ANNO 2003-2004

 

 

01/01/2004 Purgatorio, Canto Terzo

 

        Sempre la terra attornia il sol eppur

            ogni volta che inizia un nuovo giro

            trova in partenza già l’Empolitour.

        Emette l’anno il primo suo respiro

            di un’alba tanto tacita e splendente

            che descriver non può l’usata biro.

        Radioso più dell’alba il presidente

            sull’orlo della sede giganteggia

            mentre l’ora canonica è imminente.

        Ansioso sta per radunar la greggia

            e il primo è Nucci che con serio impaccio

            inane sul computerin armeggia;

        poi v’è Chiarugi ch’anima Via Baccio

            e Giunti giunto lì da Marcignana

            col collo cinto di frivolo straccio.

        E Caparrini cominciò: “Par vana

            speranza di veder altre presenze

            a parte la Bertelli ch’è sovrana

        nel ritardar apposta le partenze.

            Eccola infatti, calda ancor di letto.

            Possiamo tosto andar verso Firenze.”

        Ciclista era con lei di strano aspetto,

            sociale e raro con in groppa un sacco

            a foggia d’un gonfissimo zainetto.

        “Io sono l’incredibile Trasacco,”

            disse il ciclista “sono un noto magio

            e porto panetton per il bivacco.

        E non crediate ch’io pedali adagio

            perché nemmen se fosse pien di rocce

            avrei del sacco minimo disagio.”

        Che questo fosse giorno di bisbocce

            mostrò poi Cerri giunto con spumante

            legato sulla bici con lo scocce.

        Sette medesimi dell’anno avante

            partiron dunque verso la montagna

            di Capodanno, solita, di Dante.

        “Manca Boldrin di dura cuticagna,”

            disse lo duca “senza la sua chiorba

            silenzio religioso si guadagna.”

        Di tanto spiro Empolitour fu orba

            ma silenzio fu termine illusorio

            lungo l’acqua dell’Arno cheta e torba,

        giacché s’udì l’intero repertorio

            di musicanti mitici e consunti

            durante tutto l’Antipurgatorio:

        confabulavan Caparrini e Giunti

            di sinistri cantori e rari dischi

            e blues e folk e jazz senza far sunti.

        D’altri ciclisti sibilavan fischi

            ma lor nemmen badavan alle gomme

            che sui notturni cocci avevan rischi,

        tant’eran persi a sciorinar le somme

            d’inestimabili possedimenti

            di cassette, vinili e ciddì romme.

        Sì tanto a sciorinar eran intenti,

            come dotti d’Orazio e Tito Livio,

            che Firenze passò nelle lor menti

        e si trovaron prima dell’acclivio

            a concionar di Seneca e d’Orazio

            e a padellar un importante bivio.

        Chiarugi, di cotanti temi sazio,

            fu l’unico che l’occasione colse

            e solingo fuggì nel giusto spazio.

        Ma poi tutto nell’ordine si svolse

            fin all’ambita vetta del Senario

            per le gambe robuste e per le bolse.

        Caparrin indossò giallo sudario,

            tanto per usar rima d’un altro anno,

            e lento andò formandosi il divario

        fra i magi zavorrati senza danno

            e il baldo trio della tardiva fata

            unita ai musicofili in affanno.

        Si sarebbe conclusa la scalata

            con pia quadriglia in testa senza lena

            se Cerri non l’avesse stuzzicata,

        parlando di raccapricciante cena

            con un menu di cipolline e tonno,

            quando un chilometro mancava appena.

        Chiarugi, immerso fin allor nel sonno,

            d’ira s’accese: “Qui lo schifo stroppia!

            Mangiar così i ciclisti no, non ponno!”

        E scattò tosto a velocità doppia,

            piantando in loco l’ansimante Nucci

            e dei dapiferi allibita coppia.

        Arrivò solo e non privo di crucci

            e poco attese in mezzo al panorama

            l’ardito trio con vino e tarallucci

        e quel guidato dalla bianca dama

            con Caparrin a corto di polmone

            fiso in un’unica e insistente brama.

        “Bando alle ciance e fuori il panettone,”

            sfiatò lo duca “non siam qui stamane

            per allenar le gambe a qualche agone!”

        Trasacco svuotò dunque il tascapane

            e spartì quel dolciume succulento

            sì ch’ogni fetta parve a tutti immane.

        Ma quando di brindare fu il momento,

            stretti in recesso dove non si gela,

            Cerri svelò mirabile portento.

        Il suo spumante infatti si rivela

            comprato al Tour verso Barcelonnette,

            non d’uva distillato ma di mela.

        Un anno e mezzo tal bottiglia stette

            al buio di cantina in fresca attesa

            pria d’incensar queste augurali fette;

        e sì gradita fu questa sorpresa

            che tutti celebraron la bevanda

            pur di bontà piuttosto fraintesa.

        “Ora che cibo più non si domanda”

            disse Trasacco “sistemiam i panni

            e discendiam a valle a tutta randa.”

        Ma Caparrin: “Mi sa che tu t’inganni

            e dall’inganno ti vorrei sottrarre

            ché sosta vuol caffè e comodi scranni.

        Fra gente con pellicce e con zimarre

            termineremo il rito dell’arconte

            un quarto d’ora ancor dentro a quel barre.

        Son due le cose per me vere e conte,

            senza le qual in bici nemmen parto:

            caffè nel bar e fascia sulla fronte.”

        Così aspettammo d’ora un altro quarto

            che si compisse il pabulo aggiuntivo

            del presidente e un trio del suo reparto.

        Il sol che fin adesso era sorgivo,

            or allietava il gruppo nel ritorno

            che d’avventura fu davvero privo.

        “Se l’anno buon si vede il primo giorno,

            anno non fia miglior di questo qui.”

            Diceva Caparrin agli altri intorno.

        “Se l’anno buon si vede il primo dì…”

            Parlò poi Caparrin con Giunti ancora

            di vetusti vinili e di ciddì.

        La navicella dall’antica prora

            varcò le porte d’Empoli sbuffando

            col cuor nell’allegrezza che ristora.

        Il Senario liturgico e mirando

            quest’anno fu onorato con diletto,

            senza difetto, o come dice Brando,

        fu Senario perfetto, anzi perrfetto.

 


 

26/12/2003 Mezzogiorno di sole

 

Sul limitar dell’uscio Caparrini va fiero

dell’aere terso e fresco che l’alba gli presenta

e gode nel vedere tre gradi sottozero

mentre Chiarugi arriva e sul radiator s’avventa.

Il campanile scocca

tremando le otto e trenta.

 

Babbo Natale a Pagni portò una nera Bianchi.

“Con questa volerò sui clivi e sulle vette!

Pure Boldrin si pari se non vuol che lo sfianchi.”

Boldrin che in breve ruppe due nuove biciclette.

Il campanile scocca

le otto e trentasette.

 

Ecco Bagnoli, Nucci, Bertelli e Tempestini,

ciclisti intirizziti venuti d’ogni dove.

“Siam tutti. Orsù, si parta.” Sentenzia Caparrini.

“Smettete d’adorare le biciclette nuove.”

Il campanile scocca

le otto e trentanove.

 

Ma tosto il gruppo emette un coro d’alti lagni.

“Il freddo ci martoria, non se ne può già piùe.

Cerchiam subito asilo per nostra sosta-Pagni,

un bar o una capanna con l’asino e col bue.

Il campanile scocca

le otto e quarantadue.

 

S’aggiungon Pucci e Zio agli otto tremebondi.

“Presto ad un caldo tetto vogliamo stare sotto,

in bar, in osteria o in pub noi ci si fiondi

a ber caffè fumante con pasta o con biscotto.”

Il campanile scocca

le otto e quarantotto.

 

“Carlin di Montelupo, possiamo entrar repente

a dar calore e sangue ai nostri freddi piè?”

“Mi spiace, siamo pieni di sedentaria gente.

Finito abbiam da tempo le paste ed il caffè.”

Il campanile scocca

le otto e cinquantatré.

 

“Oste della Ginestra, pietà del nostro grido!

Siam dieci e ci stringiamo da diventare cinque.”

“Di voi così conciati e truci non mi fido

e quello coi coscion par uno che delinque.”

Il campanile scocca

le nove e zero cinque.

 

Però nel clima avverso s’erge Bagnoli Elle.

“Sol io resisterò a tal glaciale metro!

Ben altri freddi osò la mia tenace pelle,

ben altre glaciazion sulla mia strada impetro.”

Scoccan le nove e sette

e Bagnoli torna indietro.

 

“Cesira di Roveta, non ci negar alloggio.

Ascolta per favor le nostre umili preci.”

“Son chiusa, o pellegrin. Scendete giù dal poggio.

I frati v’offriran minestra o pasta e ceci.”

Il campanile scocca

le dieci meno dieci.

 

Si cala così giù nel fiorentino puzzo

col livido Boldrin davanti di gran scarto.

Nemmen però il tepor dei fumi del Galluzzo

val bene a scongelar ogni insensibil arto.

Il campanile scocca

circa le dieci e un quarto.

 

“O frati di Don Gnocchi, io son l’arconte Pagni,

fatemi entrar che in bici nuova non sono pratico.”

“Resisti, questa rampa finisce a Mezzomonte.

Non diamo ai pedalanti in crisi noi il viatico.”

Le dieci e venticinque

scoccan a Pozzolatico.

 

“Consolati Caparrin del tuo pellegrinare!

Siam giunti. Ecco Impruneta ornata di trofei.

Presso quel Bar Italia potremo riscaldare

le fredde nostre dita e i freddi zebedei.”

Il campanile scocca

le dieci e trentasei.

 

Contrordine, c’è Nucci che fa il solito stucco.

“Questo locale caldo e spazioso è inopportuno.

Le paste sono vecchie e si son date il trucco.

A miglior lido approdi l’ululante digiuno.”

Il campanile scocca

le dieci e quarantuno.

 

“O del Susini angusta assai pasticceria!

Noi siam l’Empolitour dall’insaziabil bocca,

veniamo freddi e stanchi da perigliosa via

e per mezz’ora almeno ristorarci ti tocca.”

Le dieci e tre quarti

il campanile scocca.

 

Finalmente si toglie le scarpette fatate

e libera i piedini numero quaranta.

Di crema ella si sazia e le dita son sgelate.

Bertelli trascolora, divinamente affranta.

Il campanile scocca

dolci dieci e cinquanta.

 

L’astro del ciel è nato che sembra primavera.

I cuor d’amor son gonfi e gli stomaci di creme.

D’idillio e di calor s’impregna l’atmosfera

e Boldrini sbuffante per ripartire freme.

Scoccan le undici e dieci,

si torna tutti insieme.

 

Insieme un par di palle, tanto per dirla bruta!

Di Pucci e di Boldrin le bici restan sole,

solo Chiarugi resta e nessuno lo saluta

e il resto si sparpaglia sì come l’estro vuole.

Il campanile scocca

Mezzogiorno di sole.


 08/12/2003 Una calda mattina di freddo inverno

 

Parli di Pagni e subito spuntano le torri, quelle di San Gimignano naturalmente. Spuntano nella gemmea aria dell’estate fredda del Caparrini che, dopo una vita gloriosa al servizio della bici, varca la soglia dei diecimila chilometri annui. La notizia non trapela nel gruppo perché il presidente, oltre ad essere notoriamente riservato, teme che i compagni per festeggiarlo gli facciano pagare il conto della sosta-Pagni, e il bar della Cisterna produce notoriamente scontrini oltremodo lunghi. L’ultimo fu di 43,10 euri senza Pagni il quale però fin dalla valle della Canonica appare baldanzoso e battagliero, minacciando l’acquisto di panettone infarcito di cioccolata.

La festività consecutiva muta di poco lo schieramento del giorno prima. Insieme a Pagni subentrano Boretti e Tempestini a Bagnoli L e Giunti, con un netto guadagno di epe e lonze. In questo periodo molti si premurano di mantenere il proprio grasso-forma confidando nell’effetto-vestaglia dei capi invernali del sarto sociale Vifra. Ma quando il chiaro e fresco sole di San Gimignano si mette a svestire i ciclisti accampati ai tavolini, dalle camiciole intrise d’inaspettato sudore si vedono eccellere tutte quelle protuberanze che la natura invernale dell’Empolitour, fatta di meno chilometri e più chilogrammi, concede senza sconti a tutte le sue creature.

Ma in agguato fra tazzine, piattini e fettone di torta s’aggira il temibile morbo dell’inappetenza, quello che il solo reprobo Chiarugi sublima a stile di vita ma che per gli altri è un pernicioso segnale di decadenza.

Del resto l’Empolitour non va a San Gimignano per allenarsi. L’unico effetto atletico che produce un giro del genere è l’allenamento alla pedalata zigzagante e intermittente in mezzo alla fiumana di pedoni allo stato brado che, in rigorosa fila per dieci, occupa i dieci decimi dell’angusta sede stradale. Può essere questa un’utile simulazione di un arrivo sul Mortirolo assediato da tifosi, con la differenza che, mentre i tifosi vaganti in mezzo alla strada in qualche modo si aspettano l’arrivo di una bici alle loro spalle e, in risposta ad un segno convenzionale, talora si scansano, i turisti incravattati di San Gimignano, trainanti moglie e passeggino, non si scanseranno mai, vuoi perché non immaginano, e non possiamo dar loro torto, che esistano ciclisti capaci di venire ad allenarsi dentro una folla di ostili pedoni, vuoi perché sono in gran parte forestieri e non capiscono il nostro idioma di urla sfollagente, vuoi perché, dopo aver perso un’ora a cercar parcheggio e dopo averlo trovato lontano e costoso, si sentono a buon diritto padroni, o almeno locatari, di quei metri quadri di San Gimignano che calpestano, e non sono disposti a cederli al primo ciclista che chiede strada.

Ma si diceva del pernicioso morbo dell’inappetenza che sta minando le fondamenta adipose dell’Empolitour. Intanto l’arconte Pagni dopo tanti proclami rinuncia alla conquista dell’agognato panettone infarcito e sentenzia così un desolante dimezzamento delle spese sperate. Il pingue Boretti non va oltre due ristretti caffè per timore d’esacerbare una pinguedine che appare difficilmente esacerbabile. La Bertelli, ninfa dell’inappetenza, dissipa la sua dote di fettona di torta fra Nucci, piccioni e cani. Nucci, con la sua fettona e tre quarti potrebbe rialzare la media, ma arrivano a rovinare l’ingrasso due ipocaloriche sfogliatine di riso, una al catecumeno Mazzantini, giustificato dall’inesperienza, e l’altra al caposcuola delle lonze Tempestini. Quando poi Ziodipucci estrae dalla giberna una luccicante barretta argentata per tenere alto il morale calorico della truppa, s’alza improvviso un vocalizzo di disapprovazione che lo costringe alla rinuncia. Boldrini dal canto suo, da quando ha cominciato a nitrire prima di una salita, mangia appartato roba un po’ strana, speriamo biada o carrube.

Per fortuna dopo la deludente sosta-Pagni da 31 scarsi euri torna a regnare nel gruppo quell’aurea concordia che rende l’Empolitour squadra una e indivisibile, tetragona ai colpi di ventura e di vento. Tetragona appunto: uscito da San Gimignano il gruppo istantaneamente prima si bipartisce poi si tetrapartisce in quattro tronconi autonomi che tornano a casa per conto proprio senza saluti e baci.


07/12/2003 Dal vento rapiti

 

Ad ventum ventum est. L’avvento del vento non ci soffia impreparati. Di lui abbiamo detto, scritto e cantato abbastanza: Vento nel vento, Blowing in the wind, Eppure soffia, ma lui, il vento, ritorna come un percorso dell’Empolitour, sempre uguale tutte le stagioni, più d’una volta a stagione. Lo abbiamo ormai imparato a conoscere e sappiamo come soffrirlo e come estrarre la lirica dalla sofferenza.

