto, a costo di pigliarsi
dietro i figlioli, la governante tedesca e il cane Birillo che, se non condotto
a pisciare fuori alle cinque del mattino, inonda la casa.
24/02/20002 Elogio dei mezzi
Contro ogni luogo comune le mezze stagioni esistono
ancora. Così come esistono ancora le mezze montagne, le mezze salite e i mezzi
ciclisti. L’amore per le mediane virtù conduce l’Empolitour a Casore del
Monte in un clima di beata transizione fra gli strascichi di bianco inverno e i
primi fiori rosa fiori di pesco. A metà fra il sole e le nubi, fra
l’abbigliamento pesante e quello leggero, fra la collina e la montagna, arriva
questo paese mezzo vuoto e mezzo pieno, raggiunto da tre mezze salite amene e
umbratili ma incompiute, delle quali l’Empolitour sceglie la più mediocre. Ma
la squadra non è ammezzata, anzi sfiora la completezza. Se Bagnoli A. e Nucci
non fossero tenuti lontano da persistenti gravami fisici, mancherebbero soltanto
i tesserati brevimiranti o virtuali.
Davanti al portiere Caparrini la formazione schierata
è un prudente 4-5-1, con Bagnoli L., Baricci, Boretti e Giunti in difesa,
Bertelli, Boldrini, Pagni, Pelagotti e Tempestini a centrocampo e Chiarugi unica
punta. Busoni gioca pochi scampoli di partita in mountain bike fino a Porciano e
Pucci si mette in luce nel primo tempo ma non rientra in campo dopo
l’intervallo. L’inizio è però in inferiorità numerica perché Giunti si
aggrega dopo il fischio d’inizio e Pagni fa lo stesso con una mezz’oretta di
ritardo, privo di mezza arcata dentaria superiore, come Andrea Nicolai quando
quarant’anni fa cantava Fammi crescere i denti davanti te ne prego Bambino
Gesù.
Le prime azioni di riscaldamento si svolgono sul sambaronto dove Boretti marca a uomo e a donna, strattonando fallosamente la Bertelli per impedirle la fuga. Pelagotti invece, già intriso di sudore a mezzobusto, scivola via dalle asfissianti marcature e guadagna punti preziosi sul GPM. La mezzala transgenica Boldrini alza il braccio per segnalare una presunta posizione di fuorigioco dello svicolante ciclista mannaro, ma l’arbitro Caparrini non vede perché è staccato in un’altra metà di gruppo ove il guardalinee Tempestini valica stabilmente la linea di mezzeria della strada per controllare il corretto senso di marcia delle poche auto discendenti.
Fra Casalguidi e lo zoo si disquisisce sulla
paternità toponomastica del cosiddetto toboga che evita
l’attraversamento di Pistoia. Mentre Bagnoli perde un mezzoguanto e Giunti
esegue una pisciata intera a centrocampo, Bertelli contesta l’etimologia
chiarugiana, comprovata nel lessico dell’Empolitour, ma la mozione decade
perché nell’imboccare i 20 sfingei bivi di questa via che conduce ai piedi
della salita di Casore, ne sbaglia mezzi.
A questo punto Pagni scatta sulla fascia laterale
respirando a denti stretti che, nel suo sventurato frangente, è come dire a
bocca spalancata. Boldrini non lo insegue ritenendolo in posizione irregolare,
mentre Baricci si ferma nel campo per destinazione a pettinarsi la barba.
Chiarugi è l’unico che prende sul serio la fuga dell’arconte con la lisca e
lo scorta per un po’ in mezzo ai suoi sibili. Da dietro intanto arrivano le
sorprese. Dapprima spunta Nucci al volante di un insolito mezzo, nelle vesti di
allenatore non giocatore. Con la bandiera del fisico ancora a mezz’asta, scala
per ora solo le marce in attesa di tornare a scalare le salite. Cerca
d’incitare i giocatori perché dietro di lui si sta movendo una muta di veltri
capitanata dal bionico Trasacco che non ha pietà del mite branco
dell’Empolitour e lo inghiotte un pezzo dopo l’altro. Solo Chiarugi, mezzo
podista e mezzo ciclista, sfugge alla cattura. Boldrini, che credeva di avere
anche lui i mezzi per essere un mezzo podista, s’ingolfa a piene cosce
raggiungendo a stento Pagni che porta così a termine un’azione molto
efficace, nel suo caso incisiva. Tempestini-Oriali, mediano da una vita, cerca
il colpo ad effetto tallonando Pagni e ricevendo in cambio una pugnalata
d’acido nel bel mezzo del fegato.