“E come il vento odo stormir tra queste piante..” Il ciclista domenicale, desto tra le laudi e la prima, quando dalla finestra vede le fronde scuotersi e mugghiare, non l’infinito silenzio va comparando a quella voce ma semmai va comparando il vento freddo alla coperta calda e, se opta per il primo deve apparecchiarsi alla ventosa bisogna, ognuno secondo la propria scorza.

A guardar bene fra i nove ciclisti anemofili di oggi, soltanto Chiarugi s’arma pesante con passamontagna e guantoni da baseball. Gli altri, oltre a prenderlo per il culo, sembrano sottovalutare la sfida con la bora. Ignude, per esempio, sono di Boldrini le mani e un quinto di gamba transgenica. Bagnoli L, che si esalta nelle intemperie non umide, concede ai fiati siberiani una smilza, consunta e vetusta fascia frontale, filiforme in confronto a quella caparriniana, immane per antonomasia. I due ciclisti coibentati per natura, non sono altrettanto aerodinamici perché indossano abbondanti seste taglie che veleggiano nonostante la loro corpulenza aneli ad apparire attillata in tanto vestimento. Dopo berrettacci di lana grezza, Ziodipucci indossa un fine camauro professionale per non spettinarsi. Giunti e Nucci pedalano con sacchi di sabbia legati all’addome, da gettare via per prendere il volo prima della salita. Qualcuno giura però di aver visto che si tratta di vere pance. La Bertelli preferisce zavorrarsi i glutei per renderli prorompenti. Ma anche qui c’è chi sostiene che si tratti di carne palpabile. L’unico serio è il tirocinante Mazzantini, filiforme, attillato e aerodinamico, ma è troppo facile esserlo con abiti asociali. Va messo alla prova con le giacche a vela del sarto sociale Vifra.

“La bufera infernal che mai non resta, mena i ciclisti con la sua rapina: voltando e percotendo li molesta”. Tanto che Boldrini è costretto a guantare le transgeniche palme. Ma, come si va ripetendo da tempo, perdurando la seminfermità fisica di Chiarugi e quella mentale di Nucci, egli può navigare in salita col vento in poppa, come oggi la Bertelli quando riceveva le raffiche sul torace.

A proposito di seminfermità mentale, Nucci che, oltre al senno, ha perduto la ribalta come scalatore, cerca di riconquistarla come attore, esibendosi nella famosa, anzi storica, scena della catabasi pagnana sulla salita dei cavalli di San Vivaldo, ben documentata nei sacri testi. “Si narra però che sull’innocente strappo di San Vivaldo, nel corso della sua prima uscita coi nuovi compagni, egli [Pagni] abbia ontosamente poggiato il piede a terra e che da quell’episodio sia nata l’esigenza delle soste ristoratrici, in passato soltanto occasionali, da allora in poi prestabilite.” Nell’odierna interpretazione si vede però Nucci a piedi sull’innocente strappo duellare spalla a spalla con lo zigzagante Bagnoli L in bici.

Poi d’improvviso dal vento rapito, mi stacco dal gruppo e penso che forse le soste-Pagni non sarebbero mai nate se l’eponimo quel dì avesse officiato alla sosta-Pagni nel bar di Castelfalfi dove oggi è stata celebrata in sua assenza a 100°F di temperatura. Forse se avesse incontrato quella sorridente barista camerunense, dispensatrice di cremosi e rianimatori cornetti, quel dì l’arconte sarebbe ripartito con ben più virili gambe che non avrebbero mai permesso l’ignominia del disarcionamento. Pensate, per una sosta non fatta si sta scontando una pena sostatoria di sette anni, destinata probabilmente all’ergastolo. Così fra una sosta e l’altra godiamoci qualche ora d’aria, anche ventosa.


23/11/2003 Quello che le bici non dicono

 

Non si sa se le bici abbiano un’anima o se siano esse stesse anima, un’estensione dell’anima del ciclista. È un'antica questione filosofica che risale ai tempi di Cicerone, autore del famoso De velocipedis anima, dove afferma: “Nam vero perspicuum est velocipedem e corpore animaque constare, cum primae sint animae partes, secundae corporis.” Una dichiarazione di priorità dell’anima velocipedistica sulle mere parti meccaniche, in accordo con una più antica teoria di Aristotele che negli Opuscoli relativi all’anima sostiene quanto segue: “tò dè velokipedòn pròton synésteken ek psychès kaì sòmatos, òn tò mèn àrchov estì physei, tò d’archòmenon.” (E ringraziate che non l’ho trascritto in caratteri greci).

Col cristianesimo si va affermando una concezione radicalmente antropocentrica, tanto che in una recente pubblicazione i gesuiti negano l’anima anche agli animali, che è come negare il ciclo ai ciclisti. Pur tuttavia oggigiorno la visione animistica della bicicletta è molto connaturata nei ciclisti di passione, i quali ritengono essere la bici dotata di anima propria al momento della forgiatura, anima che poi viene a confrontarsi con quella del ciclista, di cui può, per simpatetica assimilazione, divenire un’affiatata res extensa.

Ma non è detto che quest’assimilazione ci sia, e comunque non è mai immediata. I professionisti che cambiano continuamente bici, anche se troveranno sempre l’adeguata posizione in sella con tutte le misure precise al millimetro, non troveranno mai quel connubio di soffi vitali che caratterizza chi il ciclismo non lo fa né per gioco, né per professione, ma per passione. E, come sostiene anche Sant’Agostino, se l’anima della bici rimane confinata nella sua ferrigna corporeità, essa si degrada e lentamente svapora. La bici rimane sì luccicante e corrusca, forte e leggera, ma priva d’anima, come cantava Riccardo Cocciante nel 1974 con la famosa Bella senz’anima, dedicata alla bici di Merckx che aveva vinto il Giro.

Tutta questa dotta premessa può aiutare a comprendere alcuni odierni accadimenti ai quali abbiamo assistito non senza stupore durante l’annuale, con ripetizione, pellegrinaggio al santuario della visitazione di Ruota, ovvero al Bar Centrale ed Unico ed Ultimo che dal 1920 offre paste a tiratura limitata ai fedeli uscenti dalla messa, in competizione coi ciclisti salenti da Colle di Compito (oggi sconfitti dai consumatori consacrati su un montepremi di 45 paste).

Se il corpo della bici sente la strada con le sue bizzose scabrosità, la sua anima sente il ciclista e si comporta in conseguenza di lui.

Prendiamo la bici dell’ipoallenato Boretti, una splendida Pinarello Prince di serie limitata. Egli la usa poco e dopo quel poco non la pulisce mai, lasciandola in un desolante stato d’incuria polverosa e fangosa. Una bici in questo stato è naturale che si annoi. La noia, diceva Leopardi, è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani ed è molto nota non solo agli uomini virtuosi, ma anche alle belle bici, le quali se sono disusate si annoiano o, in altri termini, si rompono. Infatti la bici di Boretti si è rotta nell’attacco del poco impugnato manubrio e non sappiamo ancora se egli sia tornato a casa grazie al nastro adesivo o all’autostop.

Prendiamo l’analoga Principessa di Chiarugi che la usa e la pulisce. Ella si sentirà indubbiamente lusingata da tanta cura e, per tutta gratitudine, lo farà veleggiare in salita pur con la schiena in disfacimento. Vero è che un giorno anche lei si è rotta, forse perché il condottiero si dedicava troppo al podismo.

Prendiamo Boldrini rinnovellato di novella De Rosa. Prendiamo questa malcapitata neonata, uscita dopo parto travagliato da gloriose fucine. Immaginiamo quali sensazioni possa provare quest’anima delicata racchiusa in un pregiato involucro carbonioso quando si vede sodomizzata da un essere alieno con una chiorba glabra, due occhi chirghisi e due spropositati stantuffoni che cominciano a mazzolare i suoi gentili ingranaggi. È così spiegato perché Boldrini, della qual cosa non sa darsi pace, sia rimasto attardato sulla salita di Ruota: il corpo della sua bici era perfettamente integro ma l’anima era svenuta per lo spavento, e la puzza costante dell’olio canforato con cui s’era lucidato gli stantuffi non è bastata a farla rianimare.

Oggi ne potremmo prendere tante altre per farle parlare, invece di descrivere la salita dai soliti sudori dei ciclisti, e sentire quello che le bici di solito non dicono perché le loro voci pacate che vengono su dall’anima sono soffocate dal clangore dei metalli e dalle strida dei ciclisti. Udiremmo così il coro delle Daccordi, dal soprano di Ziodipucci ai contralti di Mazzantini e Pucci, fino alle pesanti stecche di Pagni e Tempestini, poi il più aristocratico quintetto delle Pinarello governato dalle già citate principesse e tenuto in alto rango dalle nobili presenze indossate da Bagnoli A, Caparrini e Giunti, e infine le tre soliste l’anglofona Cannondale della Bertelli, la rugosa Colnago di Nucci e la vermiglia Olmo di Borchi.

Rampollano dalle anime soavi di queste creature voci di giubilo che s’elevano e si mescolano al cielo. Riusciamo a percepire distinta soltanto una parola, un forte desiderio inconscio che si libra chiaro ed unanime nell’Empolitour come un presagio non lontano: Mortirolo.


16/11/2003 Un Mortirolo chiamato desiderio

 

“Il Mortirolo è fatto, ora s’hanno da fare i mortiroliani”. Così parlò Caparrini dopo l’odierna ritardata partenza, con tono solenne e risorgimentale. Tutti noi capimmo subito che cosa si nascondeva dietro a tanta solennità. Significava che nella sua mente programmatrice erano già vergati i nostri destini per tutto l’anno a venire. Per il presidente una programmazione chiara e robusta renderà meno turbolenti le notti dei prossimi sette mesi ma, senza entrare nei dettagli geografici che saranno divulgati a gennaio, resta ancora un insolubile nodo ad angustiare i sonni, quello di Bagnoli L.

Il Mortirolo è terra irredenta per molti influenti soci, come Giunti, Tempestini e Ziodipucci che lo reclamano a gran voce, e ciò lo rende ineludibile nei disegni del presidente. Ma è anche insanabile motivo di annosa controversia. Il gruppo si è già spaccato in due fazioni equipollenti, da una parte i favorevoli, tutti meno Bagnoli L, dall’altra i contrari, Bagnoli L, che è solo ma decisamente dogmatico sulla materia. Il presidente si sta schierando con lui, non perché tema il Mortirolo che ha già scalato due volte e dal quale si schermisce col capzioso argomento di “salita da una volta nella vita”, lapidario verso che lo renderebbe immune dall’ostile mulattiera di Mazzo anche in caso di reincarnazione; il presidente sta invero con Bagnoli per un voto pronunciato in fin di scorso Giro, col quale s’impegnò ad assecondare il dogmatico responsabile tecnico in ogni suo inappellabile veto.

Caparrini, che è ciclista d’onore, non può più ritrattare il voto sul veto, ma la sua anima ora vacilla, fra l’incudine incorruttibile dell’atavico e autorevole vicepresidente e i martelli degli scalpitanti novizi che fremono d’amore e di Mortirolo. Tanto che si è dichiarato disposto a farsi il Mazzo col gruppo se qualcuno riuscisse a convertire Bagnoli L, impresa che ha la stessa probabilità di successo del tentativo di confutazione del quinto postulato d’Euclide sull’unicità della retta parallela passante per un punto esterno, o di una proposta d’abolizione statutaria della sosta-Pagni.

Tutta questa diatriba apparentemente prematura sul Mortirolo, se non altro ravviva le conversazioni itineranti ed alimenta le braci sopite dei desideri altrui, soprattutto di quelli che non hanno mai visto il Mortirolo, come il tirocinante Mazzantini.

La fiamma del desiderio accende esiti finora impensabili, come l’approvazione unanime di una salita chiarugiana. È noto che le salite chiarugiane sono inedite digressioni caratterizzate da strada stretta, desolata e soprattutto ripida. È noto anche che a Chiarugi, in virtù della potestà conferitagli dall’atavica carica di consigliere, è concessa ogni anno una sola di queste temutissime digressioni che solitamente generano diffidenza e sommossa. Oggi, per dire quanto arda nel gruppo il desiderio di Mortirolo, nessuno si è lamentato della digressione di San Donnino, che non è in questo caso la Chinatown fiorentina, ma un’erta viuzza che s’inerpica fra una casa e una chiesetta sconsacrata per sbocciare con un concertato climax ciclistico e artistico davanti alla cupola di San Michele a Semifonte, una miniatura in scala 1:8 di quella del Brunelleschi, come recita un’insegna sulla strada, letta e riletta dai primi arrivati in attesa di Borchi.

Nessuno si è lamentato di questo Mortirolo in scala 1:12, scala imperfetta perché, a differenza dell’originale, la miniatura di San Donnino presenta due inopportuni falsipiani al 7% posti fra tre nobili svolte che ambiscono al 20%.

Nessuno si è lamentato, nemmeno quando le ruote slittanti sul lacrimoso asfalto rendevano inane e rischioso ogni tentativo d’alzata sui pedali, per mitigare con l’impeto del danzatore quella selvaggia ripidezza.

Nessun lamento si schiudeva dai silenzi dei cuori gonfi di desiderio, il desiderio di Mortirolo che prorompeva virile dalla quadriglia dei primi, dalle lonze guerriere di Tempestini, dai baffetti agonistici di Ziodipucci, dalle zampate equine di Mazzantini e dagli occhi chirghisi di Boldrini. Un desiderio che si propagava rapidamente dalla testa alla coda e che faceva sorridere la Bertelli, arrossire Pucci, tintinnare Giunti e ponzare Caparrini. Il presidente ponza nel polmone e nel cervello, non osa riconoscere come proprio questo sconvenevole desiderio che gli sta insidiando il voto sul veto. Non lo ammetterà mai, ma nei penetrali della sua anima programmatrice continuerà a covare fino all’ultimo la speranza di una miracolosa conversione di Bagnoli L. In fondo, pare che nella geometria ellittica di Riemann sia già stato confutato il quinto postulato di Euclide.


09/11/2003 Palinodie

 

Tanto per cominciare, la palinodia è un componimento che ne ritratta uno precedente e, tanto per proseguire, dopo due settimane veniamo a sapere che Bagnoli F, protagonista rinologico dell’ultima narrazione, non è Bagnoli F ma Mazzantini A. Lo abbiamo appurato stamattina quando il vero Bagnoli F e il vero Mazzantini A si sono presentati alla partenza reclamando le loro anagrafi. Un clamoroso refuso d’agnizione, poco giustificabile per l’effetto mascherante del casco, poiché Bagnoli F è più giovine, più lento e più riduttore di Mazzantini il quale, per giusta ripicca col fisiognomico narratore, oggi non si è mai soffiato il naso.

In effetti quest’odierna resipiscenza d’estate di San Martino non meritava catarri e moccoli. Noi la chiamiamo estate di San Gimignano e la celebriamo tutti gli anni in Piazza della Cisterna, due o più volte finché Pagni non s’ignuda e s’increma. Il sole c’era ma l’arconte è arrivato indegnamente intabarrato. Ed era un sole che trafiggeva i solai e denudava i ciclisti e gli appetiti, lasciando trasparire in ordine sparso: il cappello fossile di Bagnoli L, le tette irretite della Bertelli, la chiorba rilucente di Boldrini, il madido tovagliolo di Boretti, la più che madida fascia di Caparrini, i palesi polpacci di Chiarugi, le asociali brache di Giunti, le virtuose coane di Mazzantini, l’imperitura epa di Nucci, il ridondante giaccone di Pagni, l’allegra dentatura di Tempestini, e la diafana fronte di Ziodipucci; dodici bocche di cui undici manducanti, come nel lontano 14/10/2001 quando stupimmo la piazza con uno scontrino di allora equivalenti 27,11 euri.

Dopo due anni le bocche non aumentano perché Chiarugi resta incorruttibile, l’arconte Pagni non eccelle e si livella su una media proletaria di una pasta, un caffè ed una bibita, la Bertelli non esige come l’altra volta l’ambrosia da 9000 lire e Boldrini mangia e bee e paga per conto suo, pur tuttavia lo scontrino sociale decreta 43,10 euri, record migliorato del 60%, tanto da far saltare l’abituale schema di ripartizione (uno-due euri a testa) e costringere il presidente ad integrare di tasca propria l’insufficiente questua di spicciolame.

Queste esperienze ci confortano: nell’Empolitour l’atletismo ognor decade ma il consumismo cresce e ci lascia aperti inarrestabili margini di miglioramento, indipendenti dall’attuale inarrestabile degrado muscolo-scheletrico. Si ringraziano poi l’inflazione, il cambio di valuta e quello di gestione del bar che hanno contribuito da par loro a tale e tanto successo.

Per dovere di titolo, dopo la corretta appellatio del Mazzantini, che fra l’altro pedala anche forte, fra i duellanti Boldrini e Chiarugi e il rinascente Nucci, ci si potrebbero aspettare altre palinodie. E invece, guardando indietro nella letteratura, non troviamo proprio niente da ritrattare anzi, continuiamo a rafforzare le nostre teorie su i seguenti punti.

Boldrini: anche se ad un’osservazione più intimistica potrebbe sembrare un ragazzo perbene che mangia e bee e dorme e veste panni, e addirittura sa anche stare zitto per qualche chilometro, la sua transgenetica ciclistica non sarà mai oggetto di confutazione, è uno dei tanti postulati dell’Empolitour.

Caparrini e Pagni: a distanza di due anni continuano a salire verso il valico di Boscotondo come amabile duo di raccoglitori di funghi, e difatti raccolgono molti ceppatelli, come l’agonizzante Boretti.

Bagnoli L: sopra l’elegante vetustà degli abiti e dell’immacolata bici, indossa un’armatura di fermezza e coerenza. Ha detto no al Mortirolo e no sarà. E questo si va ad aggiungere ai tanti postulati dell’Empolitour.

Gli organizzatori del Giro d’Italia: Leblanc è paranoico, e va bene, ma da Castellano, o chi per esso, ci aspettiamo tutti gli anni, come rivalsa all’insipido tracciato del Tour, quel barlume d’italico genio che puntualmente non arriva. Tre interrogativi fra i tanti. Perché prima di disegnare una tappa di montagna non chiede un consulto gratuito col presidente Caparrini, invece di farlo ruminare per adeguare l’Empolitour al tracciato? Perché si ostina a piazzare le cronometro di domenica? Perché dopo averci fatto agognare per trent’anni l’arrivo su un passo mitico, come lo Stelvio di Bertoglio e Galdos, se ne esce con un Mortirolo dilapidato dopo 30 chilometri ed un arrivo su una quanto mai fantasiosa Presolana?

Ma non ci lamentiamo. Se il Tour 2004 è la solita “Corazzata Potemkin”, il Giro 2004 possiamo a buon diritto definirlo “Giovannona coscia lunga” o “L’esorciccio”.


26/10/2003 Caro diario

 

8.01 L’ora è solare ma il sole accusa un desolante pallore mortifero, in tono con la canizie del cielo. Caparrini mercanteggia in vestiario sociale. Chiarugi, rannicchiato in attesa di disgelo in un angolo dell’atrio sociale, lo vede passare avanti e indietro dieci volte, una per ogni arrivo. Ha da vendere capi di dieci taglie differenti e la cassa sociale è in forte passivo. Eccolo che adocchia con cupidigia gli asociali Borchi e Bagnoli F come potenziali acquirenti.

8.08 Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. L’undicesima volta è quella definitiva. L’ora delle decisioni irrevocabili. Boldrini comincia a gnaulare. Bagnoli F senza fratello riversa sull’asfalto mezzo litro di muco nasale. Giunti, senza copriscarpa, per essere citato indossa un civettuolo foulard che ingentilisce la marchiana casacca invernale.

8.16 Caparrini bisbiglia qualcosa a Pagni. Bagnoli L origlia. Sono le prime segretissime indiscrezioni sul percorso del Tour 2004. Una risata stentorea di Pagni fa trapelare un certo Col de La Morte. Cambiando narice, Bagnoli F inonda l’asfalto di un altro mezzo litro. Pucci prova ad imitarlo con minore produttività. Ziodipucci è socialmente rivestito dai piedi alla testa esclusa, dove svetta l’inseparabile berrettaccio grigio di lana spessa che gli regala trenta centimetri d’altezza.

8.32 Non siamo soli nel sistema e nell’ora solare. L’onda dell’Empolitour trascina con sé ogni relitto, non solo Boretti che si toglie il sostitutivo. Il gruppo ingloba anche un ciclista da collezionismo: cancello Giant, pompa ancorata al tubo orizzontale, gambe ignude e magliettina estiva protetta da mantellina gonfiabile. Guardandolo, Tempestini è tentato di togliersi i suoi gambali a giarrettiera ma desiste per pudicizia. Bagnoli F ingrossa il torrente Orme con un altro colpo di naso. Boldrini gnaula per la lentezza. Pure una Panda guidata da un omino col cappello riesce a sorpassarci.

8.45 A forza di gnaulare, Boldrini si decide ad attaccare nello strappo di Strozzadonne. Giunti, per essere citato, lo bracca a mezza ruota e pieni polmoni. Tempestini lo insegue increspando i gambali. Borchi sfrutta l’effetto fionda per l’ordinaria fuga solitaria. Boretti osa ma esala. La Panda dell’omino col cappello sta per essere ripresa. Di lì a poco s’impantanerà nel muco di Bagnoli F che si è nuovamente soffiato il naso.

8.57 Il gruppo ritrova compattezza ai piedi della famosa salita del Mannello che porta a Montaione con qualche scossa. Gamba Ignuda decide di arruolarsi all’intero percorso. Non sembra leggero ma la sua speciale mantellina lo aiuta nell’ascensione per effetto mongolfiera. Boldrini piuttosto che gnaulare attacca con inumana veemenza recuperando in tre pedalate il pacemaker Borchi. Nel dolorante Chiarugi scatta l’orgoglio del conte Mascetti (“Tanto domani m’ammazzo”) che lo trascina alla sua ruota e oltre. Bagnoli F, alleggerito di tre chili di muco, diventa un agile scalatore e si dimena elegantemente coi primi.

9.06 Il cielo canuto non rende giustizia al calore dei ciclisti. È Chiarugi stavolta a gnaulare coi bronchi per tenere il passo di Boldrini, soltanto un po’ fumigante. Gamba Ignuda è l’unico che suda in libertà senza manti o livree. Il camauro dello Zio si gonfia coi vapori della sua zucca glabra, mentre dell’analogo copricapo di Boretti soltanto il pompon si salva dall’esondazione sudoripara. Gialleggia invece l’immane fascia caparriniana che galleggia nel sudore anche a 4°C.

9.20 Pagni e Borchi s’accomiatano ognun per la sua strada di riduttore, lenta e meditabonda per l’uno, ratta e irrefrenabile per l’altro. Pucci, invidioso dei successi di Bagnoli F, tenta di zufolare il muco dal naso, producendosi in un fallimentare sternumentum siccum che provoca solo un momentaneo fuggi fuggi della selvaggina stanziale.

9.46 Boldrini divide et impera. Fa e disfa il gruppo a suo ghiribizzo. Ora Bagnoli F, Pucci, Ziodipucci, Chiarugi e Giunti (per essere citato) godono della sua potenza riflessa. Anche il sorgivo fiume Egola gode di un inaspettato aumento della portata grazie ad un’altra magistrale fluidificazione nasale di Bagnoli F. Nelle retrovie Gamba Ignuda s’incolla alle autorevoli vesti di Caparrini e Bagnoli L per carpire qualche assaggio d’iniziazione all’Empolitour.

10.02 Bici, cancelli e ferraglie si vanno ammassando sulle mura del Circolo ACLI di Villamagna. Dentro, ignare di tutto, due bambine, la mamma  e la nonna con un lattante sulle ginocchia, stanno giocando a dama e non si scompongono quando i ciclisti a ritmo di tip-tap entrano alla spicciolata per fare razzia di paste. Gamba Ignuda, intimorito, si limita al caffè mentre Ziodipucci addenta un densissimo Power Sport come contorno di una crema con la pasta. La partita a dama s’interrompe prematuramente per discussioni insanabili su una soffiata.

10.22 Allo scoccare del ventesimo minuto di sosta, Caparrini ordina la ripartenza. Il valico di Boscotondo a pancia piena è l’ultima nota che suona come degna catarsi. Si avvantaggiano subito Chiarugi, che è digiuno, e Giunti, che vuol essere citato, ma il molossoide Boldrini li addenta senza pietà con le ansimanti appendici di Ziodipucci e Bagnoli F che aveva dato l’ultima scrollata alle coane per tentare un disperato attacco. Il resto del plotone annaspa nelle retrovie col passo della comitiva agli Uffizi, con l’unico sussulto di un improvviso fiume di muco che rischiava di travolgerli.

11.40 Siccome siamo già stufi di questo diario, facciamo un salto di trenta chilometri ed un valico, dove naturalmente Boldrini ha maramaldeggiato, ma senza gnaulare. A Castelfiorentino il gruppo torna tale in dieci minuti. Si notano ancora indenni: il camauro di Zio, le giarrettiere di Tempestini, il foulard di Giunti, il naso di Bagnoli F e il corpo di Boretti. La guest star Gamba Ignuda è ancora lì, nuda e cruda, ma Caparrini sicuramente da qui a Empoli l’avrà circuita per rifilarle uno dei costosissimi capi d’abbigliamento sociale, per il bene suo e della languente cassa sociale.


19/10/2003 Tanto Chianti per pochi bicchieri

 

S’archivia l’ennesima esibizione di una Classica di Chiusura che niente chiude se non le speranze. Chi sperava di celebrare un’Empolitour ricca e compatta sotto un sole riparatore risorto dalle acque, si dovrà accontentare di uno scarno cifrario: quattro gatti integralisti, tre riduzionisti veraci e quattro dispersi, più un’illustre schiera di non partenti capitanata dall’industrioso Nucci che si sta seriamente impegnando nel raddoppio della perdurante seminfermità mentale, come dimostra un recente allenamento podistico con fascia in fronte, poster di Nina Moric sottobraccio e metro da falegname in tasca per misurare cancelli (sic).

Questo di tanta speme oggi ci resta, non c’è nemmeno la bella addormentata nell’attico (Bertelli) da decantare. Il Giro del Chianti, estremo baluardo di un lungimirante ciclismo ultracentenario, soggiace alla dura lex del pavor longinquitatis, che non è paura di non farcela ad arrivare in fondo, ma l’atavica sottomissione a mogli e suocere istitutrici del rito tribale domenicale detto pranzo.

Fame e sete riducono le mete. Così in una luculenta enoteca di Piazza Matteotti a Greve s’infrangono le speranze di rivivere una crisi cartesiana di Bagnoli L, una crisi da eccesso di vestizione di Boretti o una crisi da eccesso di lonze di Tempestini. Da tempo ormai non v’era più traccia dei robotici Boldrini e Trasacco. Nemmeno l’afrore delle bisunte cosce boldriniane, odorabile in dieci chilometri di raggio senza vento, era sufficiente a localizzarli. Il presidente ha però decretato che se anche avessero putacaso percorso l’intero tragitto, i due saranno ugualmente tacciati nell’annuario sociale come riduzionisti, ancorché temporali e non spaziali. Sulla loro sorte e su quella di altri due dispersi, Borchi vestito da puffo giallo e rosso e Pucci vestito da non si sa come perché s’è appena intravisto, ci si appella a chi li avesse incontrati per strada.

Il presidente avrà il suo bel daffare per categorizzare in maniera congrua queste diverse tipologie di riduzionismo perché, anche se quello di oggi potrebbe sembrare un giro parrocchiale, rimane pur sempre un classica monumento che esige rispetto, cronaca adeguata e pubblicazione sull’almanacco dell’Empolitour.

Onore pertanto agli strenui e pugnaci ciclisti che condussero a termine la campagna del Chianti, ognora dando alle pavide truppe d’imboscati fulgido esempio d’intrepido sprezzo del pericolo, serenamente infusi di quell’indomita energia, di quel saldo e nobilitante patrimonio morale dei puri di spirito che soli ed invisi resistono agli strali del tempo e alle lusinghe della neghittosità e lanciano i loro cuori gonfi d’invitta virilità oltre le barriere del possibile, ricevendo quale degna mercede di tanta sublime pertinacia, poche righe di fatuo e retorico encomio che passano rapide ed obliate nelle distratte menti del pubblico lettore, ma che si cementano a guisa di granitico obelisco nella memoria di chi li ha vissuti. Possano questi nomi risuonare per sempre nelle volte della storia velocipedica come gagliardi e inimitabili emblemi di tosche virtù.

Ah, quanta elegiaca robustezza s’indova nell’ossatura adamantina del presidente Caparrini, nudo pilastro che niuno vento e niuno gelo oserà blandire, ben sapendo che mai cederà a tentazioni di calde ma da lui sprezzate coltri e mantelle.

Ah, quanta estatica arte prorompe dagli scatti terminali del musicista Giunti, leonini agguati sferzati poi che le flaccide pedalate dei compagni parevano svaporare nel cielo aprico e negli odori remissivi della requie cittadina.

Ah, quanta superba regalità regala a noi sudditi il maestoso portamento di Ziodipucci, con quel soave berretto di lana spessa che s’erge come tiara sulla zucca sua ridente e fuggitiva, nobile insegna di un predominio atletico che non lo gonfia di futile orgoglio, ma che anzi non gli impedisce di preferire ai voli pindarici della vanagloria i voli carpiati sull’asfalto quando non riesce a staccare i piedi dai pedali, poiché il suo corpo sempre anela a divenire prolungamento centaurico della regale bici.

Ah, quanta tenace perseveranza gronda dai fragili e dolenti lombi del capitano Chiarugi, giammai domo ai colpi di bivio e di ventura che lungamente gli prospettavano un misero destino di desistenza. Quanta discreta reverenza si legge negli occhi suoi adusi a dominare gli orizzonti sconfinati delle prime file ed ora per necessità costretti a guatare le sinuose movenze dei tronchi di Caparrini, Giunti e Ziodipucci.

Gloria imperitura a questi Fab Four. Libiamo in quattro lieti calici col raffinato Chianti di Castellina, brindiamo alla morta stagione che ci ha regalato uomini e strade, e alla presente e viva che altrettanti doni ci promette. Per esempio il Mortirolo.


28/09/2003 Blackout

 

Da una notte illune e senza fiaccole di civiltà si svegliano ombre bianche di ciclisti. Si cercano a tastoni e si trovano pochi nella morente oscurità. Mancano gli addormentati sbronzi nell’ascensore, i prigionieri di cancelli e sveglie elettriche e i ricaricabili coricatisi con le dita nella presa.