Fine del primo tempo durato due ore e mezzo.
L’intervallo non è di 15 minuti ma naturalmente di mezz’ora. Nel patio del
bar periferico ed unico di Casore, Boretti si riveste di nuova maglia a mezze
maniche, Pagni s’unge con mezza confezione di crema e dispensa foto a mezza
figura. Vengono consumati i pochi mezzi di sussistenza offerti da questo bar
sperduto nel mezzo della mezza montagna.
Nella ripresa il risultato non cambia nonostante la
squadra muti radicalmente assetto tattico, disponendosi con un tridente di
frettolosi formato da Boldrini, Boretti e Giunti, e retrocedendo notevolmente
tutti gli altri, impegnati in medie bassissime. In mezzo a loro c’è anche
Bagnoli, edotto ancora una volta dal mezzano Caparrini sulla sconvenienza dei
dimezzamenti di percorso. Sul cerretino non disdegnerebbe la sostituzione ma
Nucci, sempre vigile sulla panchina mobile, non ha riserve a disposizione ed è
costretto ad arretrare il baricentro della squadra, portando sulla stessa linea
difensiva del mezzo morto Bagnoli anche Baricci, Caparrini, Pelagotti e
Tempestini. Per cercare il gol in zona Cesarini, avanzano Pagni e Chiarugi
supportati da tergo dalla sbraitante Bertelli che si affida ai consigli della
panchina. Pagni mette a segno una rete fortunosa sfruttando una distrazione di
Chiarugi. È l’ultima emozione della partita. Il triplice fischio di chiusura
suona in luoghi e tempi diversi per tutti. Mezzogiorno e mezzo è già passato
da quasi mezz’ora.
03/02/2002 L’autografo
I fasti conviviali della cena sociale, recentemente
consumata nell’opulenza di presenze e intrattenimenti circensi, si prolungano
anche nella domenica pedalativa che libera dallo splendore dell’aria qualcosa
di nuovo e d’antico. L’Empolitour offre un ennesimo tributo liturgico a
Gimignano, santo protettore delle soste-Pagni, e per arrivare al suo cospetto
col minimo gravame di asperità e la minima facoltà di defezione itinerante,
senza però nulla togliere alla canonica novantina di pedissequi chilometri che
l’inverno ci propina, Caparrini elabora un piano topografico volto a riesumare
alcuni segmenti stradali che sembravano ormai sepolti nelle lontane epoche di
pubertà ciclistica, come la valle del torrente Virginio (detta anche piana
dei bubboni, poiché numerosi esemplari, partendo alle 10, la imboccano
presso Ginestra e, sfidando pendenze fra 0,3% e 0,5% transitano per Anselmo e
Baccaiano e poi proseguono controcorrente sopra impennate dello 0,8% fino ad un
trivio in cui, fra il 17% di San Pancrazio a sinistra, il 17% di Fornacette a
destra e il 18% di Polvereto a dritto, decidono per l’inversione ad U godendo
così di un ritorno a favore di gravità; e sia ben chiaro che questa non è
ironia, semmai presagio) o come la salita di San Gimignano da Certaldo,
un’illustre dimostrazione di coincidentia oppositorum in cinematica,
dove la velocità in salita eguaglia e talora supera quella in discesa.
Questo tipo di percorso piace perché è
socializzante. Se si esclude la piana di Anselmo, dove si rende necessaria
un’ammutolita fila indiana per evitare colpi di clacson e di paraurti, tutto
il resto del tracciato è un invito al colloquio in coppia, in terna o in
quaterna, anche perché è improbabile che le parole siano disturbate dal
fiatone, se proprio uno non se lo va a cercare, come fa Pelagotti per
raggiungere Chiarugi in fuga sul Montespertoli.
Il ritorno all’antico è però accompagnato da
alcune piacevoli novità.
L’orario di partenza. Quando giunge Chiarugi, abituale anticipatore, trova già Baricci, Bertelli e Pucci frementi sulla caparriniana soglia mentre Tempestini, Boretti, Bagnoli L. e Pelagotti compaiono nel giro di tre minuti. Alle 8.34 Via Baccio da Montrelupo è già evacuata e per molti chilometri, anche per questo lentissimi, c’è il sospetto che tanta sollecitudine abbia mietuto qualche ritardatario.
La bici di Boretti. Osservando la lussuosa Pinarello
e il suo cavaliere viene spontaneo pensare a La bella e la bestia. Non
crediamo che Boretti possa un giorno tramutarsi in un principe azzurro del
ciclismo, ma almeno cominci a vestirsi un po’ meglio se non vuol sfigurare
sopra a tale leggiadra compagnia.
L’integrità di Bagnoli L. Ha portato a termine il
tragitto integrale senza cedere a suadenti lusinghe di abbreviazione, neanche
quando a Certaldo Pucci ha trascinato la Bertelli in un anticipato rientro. Il
merito di questo successo è da spartirsi fra la forza di volontà, pescata dal
responsabile tecnico nel profondo di un ancestrale ricordo di forza atletica, e
l’abilità diplomatica di Caparrini che lo ha sedotto, prima con un giro su
misura per basse taglie di allenamento e poi con incessanti richiami agli
obblighi morali di un socio fondatore dell’Empolitour.
La celebrazione dei costanti. La costanza di Baricci
non è più una novità e su questa assiduità sta edificando il corpo e la
mente per le salite degne di tal nome. La costanza del disincantato Tempestini
gli regala un arrivo solitario ai piedi delle torri, sfruttando abilmente il
grippaggio meccanico di Chiarugi e quello muscolare di Pelagotti che lo insegue
vanamente col suo solito passo acidificato.
Il tempio del ristoro. Il bar della Cisterna di San
Gimignano, posto nella metà soleggiata dell’omonima piazza, è
malauguratamente chiuso per ferie. Solo adesso tutti comprendono l’assenza di
Pagni. In compenso nell’altra metà ombreggiata è attivo il bar Jolly che si
chiama proprio così, non perché sia una carta di riserva che sostituisce
quella più tradizionale. La differenza fra le due metà della piazza è di
circa venti gradi ma nessuno si scompone. Neppure Chiarugi che, come Siddharta,
pensa, aspetta e digiuna mentre sui commensali sudaticci cala il chiacchiericcio
insieme ad un vassoio di paste assortite, delle quali Caparrini carpisce quella
più esuberante e calorica.
L’autografo del presidente. Il piccolo Filippo
stava osservando di nascosto questi omoni vestiti come astronauti e quei fragili
dolci che si annientavano sotto i colpi della loro mordace avidità. Provava
invidia nel vedere tanta fame e tante bici più alte di lui. La mamma decise
allora di rallegrarlo col più bel dono di compleanno che mai si sarebbe potuto
aspettare, un ricordo di quell’incontro da conservare nel diario dei suoi
segreti, l’autografo di Caparrini, portavoce di quegli strani atleti tanto
brutti e voraci ma con bici tanto alte e belle. Caparrini titubò di modestia ma
poi scrisse una dedica appassionata per la felicità di quel bimbo che un
giorno, quando sarà più alto di quelle bici, ne inforcherà una e giungerà
trionfante in piazza della Cisterna, per addentare una pasta e tingersi le
labbra di cioccolato come fece tanti anni prima quel suo occasionale beniamino,
quell’omone di cui ancora conserverà un prezioso regalo ingiallito dal tempo.