Suona la carica Caparrini e Borchi già è fugace, flebile face gialla e rossa in lontananza. Chiarugi accompagna la sua solitudine in un silenzio agreste sconfinato che le pedalate metalliche di Borchi rendono meno eterno. La vita fra Villamagna  e Iano, ancora d’ogni luce muta, si ferma nel latrato di un portone. Ziodipucci, funzionante ad energia nucleare, vorrebbe accendersi ma rispetta la notte dei compagni. Notte fonda e illune ma piena di sogni. Pagni sogna la trippa. Bagnoli A. sogna la scorciatoia che presto si avvera. La trippa invece no. Si avverano paste e ordinari caffè, pure un cappuccino con la mortadella. Poi il blackout.

Caparrini, che ne ha vissuti parecchi su tutte le salite del mondo, insegna i blackout dei ciclisti, quando la luce si spenge per alcuni o si spegne per altri e le gambe sprofondano nell’oltretomba. Ricordi antichi di quando l’Empolitour era fondata sul ciclismo.

Quando c’è non si vede: il blackout. Improvviso e implacabile. Ora che l’Empolitour è fondata sulla sosta lo spirito religioso si è rafforzato. San Vivaldo stava sul culmine della salita a dispensare ristori. Folgorato dalla fame, Nucci aspira pane e mortadella direttamente nei bronchi per assorbirli prima. Poi il blackout.

Le menti si ottenebrano e quindici chilometri dopo i ciclisti si domandano se hanno o non hanno già onorato la sosta Pagni. Nell’incertezza la ripetono. Il buio cala sul passato d’atleta austera della Bertelli che annienta una cremosa ridondanza con labbra avide di languore. La Bertelli s’è desta e sembra un’altra. Le notti portano consiglio e cambiamento e chi non cambia va sempre in prima. La Bertelli non corre più. Nell’Empolitour non c’è più quella che corre. Non c’è più la corrente. C’è il blackout.

I superstiti si chiedono il perché dell’assenza di soste e si fermano in raccoglimento davanti alla cuccia di una cagna. Poi il blackout.

I superstiti dei superstiti si chiedono il perché dell’assenza di soste e si fermano in raccoglimento davanti alla cuccia di un edicolante. Poi il blackout.

Ora è davvero pesto. Il blackout arriva quando meno te l’aspetti. Un attimo prima sei acceso e poi all’improvvis


21/09/2003 Una stella cadente

 

Ogni tanto ci tocca ricordare d’essere carne troppo morbida in bilico su un destino di ruote troppo sottili. Preferiremmo pensarci spiriti muscolati, spettatori anelanti e infrangibili che muovono sublimi ingranaggi in equilibrio con le forze newtoniane. Poi però la strada infida ci tende agguati e si cade come corpo vivo. Il destino sdrucciolevole che grattugia la nostra essenza sanguigna ci desta improvvisamente da quest’illusione d’essere puro pensiero pedalante in mezzo alle meraviglie delle nostre terre.

Giunti avrebbe comunque meritato gli onori della cronaca grazie ad una scommessa vinta col narratore dopo averlo insidiato sulla prima salita di San Gimignano: affrontare le due successive semisalite di Castel San Gimignano con un tenace cinquantatré per diciannove. La posta in palio, una degna citazione letteraria come infatti sta avvenendo. Una prova di virilità che dopo tanti chilometri sottovento al presidente, consacra definitivamente il musicista sociale in una dimensione ultracaparriniana. Perdurando la seminfermità fisica di Chiarugi e quella mentale di Nucci, attualmente soltanto il molossoide Boldrini è capace di tanto.

Giunti avrebbe voluto ricordare la classica equinoziale di Volterra per questa simbolica medaglia al valor ciclistico e invece, giù per le balze e gli alabastri, la forza di gravità lo ha tradito, e quando si è rialzato fra le lamiere della bici e di un guard-rail, ha scoperto suo malgrado di quale sangue egli sia fatto: scosso e polveroso ma integro nell’ossatura, tranne una grave frattura scomposta del manubrio della Pinarello, trasportata insieme a lui in ambulanza per le cure del caso ma poi ritenuta non guaribile senza un trapianto d’organo.

Tutti i premurosi compagni, sopravvissuti al lungimirante percorso, si stringevano intorno a lui. La crocerossina Bertelli prestava le prime cure ed un telefonino non funzionante, Pucci prestava un telefonino funzionante, il dottor Pagni sollecitava i soccorsi inviando l’ambulanza nel posto sbagliato, Chiarugi tentava di rincorrerla, Nucci tentava di svenire davanti al sangue, ma soprattutto Caparrini rassicurava il paziente promettendogli che non avrebbe perduto comunque il diritto alla citazione negli annali dell’Empolitour come integralista di percorso, in base ad una norma sociale antica e accettata, e già applicata, che prevede il completamento de iure di un tragitto interrotto per accidente fisico o meccanico immobilizzante ed insanabile. Prima di applicare siffatta norma il presidente ha però personalmente eseguito una perizia medica e meccanica su Giunti e consorte, convenendo che, seppure il ciclista fosse idoneo a proseguire motu proprio, il manubrio diviso in due rappresentava un valido reperto per sancire l’invalidità parziale ma sostanziale del mezzo.

Era necessario oggi puntualizzare quest’aspetto legislativo per non creare malumore fra i numerosi riduzionisti che saranno tacciati di decurtatio itineris pur avendo percorso più chilometri di Giunti. Senza il suo incidente l’argomento del giorno sarebbe stato infatti il riduzionismo. Era già pronto un adeguato pistolotto. La materia umana non mancava. Dopo un quadrimestre d’assenza era tornato il patriarca, nomoteta e maître à penser del riduzionismo, il membro primigenio della specie velocipedista decurtans, Bagnoli L. Dopo un quadriennio d’assenza era tornato l’estremista della corrente, teorizzatore della reductio ad infinitesimum, cioè non partire nemmeno o partire e fermarsi all’improvviso per tornare indietro. Stiamo parlando, per i più giovani, del velocipedista interruptus Centola, protagonista di un’epica marcia indietro qualche anno fa. Eravamo pronti ad una descrizione accurata dell’immutato aspetto belluino e dell’immutata maglietta d’epoca con cui è ricomparso in sede. Ogni suo gesto, ogni sua affermazione avrebbero certamente riempito due ilari cartelle. C’erano tanti loro adepti e diadochi, mai combinati insieme prima d’ora in un sol luogo: il riduzionista temporale Borchi, che non riduce gli spazi ma i tempi cassando attese e soste, il riduzionista imprevedibile Boretti, i riduzionisti siamesi Bagnoli A e F, il riduzionista vacanziero Tempestini, e forse qualcun altro che nella moltitudine dei partenti e delle scorciatoie è sfuggito al computo del cronista (c’è stata addirittura l’apparizione del sarto sociale Vifra che, dopo la nostra magnificente ordinazione di capi, si è finalmente comprato un vestito ammodo invece di usare gli scarti del cliché dell’Empolitour).

Insomma, la musa era già sazia d’ispirazione e Giunti poteva anche fare a meno di raspare un gomito e spezzare un manubrio. Però la storia è a lieto fine ed esige una morale, già pronta nel cassetto e dedicata a tutti coloro che, forse tratti in inganno dalla chiorba sintetica del molossoide Boldrini, pensano che il cranio sia un casco già sufficiente per il cervello e che quindi sia eccessivo indossarne un altro sopra.

Per fortuna Giunti non la pensava così.


14/09/2003 Zio e fratello

 

Perdurando la seminfermità fisica di Chiarugi e quella mentale di Nucci, l’unico che sa reggere il confronto con l’onnipotente Boldrini è il rubizzo Ziodipucci, detto ormai confidenzialmente Zio. Sul suo conto cominciano a circolare strane leggende. D’altronde la sfrenata escalation di questo schietto personaggio si presta ad interpretazioni esoteriche. A cominciare dall’anagrafe. Dichiara un cinquanta, dimostra un ottanta e pedala come un trenta. Qualcuno azzarda l’ipotesi che sia un OGM. Un prodotto di scarto di qualche segretissimo laboratorio genetico, come Boldrini. Se di ciclisti transgenici davvero si tratta, non v’è dubbio che siano due refusi. Se s’investono capitali e cervelli nella manipolazione del genoma umano, col rischio di tirarsi addosso gli anatemi del papa e dei comitati etici, si dovrebbe ambire a prodotti d’eccellenza, quantomeno un campione olimpico o un vincitore di Giro e Tour, non un ciclista con le cosce di Hulk né uno che sembra Capannelle dei Soliti Ignoti.

Abbiamo sempre creduto alla transgenetica di Boldrini perché è troppo anomalo per essere naturale, ma ora con l’avvento del fenomenale Zio un dubbio s’insinua lecito. O sono tutti e due transgenici difettivi o vanno forte semplicemente perché il resto della squadra stagna in un periodo di recessione atletica senza precedenti. Quest’ultima ipotesi sarebbe suffragata da molti indizi. Il più forte è rappresentato da Caparrini che sulla salita di Luiano bracca e arpiona l’ansimante Bertelli, con un non meno ansimante Chiarugi a scia. Un anno fa sulla stessa salita Chiarugi staccava Caparrini spingendo il peso morto Boretti mentre la Bertelli per stare accanto al presidente in salita doveva far voto di decelerazione assistenziale.

L’ipotesi transgenica traballa anche osservando il nipote. Se Zio fosse transgenico, Pucci avrebbe ereditato qualche mitocondrio speciale per pareggiare almeno con Giunti e Tempestini, e invece persevera ad ultimeggiare. O forse la loro è una parentela fittizia. Pucci potrebbe essere un meccanico in incognita adibito a vegliare sulla carrozzeria di Zio che da un momento all’altro potrebbe esplodere sotto l’effetto d’una potenza fisica troppo straripante.

È giusto pertanto dedicare a Zio questo meritorio peana prima che un imminente attacco di progeria lo faccia regredire di nuovo allo stadio di omino col cappello e balla di fieno sul manubrio. Non dimentichiamoci che alla sua prima esperienza con l’Empolitour partì in bici e tornò in ambulanza. In un anno è passato dalla polvere di un fosso all’altare.

È un esempio e un incitamento per tutti quelli che adesso partono e non arrivano. Come Borchi, Traversari, Bagnoli A. che ha fatto apparire un piccolo fratello, sconosciuto a tutti, per rinverdire le gesta dei Baronchelli, dei Baresi o dei Santonastaso. In attesa della riesumazione di Bagnoli L., eventualmente col rampollo Bagnoli G., dobbiamo registrare anche un Bagnoli F. sul quale già si vocifera. Pare che sia stato fatto clonare da Bagnoli A. col DNA di un capello di Cipollini e un ovulo della Luperini, ma pare anche che per distrazione i reagenti siano stati mescolati in senso inverso ottenendo un ciclista alto e veloce come lei e forte e tenace in salita come lui. Non vincerà mai Giro e Tour, ma per un’Empolitour come quella attuale basta e avanza.


31/08 - 07/09//2003 -  Sempre ritornano

 

Nessuno tema d’averli perduti per sempre dopo i fasti del Tour, perché sempre ritornano. Grassi, imbolsiti e incanutiti ma sempre ritornano, con bici stanche di polvere e ragnatele. Li abbiamo abbandonati ai loro molteplici e imperscrutabili destini estivi ma ora che arrivano i venti del nord ad asciugare i sudori di queste valli arroventate, anche i ciclisti Empolitour ritornano a soffiare sugli unisoni manubri ed a spargere nuovo seme nei profondi solchi delle loro care strade vicinali che passano fra nomi sacrali e agiologici, San Baronto, Badia a Passignano, San Casciano, San Vivaldo, quasi a volersi riconciliare coi santi dopo tanta colpevole assenza. La quale, invero, non è stata per tutti assenza consacrata all’ozio integrale. Nonostante la ritrosia del ciclista a confessare il proprio allenamento, abbiamo raccolto testimonianze di molti sport alternativi praticati dai nostri redivivi nel periodo di vacatio velocipedis. Esaminiamo perciò un elenco di queste attività fisiche vicarianti che hanno permesso ad ognuno di loro di mantenere immutato il tasso atletico faticosamente conquistato sui pedali. I tecnici vi possono prendere spunto per tabelle d’allenamento molto originali.

Caparrini: nuoto ciambellato. È una variante del nuoto pinnato che si pratica col salvagente. Il presidente non ne ha però trovato nessuno che fosse più largo del suo girovita ed è stato costretto a ricorrere ad una variante della variante. Cioè il nuoto dopo aver mangiato due ciambelle di pasta fritta e zuccherata dette bomboloni. Pare sia molto difficile galleggiare con due zavorre del genere nello stomaco.

Pelagotti: tiro all’ingrasso. In un mondo in cui tante persone tirano la cinghia o tirano a campare, Pelagotti tira ad ingrassare, con successo. È finalmente tornato in bici in grande forma. Una forma a grande botte di quasi un quintale, anche se ha minacciato di svinare una ventina di chili prima dell’inverno.

Chiarugi: salto del pasto. Detiene record imbattibili sia nel salto in lungo del singolo pasto, sia nel salto triplo, colazione, pranzo e cena. Gli esperti sostengono che anche Caparrini e Pelagotti potrebbero praticare questo sport con sommo giovamento.

Boretti: lancio del peso. Durante le interminabili sieste della sua interminabile vacanza messicana, si dedicava a lanciare in aria una moneta da un peso per decidere sull’immediato futuro. Testa: continuo ad oziare. Croce: vado a mangiare.

Giunti: lancio del disco. Il soul-man dell’Empolitour si è deciso ad incidere il primo disco con i greatest hits delle trasferte di Giro e Tour. S’intitolerà The stecks of the Tour e conterrà molti pezzi del blasonato steccatore Nucci.

Nucci e Bertelli: canettaggio (sì, con la e) specialità due con. Vale a dire, due con un cane. Erano ciclisti da granfondo, poi si sono definitivamente evoluti in ciclisti da gransosta, fino a diventare ciclisti da passeggio con cane, un dobermann smilzo, agile e veloce, come in fondo furono anche loro un tempo ormai lontano.

Bagnoli A.: walk bike. È stato visto in sandali con bici da passeggio dotata di cestino e portabimbi, percorrere un circuito cittadino di quasi un chilometro. Qualcuno sussurra che abbia scalato pure il ponte di Sovigliana con un sacchetto della COOP dentro il cestino. Ha acquistato un nuovo telaio Pinarello per tornare competitivo con l’Empolitour, ma si è accorto che è troppo grande per entrare nel cestino.

Pagni: beach bike. Sulle spiagge ha scoperto finalmente il ciclismo del suo futuro, dopo aver ritrovato in un baule un sacchetto di palline raffiguranti Bitossi, Adorni, Altig, Pingeon ed altri eroi della fanciullezza. Si è molto allenato ed ha già un colpo d’indice preciso e potente. Non è però ancora riuscito a tracciare percorsi con salite impegnative.

Bagnoli L.: tremila siepi. Come tutte quelle che ha potato ogni domenica mattina dopo la fine del Giro. Già si sapeva che il giardinaggio era la scusa preferita per evitare uscite ciclistiche sul bagnato, ma prima che le siepi riacquistino il verdeggiante rigoglio sarà costretto rimontare in bicicletta.

Tempestini: salto della corsia. L’impareggiabile maestro di contromano ha divulgato il suo verbo anche in altri gruppi empolesi abituati a viaggiare pedissequamente a destra. Ha passato anche una settimana in Inghilterra per un corso d’aggiornamento.

Ziodipucci: tiro del collo. In un mondo in cui tante persone si tirano le pietre, le seghe o la cocaina, lo zio, che non è il padre dei vizi, ha preferito tirarsi il collo in allenamenti forsennati per giustificare la spesa miliardaria della sua nuova bici.

Pucci: cento piani. Siccome la sua camera della pensione Miramare era al terzo piano, in un mese ne ha scalati un centinaio, tutti rigorosamente in ascensore. Anche lui si è presentato in splendida forma. Nella splendida forma in viso di un pomodoro maturo quando ha dovuto di nuovo scalare con le gambe una salita del calibro del Chiesanuova.