20/01/2002 La nascita del rotacismo
C’è chi il ciclismo lo fa per noia, chi se lo
sceglie per professione. L’Empolitour né l’uno né l’altro, lei lo faceva
per passione. E la passione che spesso conduce su vette aspre e indomite, oggi
conduceva aldilà degli allenamenti e delle gare intestine. Una missione
religiosa pulsava negli animi dei nostri paladini: trasportare nel bar centrale
ed unico di Ruota una pregiata immagine votiva che sarebbe stata esposta
nell’abside del locale per consentirne la venerazione. L’arconte Pagni aveva
curato con acribia la realizzazione del progetto fino alla sua esecuzione
ponderale, perché in definitiva tutta la spiritualità dell’opera si sarebbe
dovuta confrontare con una gigantografia della squadra pesantemente incorniciata
e protetta de vetro antiproiettile, un complesso iconografico ammantato di
teofania ma pur sempre dotato di massa tangibile e poco consona al groppone di
qualsiasi ciclista.
C’era bisogno dunque di un ciclotrasportatore, e
nessuno dubitava che la scelta sarebbe caduta su Pagni stesso, il quale era ben
fiero di tornare in sella da protagonista dopo aver perduto nel ristagno
dell’inazione un po’ del suo furore atletico e del suo primordiale
consumismo istintivo durante le soste a lui consacrate. Ma c’era bisogno anche
di una scorta di volonterosi cirenei, perché non si poteva negare un conforto
sacramentale al derelitto col basto, sebbene autonomo nella sua immolazione, e
comunque c’era molta febbrile curiosità attorno all’evento perché nessuno
aveva mai veduto questa icona sacra di cui si favoleggiavano portentose virtù
taumaturgiche.
Perciò Caparrini si adoperò per organizzare una
speciale crociata che vide coesistere entità religiose anche antinomiche, come
la madonna Bertelli (che però indossava un paio di calzoni eretici) e il belzebù
Boldrini, con le corna ultimamente poco puntute. Gli altri apostoli erano
Boretti, Chiarugi, Tempestini e Pelagotti, e quest’ultimo, convertito dalla
sveglia all’ultimo minuto, fece ritardare l’avvio della processione. A
Bassa, presso un tabernacolo ambulante ad uso alimentare, intanto aspettavano
ansiosi di unirsi al corteo, Pagni e il chierichetto Giunti col turibolo
dell’incenso.
Qui si scoprì la prima verità. L’immagine votiva
non era così gigantesca come l’avevano
descritta. Pagni la occultava in un tascapane smilzo e piuttosto effeminato, e
il suo volto regolarmente gaudioso non era quello di un martire crocefisso, o
comunque mostrava di portare l’onere del mistico contenuto con molta
abnegazione.
Difatti, quando il Golgota di Ruota gli si presentò
alle ruote, egli fu il primo a risorgere sui pedali in mezzo ad un concerto di
fiacca e debolezza che il gruppo gli stava dedicando. Giunti e Tempestini
vegliavano su di lui e sul prezioso zaino che ondeggiava pericolosamente in fase
con l’arcuata schiena dell’arconte. Boretti capì che era sul punto di
essere staccato da uno sbilenco ciclista zavorrato e mise in atto un piano
astutamente diabolico. Con una mossa fulminea e non osservata, sgonfiò in
silenzio la ruota anteriore e con faccia maliziosamente contrita invocò il
soccorso plenario dovuto a chi fora. Tutti, meno i tre battistrada, si fermarono
al capezzale dell’infermo che, non pago di questo salvifico tiro birbone,
riuscì a manomettere anche la valvola della camera d’aria di scorta che così
sulla via del ritorno costringerà il gruppo a ripetute soste per dare fiato
alla ruota ed al suo infingardo possessore.
Pagni giunse a Ruota baldo e corrusco, mostrando in
anteprima ai suoi due palafrenieri lo splendore del sacro dipinto giunto integro
a destinazione, e già questo fu interpretato come segno inconfutabile delle
virtù miracolose dell’oggetto. Aleggiava un non so che di misterioso fervore
su quell’icona. Giunti e Tempestini appena la videro fuggirono
precipitosamente come diavoli apersi dall’acqua santa. Effettivamente era
un’immagine densa di sfumature soprannaturali. Ritraeva la barista centrale ed
unica di Ruota, con gli occhi annegati nel rimmel, che biondeggiava attorniata
da dodici ridenti apostoli in uno sfondo crepuscolare. Folgorata da un’effigie
così intrigante e vespertina, ella decise che la foto sarebbe stato un ottimo
rimedio, seppur palliativo, per una brutta crepa sulla parete meno illuminata,
dietro a polverose bottiglie di Amaro 18 Isolabella e Ferrochina Bisleri.
Da allora però si è sparsa la notizia ed i fedeli
uscenti dalla messa in quadruplice filare, in cui i ciclisti s’incagliavano la
domenica per le strette vie del borgo, hanno progressivamente abbandonato la
chiesa cattolica e apostolica per riversarsi nel bar ad adorare il cenacolo
dell’Empolitour. Depongono fiori, oboli e ceri, e i più devoti baciano anche
l’immagine della zucca di Boldrini come gesto propiziatorio. Qualcuno giura di
aver visto sgorgare lacrime rossastre dagli occhi di uno dei ciclisti ritratti,
proprio come una delle tante italiche madonne. Il vescovo di Ruota invita alla
calma e il papa ha in serbo una dura enciclica iconoclastica ma il culto si è
ormai radicato ben oltre il Monte Serra. Si parla di una nuova confessione
religiosa che è stata denominata rotacismo, in onore al luogo ed alla
scaturigine ciclistica di questo fenomeno che sta raccogliendo i proseliti più
impensati. Come le nigeriane che lavoravano nel parco delle Cerbaie e che ora si
sono redente e convertite, e con l’uniforme dell’Empolitour guidano i
trenini che portano i pellegrini in visita a questa nuova Lourdes della Toscana.
13/01/2002 Brividi di
nebbia
Le promesse di un bel cielo sereno dormivano sopra
guanciali grigi e umidi, venuti giù nella notte senza farsi annunciare. Il sole
era una luna piena biancastra e i ciclisti sagome inanimate che si nutrivano dei
gelidi e malsani vapori, maledicendo il momento del risveglio negli strati più
invisibili della coscienza. Inseguivano un’illusione chiamata calore nel
tremito dei loro inadeguati tegumenti, permeati da quelle evanescenti gocce
d’inverno che, con una lentissima ma inarrestabile diffusione, sentivano
mescolarsi al sangue e al midollo. Caparrini aveva racimolato un silenzioso
plotoncino di tenaci seguaci, colti un po’ di sorpresa da questa atmosfera
insondabile che ognuno tentava di subire e combattere secondo le proprie
attitudini: Chiarugi partiva col corpo brinato e rassegnato, Boretti estraeva
dalla borraccia una maglia per ricavarne una sciarpa mentre Tempestini si
scaldava le gote col calore delle mascelle avide di cilingomma. Sul pizzetto di
Giunti si formavano stalattiti e la barba rada di Baricci era un manto erboso
luccicante di rugiada. Dalle profondità del passamontagna la voce di Pelagotti
aveva un timbro biascicato, una paralisi labiale gli stava disabilitando l’intellegibilità
della conversazione. Ma c’era poco da dire. La strada parlava con parole piane
e sdrucciole. L’equilibrio sul filo delle ruote pareva ad un certo punto la
meta più propizia da conquistare, in questa giornata uggiosa priva di tante
vitalità. Già, l’equilibrio. Un triste flashback di pochi giorni or sono
mostrava la piccola e fragile clavicola del granfondista Nucci che lo costringerà
a qualche assenza dalle nostre cronache ma non dai nostri pensieri. Per
consentirgli un rientro indolore, la squadra ha già cominciato ad attuare i
saldi d’inizio stagione, riducendo di un buon 10% la velocità media e la
lunghezza delle salite. Così anche il coscione transgenico di Boldrini, rimasto
ad incubare al caldo, avrà tutto il tempo per essere riparato.