Boldrini: lotta libera. Le sue cosce transgeniche non perdono mai l’allenamento anche se si fermano. Aveva però bisogno di migliorare la ferocia agonistica da sfogare contro Nucci e Chiarugi. Pertanto ogni giorno si cospargeva d’olio tutto il corpo, come i pancraziasti dell’antica Grecia, ed affrontava nudo ed unto avversari degni della sua cattiveria, come cinghiali o pitbull. Quando si è presentato al raduno di partenza con le gambe luccicanti ed appestate di canfora, per precauzione il presidente gli ha fatto indossare la museruola.

Traversari: salto in lungo da fermo. È una disciplina che non si disputava dalle Olimpiadi di Saint Louis del 1904. L'ha interpretata in modo moderno saltando a piè pari tutte le uscite ciclistiche di circa un anno e mezzo durante le quali è rimasto ovviamente fermo. Ciò ha favorito il suo reinserimento in un'Empolitour attualmente dimolto ferma.

Bettini: tiro del freno. Egli è l'homo novus, comparso con sociale agghindamento dopo la mancata convocazione ai recenti mondiali di mountain bike nella specialità del downhill. Si parlava molto della sua fulmineità in discesa ed in effetti dalla Sughera in giù è piombato spedito coi venti in poppa. Sì, venti all'ora. 

Ed ora che siamo di nuovo insieme, forti e maturi per ricominciare a pedalare nelle stesse strade, nelle stesse fontane e negli stessi bar, il nostro motto sarà: dopo l’ozio marciamo. Nel senso di marcire.


22/06/2003 A qualcuno piace caldo

 

Le cronache giornalistiche sono il setaccio delle eccezioni, come l’uomo che morde il cane o il Boldrini che stacca tutti in salita, ma a volte bisogna accontentarsi della regola. Può persino accadere che il giorno dopo il solstizio d’estate ci sia un caldo da solstizio d’estate, e chi lo chiama caldo eccezionale forse non conosce le regole del mondo. Le conosce bene l’Empolitour che ogni anno di questi tempi anticipa la partenza alle 7.30 quando le ombre sono già corte e il Caparrini è già madido. Il suo sudore muriatico ha scavato solchi indelebili sulla vernice del giovane telaio Pinarello, nonostante egli sempre pedali con fasce sesquipedali. La sua regola è lo stato di eterna arsura; il suo fine, il prosciugamento di monumentali fontane.

La sua squadra sa come difendersi dal caldo: la maggioranza guidata da Pagni lascia la bici in garage e va al mare. L’eccezione siamo noi sette che pedaliamo assaporando la poca aria fresca che il mattino ci regala nei recessi ombrosi. La respiriamo profondamente per rubarla a tutti i gitanti che stanno addobbando l’auto da spiaggia per una salubre e refrigerante fila al casello.

Scegliamo la salita di Avaglio per rafforzare l’abbronzatura pezzata ma scopriamo che, contro il volere del presidente, vi è cresciuto molto umbratile fogliame che nega al sole di riflettersi nel gocciolio dei nostri corpi riscaldati. L’ebollizione di Caparrini è pudica, vale soltanto pochi centimetri di scollatura. Davanti a sé l’irraggiungibile Giunti si sventra mentre la Bertelli mostra al castigato Chiarugi il conturbante quanto inutile reggiseno sociale che ben poco peso ha da reggere. Farebbe comodo invece a Tempestini che, drastico e risolutivo, appallottola la maglietta nel basso ventre e viaggia a torso nudo con la sua bella ginecomastia. Osservando la sua abbronzatura a stampo di bretelle, Caparrini inferisce che i raggi ultravioletti possano attraversare le fibre del tessuto sociale del sarto Vifra e che cioè si possa prendere il sole sulla schiena senza levarsi la maglietta. Qualcosa del genere sostenevano anche Mogol e Battisti quando parlavano del sole che trafigge i solai.

La saggezza popolare vuole che il caldo dia alla testa. Finora abbiamo visto esempi di reazioni fisiologiche alle alte temperature. Parlando di Boldrini e Nucci s’entra in una complessa analisi dei disturbi d’ideazione indotti dall’ipertermia. C’è invero chi sostiene che il caldo sia solo un epifenomeno e che i due soggetti siano psicopatici di natura. Noi, per il loro bene, vogliamo abbracciare la tesi del colpo di calore. Succede che Nucci diventi loquace e Boldrini silenzioso, che Nucci sbandieri ai pochi venti la sua supremazia in salita e che Boldrini rimanga compito e taciturno rilasciando poche ma sensate dichiarazioni sullo stato psicociclistico dell’avversario. C’è chi riacquista la memoria con un colpo in testa. Oggi con un colpo di calore, Nucci ha riacquistato la capacità di battere Boldrini e Boldrini ha riacquistato la capacità d’intendere e di volere. Forse diventerà un bambino normale anche senza l’intervento della Bertelli, fata dei due mari, che sempre si dilegua quando lo ode altercare con Nucci. Un giorno si sveglierà bello ed armonico e troverà appoggiata ad una seggiola la sua carnosa carcassa con la chiorba ciondoloni e le coscione incrociate. La guarderà ed esclamerà: “Com’ero buffo quand’ero un transgenico e come sono contento d’essere diventato un ragazzino perbene!”

Intanto, a chiosa di questa favola, vi proponiamo un facile problema di geometria per non dimenticare come è fatto Boldrini, nel caso diventasse davvero perbene.

Se un fazzoletto quadrato di lato pari a 40 cm avvolge interamente da un vertice a quello opposto la coscia di Boldrini (verifica sperimentale durante l’odierna sosta-Pagni a Femminamorta), quanto misura la circonferenza di tale coscia? Il primo che invierà l’esatta soluzione al webmaster riceverà in premio una confezione di ossigeno stabilizzato che Boldrini usa per rendere più ecologici i suoi rutti e le sue scurregge.


08/06/2003 Quel che resta del Giro

 

Archiviato il Giro, è tempo di bilanci e di bilance. Caparrini dichiara 87 chili al netto del sudore. E gli sembra pure poco. In effetti se non sudasse ad irrigazione come fa lui, sarebbe gonfio come un materasso ad acqua. È un ciclista idrovoro e non può negarlo, anzi ne va fiero, a giudicare dalle due cisterne che ostenta sui tubi del telaio come borracce del Tour e che sono irrimediabilmente vuote al primo chilometro di salita. Oggi per di più, c’è una salita inedita e chiarugiana, niente di più insidioso. Si parla di Sarripoli e già si vedono spuntare le prime sinistre rampacce. Ha accondisceso forse per le referenze della Bertelli, dimenticandone l’insipienza topografica, e ora nel suo animo acquoso comincia a galleggiare un silenzioso presentimento.

Si sono accodati anche due incauti seguaci di Nucci e Bertelli, muniti di nobile armamento e portamento ma poco avvezzi a salite regali come a volte ci regala l’Empolitour. Caparrini si scuote fra un sentimento di consolazione per la loro inanità e un sentimento di preoccupazione per la loro incolumità. Si scuote e asperge la limitrofa boscaglia. Da quando ha imparato a bere acqua con sali minerali come i ciclisti ammodo, il suo sudore è diventato più denso e nuoce gravemente alla salute dei rigogliosi cerri che lo ombreggiano loro malgrado. A proposito di cerri, Cerri e Lino, assenti in preparazione, si stanno allenando per il Tour cominciando dai fondamentali. Per esempio, stanno simulando la degustazione delle famose pattone pirenaiche masticando Das e Pongo impastati con due o tre Big Babol.

Del Giro al Presidente resta un misero plaudente plotone, illanguidito dall’abulia e dalla temperatura febbrile fuori stagione. Tanto per capire il livello atletico della squadra, il più sano pare proprio l’arzillo Ziodipucci, unico scampato alla kermesse della Val di Fiemme. Bertelli, freccia dei due Zoncolan e forse dei due mari, marca infermità; Chiarugi non lo possono staccare perché è l’unico che sa la strada; Tempestini viaggia floscio e sbracato; Pagni sbudellato anela prati erbosi; Nucci, più che l’anticiclone, patisce il ricordo del ciclone Boldrini che lo ha prepotentemente sradicato.

E lui, Boldrini, si sta giustamente godendo la popolarità esplosa al Giro. Siamo quasi arrivati al culto della personalità. Oggi non ha potuto mescolarsi ai sudditi dell’Empolitour perché doveva presenziare al congresso internazionale dei Club Boldrini che si terrà stasera allo stadio di Firenze. Dovrà calarsi fra la folla almeno dieci ore prima per firmare tutti gli autografi. Anche Bruce Springsteen ha acquistato la tessera di socio onorario e per l’occasione si esibirà al cospetto del ciclista transgenico, cui ha dedicato un brano del suo ultimo album, The gorilla, tradotto da De André traduttore di Brassens.

Bagnoli A. e Borchi erano miracolosamente ricomparsi in sede con l’unico scopo di accarezzare la luccicante capoccia di Boldrini, che ormai è considerata una potente emittente di raggi gamma, dopo tutta la roba che si è iniettato per staccare Chiarugi e Nucci sull’Alpe di Pampeago. Quando si sono resi conto della ferale assenza sono tornati indietro sconsolati e Borchi, per la disperazione, ha anche tentato il suicidio sotto le ruote di una Panda, trascinando con sé un malcapitato avventore. Anche il musicante Giunti è fuggito via offeso quando ha saputo che Boldrini gli ha preferito Bruce Springsteen nell’esecuzione dell’inno dei suoi club. E pensare che Nucci si era offerto in segno di sottomissione come solista. L’usignolo dell’Empolitour ha in serbo molte stecche al suo arco, vuol dire che le sparerà tutte al Tour, dove Leblanc saggiamente non ha invitato Boldrini per il pericolo di mandare in tilt la mastodontica organizzazione con l’invasione dei suoi fans.


11/05/2003 Etimologicamente parlando

 

Sostiene Caparrini che bisogna riscoprire il valore etimologico delle salite. Un altopiano come quello delle Pizzorne bisogna scalarlo, sostiene, alto e piano. Alto egli lo è di natura, piano ci va, sempre di natura. Facile per lui rispettare queste radici. Non deve sforzarsi molto per andare piano. Gli basta non avere l’assillo di un record da battere, altrimenti rischia di migliorarsi senza volerlo. Eppure, sostiene Caparrini, con un record non voluto non ci si migliora, perché non voluto è come dire involuto, cioè non evoluto. Se il presidente non si evolve a battere i primati significa che non si migliora, e la sua coscienza, almeno quella etimologica, è a posto.

Pizzorne è la fusione di pizzo e corna, qualcosa di aguzzo insomma, comunque ci si arrivi, e Caparrini ha voluto che ci si arrivasse da Matraia perché era il giorno della festa della mamma (in latino mater). La Bertelli, unica mamma del gruppo, ha sperato invano che qualcuno la festeggiasse, così si è regalata una bella annusata di mughetto delle Pizzorne, così detto perché fa venire a chi lo odora un’omonima malattia della bocca. Questa salita invece non è molto materna, è più simile, non solo semanticamente, ad una matrigna cattiva ma, sostiene Caparrini, è molto educativa in vista di ciò che dovremmo aspettarci al Giro.

Mancano solo due settimane alla partenza e le preoccupazioni del presidente sullo stato di forma della squadra crescono insieme alle adesioni presunte e alle defezioni certe. Intendiamoci, le sue non sono preoccupazioni di ordine atletico. Non si preoccupa cioè che Nucci si faccia staccare da Chiarugi, o il quarantenne Tempestini dall’ottantenne Ziodipucci, o lo sbudellato Pagni dal sinusoidale Bagnoli L. Non si preoccupa che la Bertelli vada piano in discesa, o che Giunti ostenti sul polpaccio un meraviglioso marchio da 25 denti di moltiplica, cioè un marchio del bubbone a tre radianti, inferiore soltanto al record detenuto dalla Bertelli di marchio semicircolare.

Se i suoi atleti sono fiacchi e ipoallenati, Caparrini non si preoccupa perché, sostiene, con la presenza al Giro del bradipone Goti, il limite inferiore di riferimento è assai molto più basso. Preoccupa semmai la salute mentale di Boldrini. Da quel dì, direte voi. Ma oggi più che mai, dopo aver sfiorato il record di riduzionismo fuggendo al chilometro 3 di Pagnana per paura della pioggia. In questa specialità rimane detentore incontrastato Bagnoli A. che un giorno abbandonò il gruppo all’incrocio di via Baccio da Montelupo (chilometro 0,03) dopo aver saputo di un percorso col monte Serra.

I veri crucci del presidente riguardano però l’attività sostanziale della squadra. Sostanziale per l’Empolitour deriva da sosta e stanziale. Giro e Tour sono manifestazioni fondate sulla sosta. La sosta è la sostanza, i chilometri in bici sono gli accidenti. Ma la sosta nel bar boschivo dell’altopiano ha mostrato preoccupanti sintomi di crisi. I ciclisti stanno allungando percettibilmente, domenica dopo domenica, la durata delle soste-Pagni, fino agli odierni 40 minuti, ma bisogna cominciare a chiederci se abbiano ancora il fisico temprato per questi tour de force. Un tempo accadeva che i dolciumi ingeriti non lasciassero briciole sul pavimento, oggi senza l’intervento misericordioso di Chiarugi, grossi residui di torte sarebbero rimasti nei piatti d’origine. Non possiamo sempre chiedere questi sacrifici all’inappetente capitano che, per tutta gratitudine, una sbraitante Bertelli voleva coinvolgere nella divisione delle spese. Urge un ridimensionamento più umano delle tradizionali dosi ipercaloriche. L’arconte Pagni sta paternamente diventando saggio e canuto, e da sola la psicopatologia alimentare di Nucci non può bastare a risollevare l’umore digerente della squadra. Sulle strade dell’incipiente Giro ci sono tanti passi, tanti bar, tanti rifugi. Non possiamo deludere il pubblico con le telecamere puntate addosso.

Perlomeno, dal punto di vista etimologico, l’Empolitour sulle salite del Giro farà un figurone, con Caparrini in testa. Scalerà infatti il passo S.Pellegrino col passo del pellegrino scalzo lungo la via Francigena ed affronterà con piena competenza l’Alpe di Pampeago che deriva dal greco παν παίγνιον (pan paìgnon), tutto trastullo.


04/05/2003 Un Fossato pieno di sudore

 

Si è appena conclusa con successo di sole e di ciclisti la sesta edizione della Biennale del Fossato. Mai come adesso è opportuno un commento a caldo, in onore ai 36 gradi che ci hanno accompagnato sulla via del ritorno, quando ormai in ognuno dei magnifici otto, i dolori lasciati da quelle rampe sovrumane stavano evaporando nel crogiuolo dell’appagamento. Il Fossato ritornerà nel 2005 perché, sostiene Caparrini, ci vogliono almeno due anni per dimenticare del tutto la durezza del percorso che non è concentrata soltanto nel climax dei cinque chilometri centrali copiati al Mortirolo. Basti pensare agli strappacci assortiti dell’Acqua e dell’Acquerino che ti frantumano le residue energie sopravvissute al Fossato, o i trenta chilometracci di avvicinamento alla salita nell’hinterland metropolitano pratese che ti frantumano veramente i coglioni. E c’è infatti chi, come Bagnoli A., ha imperniato l’uscita sulla scalata dei colli di Signa e dei ponti di Prato e poi è tornato indietro.