Non c’è molta voglia di dar spettacolo fra questi
ciclisti inebetiti dall’aria fosca che li spinge nell’inazione verso la
Valdelsa a cercare un vano conforto luminoso, per riappropriarsi della vita,
degli orizzonti smarriti, delle mani e dei piedi, anch’essi smarriti dal
centro del corpo. L’aria invece offre qualche spettacolare saggio fisico sul
tema dei cambiamenti di stato di aggregazione: brina che sublima in nebbia,
nebbia che condensa in acqua che poi piove dagli alberi, nebbia che, per un
buffo fenomeno di brinamento, passa direttamente allo stato solido sui capelli
fieramente ignudi di Caparrini. Egli, giammai cedendo alla debolezza di un
cappello, ogni tanto è costretto a ramazzare con la mano questo strato di
galaverna che si forma sui ciuffi selvaggi. È la prima volta che viene
descritto un simile fenomeno, perché Caparrini è l’unico animale omeotermo
che in un brumoso sottozero può pedalare a testa scoperta.
Fiat lux. A Poggibonsi, dopo aver attraversato tante
valli di fumose lacrime, arrivano gli implorati raggi di sole e l’altrettanto
implorata collina di Cipressino che finalmente dovrebbe illuminare un po’
anche le gambe. Pelagotti, gorilla nella nebbia, aveva offerto qualche bagliore
di scatto fulmineo su tutti i dossi incontrati lungo le piane mortifere. Ora però,
di fronte a qualcosa di più alto, ancorché indegno d’essere salita, si
smorzava alla ruota del regolare Tempestini, lasciando fuggire l’altezzoso
Chiarugi affamato di sudore. Il ricordo di una sfida all’ultimo acido con gli
sventurati Boldrini e Nucci, deponeva nel respiro poco affannoso del caposquadra
una traccia di malinconia. Così, prima del compimento della sosta-Pagni,
Chiarugi preferisce isolarsi in una via secondaria e desolata piuttosto che
rivivere scene che avrebbero potuto rievocare le parole di Francesca da Rimini:
“Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.”
Sembra quasi che si sia dimenticato del brutale colpo di reni con cui Boldrini
lo sorpassò un anno fa sul traguardo di Barberino. Allora una voce di gaudio
ferino risuonò nella Valdelsa intera. Oggi una voce più fatata è risuonata ad
un tratto nella sua coscienza mentre si allontanava da quei luoghi e dal gruppo.
Era la Bertelli che, preoccupata per quel cielo infido, aveva deciso di venire
incontro ai compagni per illuminarne il cammino. La mesta bruma si era ormai
dissolta, ma di una stella che si distingue per brillantezza anche nel sole più
fulgido, i magi apprezzarono molto la guida verso casa.
01/01/2002 Purgatorio, Canto
Primo.
In quel principio d’anno appena nato
ci
ritrovammo nel mattino ghiaccio
ché
il sonno insieme al senno era mancato.
Ah quanti bei ciclisti che non taccio,
sfidando
l’aere terso e sottozero
andavan
adunandosi in via Baccio,
ove un presagio dolce e lusinghiero
moveva
quell’inceder rotatorio
del
qual molt’era Caparrini fiero!
“In quest’usato mattutin mortorio”
disse
“noi scaleremo senza inganni
il
monte, nientemen, del Purgatorio,
come facciam da vari Capodanni,
per
augurarci che le lune nove
non
sian foriere d’ombre né d’affanni.
Saremmo pronti per partire in nove
se
Pagni con colpevole ritardo
non
si trovasse bellamente altrove.”
Così puntava l’angoscioso sguardo
il
presidente sul tempo che passa
nel
gelo ad aspettar quell’infingardo.
Mezz’ora lo chiamò pria che la massa
informe
e trafelata dell’arconte
piombasse
ratta dalla via di Bassa.
Le bici finalmente furon pronte
a
risalir dell’Arno la corrente
come
dannati lungo l’Acheronte.
Scortavan errabondi il presidente
anche
Chiarugi dentro il suo chador,
Boldrin
fatto transgenico e coibente,
Giunti bardato come Belfagor,
Baricci
l’ultimo dei nostri allievi,
svezzato
ormai da antico corridor,
piuttosto che le vie tranquille e brevi
egli
sfidar, dopo sterrati ed acque,
volle
oggidì l’insidia delle nevi.
E mancar non poté colei che nacque
dalle
creste dei monti arditi e belli
ove
il suo corpo prodigioso giacque:
in coda pedalava la Bertelli
portando
in petto un sentimento fiacco
d’ardori
malagevoli e ribelli.
Da un anno atteso venne pur Trasacco
col
magio Boschi ad onorar la festa
sopra
un telaio pendulo e bislacco,
sfilando dritto ad animar la testa
con
un vigor che fece meraviglia,
tant’era
bici storta e disonesta.
Bertelli, grazia di montagne figlia,
s’accorse
dal profondo dei suoi bronchi
d’un
greve ardor che l’animo scompiglia.
“I miei proponimenti siano monchi”
disse
con la tristezza nel sorriso
“e
il giro qui convien che tosto tronchi.”
Disse con tono dolce ma deciso:
“D’altronde
son Beatrice non Virgilio,
sol
vi potrei portar nel Paradiso.”
Così restò il ciclistico concilio
privo
della sua stella più brillante,
ma
non d’intenti povero o più vilio
e quando entrò nella città di Dante
s’armò
per risalir dove le folle
l’alma
purgavan, peccatrici e tante;
s’apparecchiò per sostener il colle
che
i cittadini chiamano Senario
e
che i peccati dei ciclisti tolle.
“Indossa, o Caparrini, il tuo sudario!”
Gridò
Trasacco mentre la salita
formava
alle sue spalle un bel divario.
In coda Caparrini come in gita
guidava
i pargoli Baricci e Giunti.
“Vetta
le Croci, ma non è finita,”
diceva loro “abbiate i cor compunti,
ché,
superato questo manto bianco,
nell’alto
d’ogni ciel saremo assunti.”
L’orco Boldrin, che non pareva stanco,
s’unì
alle ruote di Trasacco e Boschi
che
salivan sul colle fianco a fianco.
Ei li scrutava con quegli occhi loschi
coi
qual il cacciator mira la preda
lesta
e fuggente prima che s’imboschi.
“Il ghiaccio c’è, benché non lo si veda”
diceva
Pagni “ e con le ruote fini
si
casca ch’è un piacer più che uno creda.”
Così diceva mentre Caparrini,
Baricci,
Giunti e il trepido Chiarugi
lo
seguivano in fila a soldatini.
Fu forse concatenazion d’indugi
ma
quando rampa venne fredda e ritta
scesero
in cinque insiem dagli archibugi.
“Qui si pedala a guisa d’una slitta,”
disse
Baricci “forse all’abbazia
si
va se un elicottero s’affitta.”
Perciò tornaron per la stessa via
i
cinque peccator senza rimorso
ma
senza il monte che le colpe espia.
“E gli altri tre su quel ghiacciato corso”
pensava
Caparrin “si saran persi?
Sarà
sì da chiamar l’elisoccorso?”
Chiedeva allor ad uomini diversi
notizie
sulla sorte dei tre prodi
che
intanto assai tardavan a vedersi,
e senza troppo tesser le lor lodi
abbandonati
furon al destino
dai
cinque ansiosi di più dolci approdi.
Fette di panetton di Pratolino
allietavan
l’attesa del plotone
coi
calici d’augurio frizzantino
e quando ormai nessuno più ripone
speranza
a riveder i fuggitivi,
bramando
il lor spettante panettone,
ecco spuntar quei tre vegeti e vivi,
saliti
con sgusciar di bicicletta
pochi
giri più in su nei ghiacci acclivi,
in tempo giusto per la dolce fetta
poi
che nemmen coi piedi e l’ardimento
furono
degni di violar la vetta.
Così il Senario che restò irredento,
per
tutto il gelo ch’era in sua mercé,
diede
all’Empolitour l’appuntamento
naturalmente nel duemilatre.