Prato è provincia ubertosa di ciclismo. In dieci anni decine di ciclisti locali si sono intrufolati nel nostro gruppo lungo la statale 325 di Vaiano e Vernio, ma nessuno ha mai svoltato con noi in direzione Fossato. Per quella via aspra e forte non si è mai incontrato ciclista vivo, anche se non è da escludere che qualche cadavere possa giacere abbandonato nella boscaglia dove passano i tratti di strada al 18%, ma probabilmente si tratta di qualcuno che era diretto a Cantagallo o a Cavarzano ed ha sbagliato strada. Oltre a noi, l’unico che ha scalato il Fossato, o almeno scrisse di averlo fatto, è il patriarca dei recensori di Cicloturismo Claudio Petrucci, ed oggi, tanto per rimanere in rima, altri due probi viri si aggiungono a questa cerchia ristretta di privilegiati, Pucci e Ziodipucci. A loro indubbiamente va la menzione del migliore in campo, perché nei panni degli esordienti non si sono fatti intimorire dalle narrazioni apocalittiche su questa salita ma l’hanno domata col piglio del veterano, il Nipote ondeggiando in armonia col demolitore di record Caparrini, lo Zio insidiando a vista il demolitore di zebedei Boldrini.

Il transgenico per tutta la stagione ha sfoggiato allenamenti maschi e propositi deflagranti nei confronti di Chiarugi e Nucci, ma quando è finalmente arrivata la prima salita da ventisei, è deflagrato egli stesso e la sua tracotanza, lasciando illibati, quattro minuti più avanti, i due capitani storici che, per ravvivare la salita sono stati costretti a belligerare l’un con l’altro come ai vecchi tempi. Boldrini, battuto e scornato, ha poi avuto il solito conato d’asocialità fuggendo via da solo, ma questi sono dettagli impliciti, già scritti prima del via nel copione della corsa, come la Bertelli che crede d’avere sbagliato strada, Caparrini che demolisce un record non voluto, Tempestini che ordina uno stuzzicadenti, Nucci che vorrebbe mangiare una trota del famoso troteificio dell’Acquerino, ecc…

Vogliamo invece espletare un servizio di pubblica utilità, dispensando qualche consiglio per quei ciclisti che, dopo aver letto queste allettanti righe, volessero cimentarsi col Fossato in una giornata torrida. Vediamo per esempio come i nostri eroi hanno fronteggiato le angherie del caldo e della sete.

La Bertelli ha attuato la tattica del dissetamento preventivo. Ha bevuto un’intera borraccia quando il mattino ancora frescheggiava e poi, per pareggiare il senso di anti-sete, si è mangiata un assetante panino con prosciutto salato. Come dire, uno ingoia un cucchiaino di zucchero, poi beve una tazzina di caffè ed agita il ventre.

Boldrini ha brevettato un sistema di scolo del sudore che sfrutta due grossi collettori, simili ad increspature raccapriccianti della nuca, che convogliano il liquido proveniente dalla fronte omogeneamente su tutto il corpo, con benefico effetto refrigerante.

Caparrini si appella inderogabilmente al presidio della fascia frontale ipertrofica. Essa non impedisce la sua sudorazione fluviale ma s’imbibisce fino ad una capacità di quattro litri, evitando pericolosi sgocciolamenti di liquido corrosivo sulle delicate parti meccaniche della Pinarello. Strizzata sul culmine delle salite, può irrigare fino ad un ettaro di terreno.

Chiarugi è ciclista non potabile, ma per dare ombra alla testa poco crinita indossa sempre il casco in modo da creare, tra il medesimo e il cuoio capelluto, un humus di sudore stagnante e puzzolente che funge da fertilizzante per la crescita di rigogliosa vegetazione.

Il desiderio apparentemente balzano di Nucci per la trota ha invece finalità dissetanti. Il suo ragionamento è questo: siccome le trote non hanno mai sete, vuol dire che sono dissetate, e se io mangio un cibo già dissetato mi disseto per trasposizione gastrica della virtù dell’oggetto mangiato. Come quelli che mangiano il pene del toro per aumentare la virilità.

A differenza di Chiarugi, Pucci si è tolto il casco e lo ha sostituito con una bandana nerissima e completamente avvolgente. Secondo la teoria di Planck sull’emissione di radiazione del Corpo Nero, il cranio di Pucci nel clou della salita raggiungeva una temperatura di circa 97 gradi, consentendo al ciclista di pedalare in uno stato di evaporazione mentale che lo isolava dalla percezione del dolore durante la martoriante ma redditizia scalata.

Tempestini, l’unico che ha accusato un po’ di crisi in salita, consiglia come integratore energetico l’acido trans-1-propensolfenico, ossia il fattore lacrimogeno estratto dall’Allium Cepa, in pratica un panino pieno di ripugnanti cipolline sottaceto. Il suo ragionamento è questo: se io digerisco qualcosa che fa piangere, digerisco anche le lacrime di dolore che ho versato in salita. Infatti da allora è rinato e sul San Baronto finale, davanti a compagni in stato di colliquazione, s’è pure messo ad attaccare.

È invece in corso l’analisi del liquido, apparentemente acqueo, contenuto nella borraccia di Ziodipucci. Solo la presenza di un elisir miracoloso potrebbe spiegare la giovanile baldanza di quest’omino ottantenne che si sta avvicinando alle alte sfere dell’Empolitour. Ma il vero miracolo l’ha compiuto secondo noi l’imprevedibile Boretti, l’eroico uomo di polso della scorsa edizione, che aveva annunciato di non venire e non è venuto davvero.


01/05/2003 Perché non possiamo partecipare al Giro d’Italia

 

Dopo l’ammissione al Giro della lunghissima squadra Formaggi Pinzolo-Fiavè-Trentino-Ciarrocchi Immobiliare, anche l’Empolitour-Orangina-Carpigiani-Cicli Brando-Ristorante Tinti, può nutrire serie speranze di partecipazione. Il problema per Caparrini sarà selezionare una squadra di soli nove elementi tratti dalla copiosa schiera di pretendenti. Il presidente sperava in una naturale selezione darwiniana ai primi proponimenti di salite consistenti, come l’odierno Serra da Pieve di Compito. Invece i proci erano ancora tanti e per lui ancora tutti difettosi.

Bagnoli L. è troppo flemmatico, Bertelli troppo femmina, Boldrini troppo transgenico, Boretti troppo imprevedibile, Cerri troppo allenato, Chiarugi troppo pedestre, Giunti troppo suonato, Nucci troppo affamato, Pagni troppo grasso, Pucci troppo infiammabile, Tempestini troppo mandibolare, Trasacco troppo bionico e Ziodipucci troppo caduco. Sfumata anche la partecipazione al Giro femminile dopo il prematuro abbandono al chilometro quindici di una biondina, unica asociale di veste e di destino.

Sostiene Caparrini che il criterio di selezione più onesto sia quello cronometrico: si fa la salita e i primi nove vanno al Giro. È un errore, perché per sopravvivere in una grande corsa a tappe le virtù necessarie non sono soltanto quelle scalatorie. Cerchiamo di farne allora un sintetico elenco.

Attitudine al gruppo. Pedalare in mezzo a duecento biciclette, ruota contro ruota, richiede abilità incoscienti. Già in quindici, la distrazione delle avanguardie fa l’ammucchiata delle retroguardie. Capita così al gruppo d’inglobare e travolgere un ciclista ottantenne, sulle spoglie del quale frana, manco a dirlo, il suo coetaneo Ziodipucci.

Attitudine alla caduta. I professionisti sono bravi anche a cadere e a rialzarsi di scatto come Ercolino Sempreinpiedi. Per siffatte doti, Ziodipucci merita la convocazione honoris causa.

Propensione alla fuga. Le tappe si vincono soprattutto con mosse strategiche che spiazzano gli avversari più forti, come attacchi in discesa e fughe-bidone. Boldrini, Cerri, Nucci e Trasacco hanno così tagliato fuori il temibile Chiarugi, isolandolo nel plotone dei ritardatari, e grazie al sacrificio del tiratore scelto Boretti (che poi si è ritirato) sono arrivati ai piedi della salita con un distacco incolmabile.

Convivenza con auto e moto. Non è tanto vincere le pendenze ostili. Provate voi a scalare lo Zoncolan o l’Alpe di Pampeago in mezzo alle ammiraglie, le vetture della giuria, le moto di poliziotti, fotografi e telecronisti, e un branco d’assordanti esagitati che lungo la salita vi tira pacche e secchiate d’acqua. Si pensava che per allenarsi a queste sensazioni bisognasse pedalare sul Grande Raccordo Anulare o in mezzo alla processione di Santa Cunegonda. Invece è bastato un radioso mattino di primo maggio con una bella teoria di gitanti fuori porta e il loro afrore benzenico. Caparrini ci ha pure rimesso un record della vita nell’incaglio tra veicoli di scampagnanti.

Rapidità di rifornimento. Invidiamo i professionisti che con guizzi circensi afferrano le bisacce coi viveri senza rallentamenti. Qui l’Empolitour ha ancora molto da imparare. Se i tempi di rifornimento sono quei trenta, quaranta minuti spesi dall’amico Lento, bisognerà solo sperare nelle sanatorie dei reati di fuori tempo massimo.

Capacità diplomatiche. Per convivere pacificamente per tre settimane con altre squadre è necessario saper trattare coi ciclisti eterodossi, cercando di stringere con loro opportune alleanze per il buon esito delle fughe. Quando si vedono infiltrati nella compagine sociale non dobbiamo sempre mirare a staccarli. E non è una scusante il fatto che uno di questi infiltrati di Cerbaia indossasse un incomprensibile completo invernale.

Insomma, non possiamo andare al Giro in queste condizioni psicofisiche. Ci vuole un corso accelerato di buona creanza ciclistica. Caparrini aveva già preparato la lista dei convocati in base all’ordine d’arrivo sul Serra: Trasacco, Nucci, Cerri, Boldrini, Tempestini, Chiarugi, Ziodipucci Bertelli e lui stesso nonostante l’incaglio, ma tutto è ancora sub iudice poiché l’UCI non sembra intenzionata ad accettare in una corsa di uomini, ciclisti costruiti con parti meccaniche (Boldrini e Trasacco) o con parti femminili (tutta la Bertelli e i lombi di Tempestini), pertanto Giunti, Pucci, Pagni e lo scalatore zigzagante Bagnoli L. possono ancora sperare. Per convocare invece l’imprevedibile Boretti bisognerà dirgli che non è convocato.


19/04/2003 Uova e sorprese

 

Cerchiamo disperatamente un filo conduttore per dare storia a questo mezzo passaggio falso attraverso la Pasqua che, dall’Empolitour come dagli Ebrei, è considerata un passaggio, un inerte cuscinetto fra la Vigilia e la Pasquetta, liturgicamente consacrate alla Bicicletta. Cerchiamo di procedere per simbolismi pasquali: uova e sorprese, per esempio.

Il tema dell’uovo si sviluppa facilmente descrivendo la capoccia pelata di Boldrini. Non è il comune uovo di gallina, bislungo e aerodinamico, a cui s’ispira la tradizione dolciaria. Incarna piuttosto un uovo fossile di brontosauro, duro, calcareo ed increspato. Questo dileggio anatomico di bassa lega non inganni perché ha finalità educative, ed ogni pretesto sarà buono per additare il cranio di Boldrini finché si ostinerà a non proteggerlo col casco. Naturalmente dentro quest’uovo non c’è sorpresa. Quel che fiero racconta dei suoi allenamenti finalizzati a detronizzare Nucci e Chiarugi, è un’emblematica rappresentazione del suo contenuto grigio.

Parlare di sorprese con l’Empolitour è esercizio da cronisti fantasiosi. A meno di non andare a pescare in settori collegati, come il calcio (con l’Empoli che batte il Milan a San Siro) o la meteorologia (con la Pasquetta annacquata e sedentaria). La sorpresa è un evento che sfugge alle previsioni e coglie impreparato. Il presidente Caparrini ha invece fondato il suo movimento filosofico-ciclistico sulle previsioni e sulle preparazioni, alle quali concede poche ma calcolate deroghe, come quando prevede di non battere un record di scalata e poi lo batte. E in questi casi si sorprende solo lui, perché tutti ormai sanno che potrebbe andare sempre un po’ più forte di come finge di andare.

Secondo un meccanismo logico o paralogico già ampiamente descritto, è impossibile parlare di sorpresa anche per Boretti, che pure è l’Imprevedibile per antonomasia. Per esempio, oggi nessuno lo aspettava ed è arrivato, ma questa non è una sorpresa perché sarebbe stato semmai sorprendente se fosse arrivato quando tutti lo aspettavano, facendo in tal caso decadere la definizione stessa di sorpresa.

Così pure quando Caparrini vede Pelagotti e Bagnoli A. in bici si sorprende perché sono due immagini rare che egli spera ancora di poter ostentare come simbolo di Resurrezione, ma il loro destino è in realtà quello più prevedibile di tutti, cioè il percorso ridotto. L’imprevedibilità del loro scontato riduzionismo sta essenzialmente nelle macchinazioni di Boretti che, prevedendo che tutti avrebbero previsto che per la sua imprevedibilità avrebbe compiuto il percorso integrale, a sorpresa ha deciso di fare esattamente ciò che aveva detto di voler fare alla partenza, cioè il percorso ridotto insieme ai due riduzionisti affidabili, trascinandoli verso chissà quali asperità impreviste, ma di certo molto più subdolamente arcigne del collaudato viottolo di Casore.

È sorprendente che Cerri, ciclista da seimila chilometri ad Aprile, riesca a mescolarsi senza indignazione alle blandizie dell’Empolitour. Per come osserva con scientifico distacco e raccapriccio la sosta-Pagni, sembra un documentarista che filma un branco di iene mentre dilacerano una carcassa di gnu. Il suo sembra davvero un sacrificio animato da un alto fine conoscitivo e divulgativo, altrimenti non si spiega come abbia fatto a resistere ad un’intera disquisizione di Boldrini sugli integratori pulverulenti che alchimizza ogni mattina nella borraccia, o come sia riuscito a rimanere affiancato a Caparrini per tutta la discesa di San Baronto, conoscendo le famose traiettorie a dente di sega del frenatore più incallito del gruppo.

Pucci e Ziodipucci tentano di sorprendere Caparrini con scarsi successi. Lo Zio non riesce ancora a scegliere fra l’attempato regolarismo caparriniano e il dissennato atletismo della Bertelli. Il Nipote, dopo il ritiro del mentore Escartin dalle scene agonistiche, è diventato l’unico depositario del marchio brevettato di pedalata seduta sghemba, con la quale ci delizia con destrezza quando la strada prende brutte pieghe. Se si alza sui pedali, trae invece spunto dai fondamenti di pedalata ondulatoria appresi dal professor Caparrini. Sul quindicipercento di Casore allievo ed insegnante appaiati hanno inscenato uno spettacolare saggio di oscillazioni pendolari sincronizzate dei tronchi che Chiarugi e Bertelli hanno osservato in silenzioso interesse da dietro le quinte. La posizione defilata di quest'ultimi non è una sorpresa ma un preciso calcolo ergonomico in previsione di future nobili fatiche. Calcolata è pure la loro imprevista deviazione verso una stradina variante ed inedita per Casore, che ha permesso loro di evitare l’incrocio coi penosi duellanti Boldrini e Nucci, partiti con un handicap in tutti i sensi, rispetto al pacifico gruppo. Ai due falchi che si becchettano preferiamo la colomba Bertelli che ora tenta di professare la pace agonistica e s’impegna a proteggere e scortare i bisognosi sotto la sua dolce ala.


06/04/2003 Tre ciclisti in barca (per tacer del quarto)

 

Per riferire sulla Medio Fondo di Vallombrosa si potrebbe articolare la narratio secondo l’ordo facilis della retorica classica (ritrovo affollato, partenza tardigrada, riduzionismi tribali, clacson concertati, statale motorizzata, salita meditabonda, sosta glucidica e ritorno indolenzito) ma non ci sarebbe molto sugo. Diventerebbe una classica retorica, con l’esito già scritto dentro la parentesi e negli archivi passati e futuri dell’Empolitour. Mancherebbe semmai il rituale accenno a Narciso Parigi ed alla sua Mattinata Fiorentina. Non perché non fosse una mattinata di primavera in cui Messer Aprile faceva il rubacuor alle bambine svegliate alle Cascine, ma perché l’assessore all’urbanistica ci ha impedito quest’anno di lambire da Ponte alla Vittoria il popoloso parco dell’amore, dirottandoci presso il più popoloso e lastricato Ponte Vecchio sotto il quale una di noi s’è intesa di vedere passare una gondola, in mezzo al disinteresse dei compagni interessati a salvarsi da lastroni, vetri, faglie, pedoni, podisti, sportelli e paraurti.

Tentiamo di procedere invece per ordo difficilis, con colpi di scena a non finire, flashback, salti all’indietro e ipotiposi. Menzioniamo pertanto, primariamente e solennemente i tre babbei, all’anagrafe, Bertelli, Nucci e Ziodipucci, in rigoroso e rimato ordine alfabetico e pure in ordine di dabbenaggine, topografica s’intende. Perché questi tre ciclisti sono discesisti con la B maiuscola e nessuno li tiene quando la strada discende. Il discesista non tollera deroghe all’accelerazione di gravità. Andrebbe giù fino al centro della terra se la strada ce lo portasse. Figuriamoci se bada ai cartelli o alle deviazioni. Se poi un discesista, come ciascuno di questi esemplari, ha un senso d’orientamento spaziale degno di Mister Magoo, si capisce perché essi abbiano ignorato la strada per Strada e si siano ritrovati presso lo svincolo autostradale di Grassina mentre i loro savi compagni ormai irraggiungibili si stavano beando delle incontaminate colline del Chianti. Tanto per non disonorare troppo la dabbenaggine acquisita, il trio, dovendo poi scegliere un percorso di riparazione, finiva per intraprendere, non l’onorevole via delle colline di Galluzzo, ma l’attraversamento retrogrado di Firenze quando già, oltre alle bambine di Messer Aprile, s’erano svegliati pure babbi, mamme, fratelli e ospiti. Ma forse l’idea è venuta alla Bertelli che voleva tornare sul Ponte Vecchio per convincere qualcuno dell’esistenza del fantomatico gondoliere. O forse a Nucci, frastornato dal cambio di fuso orario dopo il ritorno da Venezia dove è stato a visitare il famoso museo degli Uffizi. O forse quello che a noi sembra un marchiano errore di traiettoria è il parto di un allenamento metodico. A Legoli ci avevano già provato tutti e tre a filare giù dritti ad un fatal bivio, e si erano fermati soltanto di fronte ad una discarica e ad uno stormo gracchiante di gabbiani. Ora hanno coronato con successo i precedenti vani tentativi e si sono finalmente persi, esaudendo il loro impetuoso desiderio di libera vertigine in un oasi naturale d’incroci e semafori, dove Ziodipucci, per soddisfare un altro desiderio inconscio del discesista, ha riscoperto il piacere di un docile ruzzolone sull’asfalto.

Ringraziamo sentitamente i tre babbei che ci hanno distratto la narratio da quel testone di Boldrini che si ostentava unto e belligero senza provare nessuna pietà per gli avversari immersi in un clima di fratellanza e lentezza col resto del gruppo. Non sappiamo e non vogliamo sapere quale via lo abbia ricondotto agli ansiosi lari dopo che è fuggito secondo copione sul Poggio alla Croce. Ma se si fosse ritrovato come i tre babbei sul viadotto di Varlungo, nessuno ci potrebbe negare un interiore sogghigno.

Così Vallombrosa sarà nuovamente archiviata come la classica dei sentieri che si biforcano, dopo l’edizione del 1999, col ritorno di Tempestini in autobus, e quella del 2001 con un’esplosiva diaspora fin dall’uscita dell’abbazia. L’odierna diaspora era cominciata sul ponte San Niccolò con l’abbandono di Boretti, Bagnoli A. e Pelagotti. Boretti aveva già dichiarato il percorso ridotto, ma siccome è imprevedibile tutti credevano che avrebbe fatto l’integrale, e proprio per questa sua dote di spiazzare l’opinione comune ha fatto davvero il ridotto. Bagnoli A. non è un refuso, è appunto A puntato. Proprio a Vallombrosa nel 2001 dichiarò conclusa la sua carriera di scalatore, ma intanto ci riprova molto più in basso con Piazzale Michelangelo. Anche Pelagotti non è un refuso. Il nome è scritto in grassetto per significare la sua attuale fisionomia che si plasma attorno al quintale lordo. Che non si vergogni più a mostrarsi in pubblico ciclistico così conciato, è segno di buona volontà. E pure un segno sono da considerare le sue nuove ruote a profilo alto e snello, proprio com’era lui qualche tempo fa.

Questo è l’ordo difficilis. Abbiamo parlato finora senza filo conduttore di eretici, deviazionisti e irregolari, e nessuno saprà mai qual è stata la regola della classica di Vallombrosa. Qualcuno potrebbe scoprirla sbirciando nel respiro comune dei quattro savi (all’anagrafe Caparrini, Chiarugi, Giunti e Tempestini) che l’hanno compiuta tutta secondo natura. Hanno frenato il cuore in salita e le ruote in discesa, mai un battito o una velocità di troppo. Tutte pacate e ponderate scorrevano le loro menti concentrate ad interpretare l’essenza filosofica di questo giro, che è una succinta rappresentazione scenica di tutto il ciclismo, dove uscir di pena è diletto tra noi. Scegliamo di passare dai gironi infernali di Firenze e da tutte le Malebolge della SS 67 (Anchetta, Girone, Quintote, Le Falle, Compiobbi, Sieci, Pontassieve) perché sappiamo che ci aspetta l’ascetica ascesa ad un simbolico empireo fra silenzi secolari e piante interminate. Poi, come a Dante, all’alta fantasia qui mancò possa, e ci ritroviamo dopo il chilometro 120 con qualche malsana idea di crampo, ma in un compenso d’ambiente che vale come analgesico. Siamo scesi dall’Empireo ma almeno si atterra sul Paradiso Terrestre, dove si vive bene ma non si conosce gente interessante. Quella è tutta all’Inferno. Comprendiamo allora le ragioni di quei tre che vi sono ridiscesi. E magari hanno visto anche Caronte che traghettava le anime al di là dell’Arno con una gondola.


23/03/2003 Il raglio del bosco

 

Il ciuco è animale ingiustamente vituperato dalla storia, dalle favole e dalle metafore. Il giorno del Corpus Domini gli empolesi lo facevano volare dalla sommità del campanile del Duomo. Qualcuno nell’Empolitour vorrebbe riservare lo stesso trattamento al ragliante Boldrini, altri la ritengono punizione troppo mite. Noi cercheremo di rivalutare la dignità negata a questo animale (all’asino, non a Boldrini) senza il quale, non dimentichiamocelo, Gesù Bambino sarebbe rimasto assiderato nella metà sinistra del corpo.

La prima tentazione letteraria da cui rifuggire, è quella delle metafore, perché due asini realmente raglianti sono stati i protagonisti del ritorno al Serra dopo tanta piattezza. E non erano Boldrini e Nucci che si sono fatti staccare archeologicamente dal sanguigno Chiarugi senza abbozzare reazione. E non erano Boldrini e Nucci che si sono stridulamente punzecchiati per tutta l’anticamera del Serra, per poi disputare una volata di consolazione e quindi perseverare in stridule punzecchiature anche dopo la patetica vittoria dell’onocefalo Boldrini. E non erano Pagni e Boretti che hanno allegramente indossato i cappelli conici degli ultimi della classe. E non era Boretti che, fra crisi, fascia frontale e capelli ritti, sembrava portare in testa un fungo atomico. E non era il testardo Caparrini che prima d’ogni salita solfeggia sull’impossibilità di battere il record di scalata e poi lo batte. E non era Tempestini che solo con un gagliardo e misogino colpo di coda è riuscito a liberarsi dalla scomoda incombenza della Bertelli. E non era la Bertelli, vestita di nuovo metallo, che continua a rimirare crochi e viole sboccianti ma poi si distrae sul cambio e maldestramente rimane con la catena in panne. E non erano Lento e Ultralento che si assentavano goffi o ridenti dietro il banco del locale più freddo e visitato nella storia dell’Empolitour, ove per inveterata legge delle guarentigie, il dispendio di brividi e pazienza dovrebbe essere compensato da un frugale dispendio di moneta (ma vi sono interpretazioni diverse della legge anche fra Lento e Ultralento).

Erano proprio due begli esemplari di equus asinus domesticus la vera attrazione di questo redivivo Monte Serra. Dal loro rispettabile punto di vista era semmai l’invasione dell’Empolitour una vera repulsione. Vedevano in questi sette bipedi (otto meno l’esploso Boretti) l’antitesi della loro natura robusta, sobria e schiva, e cercavano con successo di tenersi alla larga. Abituati com’erano a brucare le ortiche del ristorante, non potevano tollerare una pattuglia d’infingardi che, dopo dieci blandi chilometri di salita, pretendeva d’essere foraggiata con le più dolci leccornie dell’ingrato padrone. Così, invitati da lui a partecipare alla foto commemorativa, hanno dimostrato quella spiccata nobiltà morale di cui la letteratura ingiustamente non li ha mai insigniti, e si sono sdegnosamente dati alla fuga con tanto di raglio di disapprovazione.

Cerchiamo d’imparare qualcosa da questi timidi e docili equidi che in un mondo deruralizzato rischiano d’esistere solo come beffarda metafora dell’ottusità e della stupidità, doti semmai prettamente umane. Il contatto con gli asini, per le loro caratteristiche fisiche e comportamentali, viene consigliato ai bambini con problemi di relazione e socializzazione. Si chiama onoterapia e pare che riesca a sviluppare la personalità e le attività cognitive, attraverso un rapporto rassicurante che supera lo stress continuo della valutazione e del giudizio. La consigliamo caldamente a Boldrini. Si alleni cavalcando gli asini dell’amico Lento, invece che le biciclette, visti i risultati. Forse così diventerà più socievole ed eviterà tutte le volte di fuggire dal gruppo e tornarsene a casa senza salutare.


08/03/2003 Confessioni di uno zero-zero

 

La decisione d’esimermi dal sabato dell’Empolitour non fu sofferta. Per tre settimane di fila Caparrini e Nucci mi avevano portato da C* a Certaldo e ritorno, lungo la traiettoria strettamente ortodromica, che è come dire, trenta chilometri con trenta minuti di sosta per aspettare i bomboloni del Bar Bazzani. Pochi spettacoli più emozionanti ci può riservare la vita in un sabato pomeriggio, che so, assistere ad una partita di bocce al pallaio dell’ARCI, osservare le ruspe al lavoro sull’argine dell’Elsa o lanciare il granturco ai piccioni del piazzale. Colsi perciò al volo l’invito di Busoni, capo tribù del Gumasio MTB, che si accingeva ad organizzare la grande trasmigrazione sul Montalbano lungo lo zero-zero.

L’Alighieri l’avrebbe potuto chiamare “il monte perché gli empolesi veder Pistoia non ponno”, esagerando solo sul concetto di monte, perché il Montalbano è una lunga collinona valicabile in più punti dalle bici da corsa ma percorribile lungo il suo profilo greco soltanto con bici da montagna e molta volontà. Perché in mountain bike un tragitto del genere è considerato aspro e forte, ed anche l’esperto capo tribù del Gumasio si preparava all’evento con una certa soggezione.

Non titubai dunque. Una dose così massiccia di mountain bike m’avrebbe iniettato sensazioni perdute ormai nella fanciullezza, come lividi, ginocchia scorticate, graffi, punture, morsi, e m’avrebbe caricato adeguatamente di fame atavica in vista della gastronomica Classica Tinti del giorno dopo. Per questo mi presentai sguarnito di viveri e suppellettili ma pieno di fanciullesca incoscienza, perché era ovvio fin dall’inizio che non mi sarei mai piegato a vili riduzionismi, come invece dichiararono preventivamente Bertelli e Nucci, gli altri due ospiti illustri dell’Empolitour. Anzi, per estremizzare l’impresa, vi aggiunsi anche il trasferimento ciclistico da C*, accreditandomi così di un ritorno verosimilmente tenebroso. Sentivo il dovere d’esasperare l’atletismo e l’istinto di sopravvivenza per liberarmi almeno un giorno dal clima di mollizie, soste-Pagni e foto rituali.

La partenza infatti promette bene, con una bella posa fotografica in mezzo ad una quindicina di gumasiani rossoneri. Gumasio già dal nome dimostra di non prendersi troppo sul serio. Pare che sia la storpiatura di un esaltatore di sapidità per diete iposodiche. Ispirano allegria al primo impatto anche se non conosco i loro nomi e un po’ me li inventerò. Tutti dietro al capo tribù Busoni, Toro Seduto, forte e sempre in sella, e prima sosta al chilometro due causata dal suo imberbe guerriero Ruota Forante; poi tutti dietro alla squaw Bertelli, subito ribattezzata Dama Bianca per il colore della schiena che mostra alla carovana quando il sentiero s’inerpica. Soltanto l’agile Gamba Luccicante sembra poterla affiancare di pari fiato, mentre il mio affanno la segue con quello di Nucci, tanto per non dare una disonorevole impressione di matriarcato nell’Empolitour.

All’ombra della grande quercia è tempo di un primo consuntivo. La tribù è già dispersa e gli stessi gumasiani sono incerti sul numero di bikers da aspettare. La sosta mi permette d’inquadrare due esemplari importanti nella dinamica del gruppo, Moto Perpetuo e Penna Bianca. Il primo è il pacemaker della spedizione, l’uomo che non deve sostare mai, vestito di giallo per essere scorto anche nella fitta boscaglia. Ad ogni altrui sosta egli guarda e passa a velocità non superiore a 10 Km/h e siccome mostra di conoscere il percorso alla cieca diventa ben presto il punto di riferimento per noi inesperti stradisti. Il secondo è il letterato della squadra e descrive in terzine ed endecasillabi tutti i dettagli temporali e spaziali dell’itinerario, tant’è che lo chiamano Dante e lo aspettano con molta riverenza.

All’ombra del grande pilastro, dopo l’ennesimo show della squaw, è tempo dei primi morsi e sorsi. I gumasiani non faranno le soste-Pagni ma sono ben attrezzati alla fantasiosa bisogna. Ne vedo uno con una fetta di panforte ed uno con un fico secco ricoperto di cioccolata mentre Gamba Luccicante, da buon atleta, succhia maltodestrine da una fialetta. Se avessi avuto l’accortezza di guardare la trasparenza dell’acqua nella mia già motosa borraccia, forse non avrei trascurato con tanta noncuranza un reconditorio dove molti vanno ad abbeverarsi. La sacralità di questi sentieri di Manitù mitiga la fatica che, pur malcelata, pare superiore all’ordinario, perché, orgogliosamente pavido, quando subodoro pericolo in pietre infide, radici sporgenti, solchi profondi e ruota impennata, non esito a scendere e darmela a gambe, anche per ostentare la mia abilità podistica, ricevendo invece di apprezzamenti le reprimende della Bertelli e forse tacitamente di tutti i puristi della mountain bike quando si vedono sorpassare da uno a piedi.

All’ombra della grande torre succede un fatto strano. Si viene giù da una discesa sassosa ed io che mi trovo fra i primi aspetto da un momento all’altro che l’intero gruppo rotoli sulle mie incerte e frenate traiettorie. In questi frangenti ho imparato a fidarmi degli Elfi protettori dei boschi e chiudo gli occhi lasciandomi sobbalzare le membra e il cuore. Quando li riapro mi ritrovo in un grande prato verde con Toro Seduto, Gamba Luccicante e Morso di Panforte, mentre dietro di noi invece dell’eco di clangori metallici s’ode quello dell’urlo femminino della Bertelli. Temiamo il peggio, ma poi veniamo a conoscenza della incruenta caduta di Saetta Discendente, il guerriero più indolente e temerario che cerca di recuperare arditamente in discesa quello che perde pacatamente in salita, salvo contrattempi del genere.

L’unica garanzia di stabilità ci viene, ma ancora per poco, da Moto Perpetuo; non si sa mai dov’è ma è sicuramente in sella. Lo stesso non si può dire di Nucci che nell’ardore d’esibire inesistenti abilità equilibristiche si ritrova spesso coi piedi al suolo quando il terreno s’arzigogola. Il loro zero-zero finirà sulla sella di San Baronto insieme alla Bertelli. Rimango in mezzo ai fieri gumasiani che non lesinano qualche epiteto ai transfughi dell’Empolitour, rei di averli trascinati in salita a ritmi frenetici, per poi abbandonare le danze sul più bello.

Il bello arriva ora, quando si cominciano a redigere i primi conti. Penna Bianca è l’unico che conosce tempi e velocità esatti, ma ognuno in cuor suo fa i conti col corpo e con la bici, perché in mountain bike non si sa mai chi dei due sarà il primo a cedere. Il mezzo di Saetta Discendente è già pieno d’acciacchi e su ogni salita è più recalcitrante del suo indolente guidatore. Finalmente oso guardare la forma della mia acqua e la trovo ricca di vita vegetale: mando giù con una lunga e soddisfatta sorsata perché dopo tre ore di cross-country non si può fare tanto gli schifiltosi. Si fanno anche i primi conti alla rovescia per la questione delle ore di luce, in particolare sul cocuzzolo dei Papi quando Ruota Forante s’accorge d’aver adempiuto una seconda volta al nome suo, mentre Saetta Discendente riesce a peggiorare lo stato di salute della sua bici con un pionieristico intervento sul cambio. La lunga sosta solleva appetiti nascosti. Gamba Luccicante mangia un fico secco ricoperto di cioccolata. Ne accetto mezzo, perché dopo quattro ore di cross-country non si può fare tanto gli schifiltosi. L’ultimo sorso della mia borraccia, ricca di sedimenti vegetali e animali, va giù che è un piacere insieme al fico.

E comincia l’ultima salita, un greppo in piena regola pieno di sottobosco e grossi rami. Ora s’appiedano tutti e non mi sento imbranato. Solo Gamba Luccicante e Morso di Panforte preferiscono aggirare l’ostacolo con una variante asfaltata meritandosi le reprimende del purista Toro Seduto, stavolta camminante. Quando tutto il dolore sembra terminato, scopro un altro personaggio rimasto nascosto nel gruppo, Balla coi Crampi, che con le gambe per aria manda un’accorata dedica alla Bertelli e al suo passo forsennato. Siccome intoppi e indugi non capitano mai contemporaneamente, terminate le contratture di Balla coi Crampi, quando anche l’ultimo foruncolo di Montalbano sembra superato, ecco che Penna Bianca decide di rompere poeticamente la catena (a fine del cammin di nostra pena, / galeotto fu ‘l colpo di pedale / e cadde come serpe la catena.) mentre il sole sta decidendo di nascondersi. Si pensa che sia l’ultimo tributo da pagare alla Dea Sosta e invece lungo una facile discesa asfaltata Ruota Forante cede a Morso di Panforte l’onore della foratura mentre pezzi di un’altra bici rotolano allegramente a valle sorpassandoci in curva.

Siamo quasi all’epilogo, della luce sicuramente, dell’avventura non ancora, giacché quindici mountain bike lampeggianti in fila sul sunset boulevard della statale 436 tengono ancora in serbo un po’ di pathos, come la sparizione di Dante negli inferi della statale. A Cerreto arriva il redde ratioinem, per i gumasiani un lauto rinfresco, per me altri 25 chilometri negli inferi della statale, all’ombra di poca luna e di molte macchine, contrassegnato da un lampeggiante rosso che il pio Cecconi, fautore del rinfresco, mi ha prestato per la salvezza dell’anima mia da quei diavoli cogli occhi abbaglianti. Di questo appassionante sabato pomeriggio, oltre a pochi graffi, mi resterà questa luce pulsatile, come lume indelebile della memoria, anche perché non so come restituirglielo.

Ora che la mia anima è salva e il suo involucro giace esausto, mi accingo a perdermi di nuovo nell’abisso senza fondo delle rumorose corruttele dell’Empolitour, dopo essermi elevato alla purezza silvestre del mondo silenzioso e disabitato dei gumasiani, molti dei quali non conobbi neppure per nome: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.


 

16/02/2003 Venti o eventi

 

S’agitano le bandiere iridate della pace. Ci sussurrano parole inquiete. Fate il ciclismo, non la guerra. Da finestre e balconi sonnolenti quei drappi irrefrenabili ci indicano la strada da seguire in direzione del loro fremito maggiore.

Non sono i venti di guerra ad agitare l’Empolitour ma quelli di tramontana, ancora una volta, quasi un ammonimento che viene dai monti del nord, oltremontano, oltramontano, tramontano. Quei monti prematuramente tramontati un’estate fa col sorgere delle rituali mollizie fisiche del presidente, ora ci strizzano l’occhio. E Caparrini non può stare a lungo senza di loro, ingrassando la squadra con poggi e clivi invernali che, tutto sommato, strapazzano molto più di un unico nobile monte. Anche oggi abbiamo scherzato coi santi, San Casciano, San Pancrazio, Santa Cristina, Sambuca, San Donato, e i fanti sono rimasti in pace come volevano quegli irrequieti arcobaleni. Nemmeno Boldrini in persona è riuscito a vivacizzare la truppa più di quanto abbia fatto il vento, protagonista reale e metaforico.

I venti come gli eventi. La bici, si è sempre detto, è maestra di vita e il vento è una materia d’insegnamento difficile da imparare, ostica ma fondamentale. Quando ti sembra d’avere raggiunto la felicità che soffia in poppa e illude di durevolezza, ecco che scopri dietro la curva l’agguato di una raffica malefica, paralizzante. Non sai come reagire perché certi eventi li immagini solo possibili ma non puoi prevederne il dolore che lasciano sulla pelle e sugli occhi. È facile immaginare piaceri puri, anche molto articolati, godere con la sola immaginazione, ma i dolori potenziali comprensibilmente si rimuovono sul nascere. E non servirebbe a niente un allenamento mentale alle ventate fredde che ti fanno barcollare e quasi cadere, perché sarebbe una masochistica istigazione all’ansia e un dannoso distacco dal piacere contingente che spinge e sostiene. Per questo ci troviamo disarmati in faccia ai venti inattesi e ci dobbiamo arrangiare sul momento, un po’ con la forza, un po’ con l’esperienza, un po’ con l’aiuto degli altri se hanno spalle abbastanza larghe per ripararci.

In questi momenti emozione e ragione svolazzano turbinosamente, si rincorrono, si rimescolano e cercano di raddrizzare il cammino pericolosamente oscillante. Bisognerebbe tenere il manubrio saldo in pugno e pedalare con lo sguardo proteso in avanti, senza voltarsi o rallentare, consapevoli che anche la folata più gelida e dolorosa prima o poi è destinata a cambiare o, se siamo proprio pessimisti neri, a non andare oltre la morte o il giudizio universale. “Non attender la forma del martìre, / pensa la succession; pensa ch’al peggio, / oltre la gran sentenza non può ire.” Ma è facile solo a dirlo. Un conto essere potente e compatto come il transgenico Boldrini, che neanche i tifoni spettinano, un conto avere un’anima leggera e vulnerabile che è costretta a rallentare e pensare, per non cadere malamente.

I pensieri possono tenere in equilibrio ma fanno anche male se restano irrisolti. Quando risali di causa in causa cercando la prima radice della tua sofferenza e non la trovi, al dolore si aggiunge altro dolore. Soltanto quando sei uscito definitivamente dal turbine e ti guardi indietro per razionalizzare l’accaduto, scopri tutto il complicato ordito dei gradienti barici, dei fronti caldi e freddi, dei moti convettivi dell’aria e ti accorgi serenamente che quella non era una punizione inflitta a te personalmente, ma un evento molto più forte di te, con implicazioni addirittura planetarie. Consoliamoci pensando a come deve essere primitivo e noioso il ciclismo sulla luna senza atmosfera: niente vento, niente resistenza dell’aria, niente scia, niente giochi di squadra. Una specie di podismo a pedali, dove si va molto forte in salita ma molto piano in discesa. Qui da noi invece l’aria ghiaccia affanna e consola, aggrega e disgrega. È dolorosa perché fa piangere e arrossire i nasi, unisce il gruppo perché richiama desideri di solidarietà e riparo, ma allo stesso tempo lo sparpaglia come un mucchio di coriandoli.

Borchi, ad esempio, è volato via al chilometro 0,1 e non è più tornato. Lo si intravedeva ogni tanto volteggiare ad oriente con un costumino rosso come un puffo, se i puffi si vestissero di rosso. Più che un gruppo pareva una sommatoria anarchica di coppie. Boldrini e Nucci primeggiavano muti e quasi ostili; Tempestini, osservando Ziodipucci con un cappellaccio di lana antica, si domandava se egli non si chiamasse in realtà Nonnodipucci; Pagni osservando Ziodipucci piangeva sulla spalla di Caparrini al ricordo dei suoi amati occhiali decennali che tre settimane or sono Ziodipucci medesimo aveva soppresso su una seggiola con un magnanimo gesto di eutanasia da schiacciamento; Bertelli e Chiarugi giocavano a produrre la colata di moccolo più lunga, e la Bertelli vinceva per distacco, mentre Boretti e il nipote di Ziodipucci avevano tutto il tempo per disquisire nelle retrovie sull’ambiguità semantica di certi legami parentali. Perché, si chiedeva Boretti, la lingua italiana non distingue fra nipote di nonno e nipote di zio? E così proponeva a Pucci di appropriarsi di un vocabolo, inusitato ma utile, e definirsi abiatico di Ziodipucci, per evitare la ricorrente confusione fra zio e nonno. Pucci dal canto suo faceva notare che, sebbene suo zio indossasse un berretto da ciclista ottantenne, difficilmente lo si poteva confondere con suo nonno chiamandolo Ziodipucci.

E così via, fra pensieri disordinati e parole volatili. Si piangono le labbra assenti, i nasi rossi, le mani tremule e i piedi marmorizzati. E poi, come nella vita, le lacrime s’inghiottono o evaporano lasciando solchi indistinti nella memoria.


09/02/2003 Piccoli piaceri

 

Nella nostra piccola vita mortale bisogna imparare a dissetarci a piccoli sorsi coi piccoli piaceri. I grandi sono un privilegio di pochi ambiziosi e sono troppo rari per appagare giornalmente un’anima triste. Anche per questo siamo diventati ciclisti, e di quella peculiare sottospecie dell’Empolitour dove, oltre al normale benessere platonico che s’offre a chi soffre pedalando, abbiamo a disposizione un supplemento di piccoli piaceri della vita, di quei piccoli momenti per cui vale la pena vivere.

Staccare Boldrini in salita è uno di questi. Chi lo conosce in persona o nella sua trasposizione letteraria può capire il concetto. Si sa che Boldrini è per natura un attrattore di duelli. Quando c’è lui ogni salita s’insaporisce di spezie piccanti e quando lo vediamo perdere le ruote nonostante gli strenui sudori, un piccolo piacere gustativo ci pervade le papille dell’anima. E più soffre, più godiamo. Non è cinismo, anzi, è la sublimazione d’un profondo senso d’amicizia, tanto più forte, quanto più riesce a far scaturire grandi gioie da grandi sofferenze. Le nostre gioie dalle sofferenze di Boldrini staccato, così la bilancia dei sentimenti si riequilibra.

Cerri, che è ciclista serio e internazionale, ha scelto di far parte dell’Empolitour proprio per assaporare questi piccoli piaceri supplementari, a partire dal godimento intrinseco nell’atto di staccare Boldrini. In verità bisogna allenarsi sodo per riuscirci ed anche Chiarugi e Nucci non possono indulgere alla pigrizia se lo vogliono domare. Ma Cerri aveva tutte le carte in regola, si era preparato con scienza e coscienza ed aveva eletto la salita di Montefioralle a campo di battaglia.

Montefioralle dà i natali ad una salita dispettosa, poco amata sia dai salitomani che dai salitofobi. I primi perché le rimproverano l’intermittenza di qualche inopportuna discesa, i secondi perché hanno memoria selettiva dei suoi cinquecento metri iniziali particolarmente feroci. Su questa salita crudele e diversa Boldrini fu l’ultimo a primeggiare due anni fa, forse perché come scalatore anche lui è crudele e diverso. Fatto sta che sul ciclista transgenico gravava la responsabilità del detentore e le insistenti pressioni dei suoi tre pericolosi contendenti, Cerri, Chiarugi e Nucci.

C’erano insomma sufficienti premesse per un’epica giornata di vero ciclismo. E invece il fato ha voluto privarci anche di questo piccolo piacere ed ha deciso di lasciare a casa Boldrini, senza alcuna spiegazione. Non possiamo credere che si sia sottratto all’agone per pusillanimità o malessere, poiché per costruzione non conosce emozioni o malattie. Si parla di una misteriosa renitenza alfabetica che, dopo l’infortunato Bagnoli A., ha colpito tutti i ciclisti in ordine di dizionario: Bertelli febbricitante (e con la mancata contemplazione estatica delle sue leggiadre pedalate se ne andava un altro piccolo piacere della vita), Bagnoli L. e Baricci riduzionisti di primo grado, Borchi riduzionista di secondo grado e Pagni che ha seguito Borchi perché ha confuso la P con la B. Boretti, apparentemente predestinato all’assenza o al riduzionismo, si è invece sobbarcato l’intero giro sul suo sempre meno allenato groppone, tanto per non smentire l’attitudine all’antinomia e al paradosso che lo rendono congenitamente imprevedibile.

Scorporata d’agonismo sanguinolento, la salita ha partorito in lenta sequenza solo sette topolini: il triumvirato deluso di Cerri, Chiarugi e Nucci, l’alacre Tempestini, il soddisfatto Giunti, il solitario Caparrini e il naturalmente distaccato Boretti. Giunti può dire d’aver finalmente afferrato il piccolo piacere che da tempo inseguiva, quello di distanziare il maestro Caparrini in maniera netta e perentoria, e il maestro si è così trovato solo tra l’incudine di un troppo più magro allievo e il martello di un troppo più lento Boretti, finendo per rilassarsi senza ritegno e definire il Montefioralle molto meno duro del Chiesanuova prima scalato col cinquantatre.

Se si parla di piccoli piaceri non si può non parlare di sosta-Pagni, che si faceva desiderare dopo ben 67 chilometri in piazza Pietro Pacciani a Mercatale in un bel locale dove, dopo tre ore di respiri troppo freschi e tersi, ci veniva offerto il piacere di una bella boccata d’aria nazionale senza filtro che permeava d’aroma nicotinico paste, cioccolate, spume bionde e caffè. Infine, last but not least, il bel piacere di ripartire coi polmoni affumicati e il sudore ghiacciato nelle camiciole, verso il più grande dei piccoli piaceri della bici, quello che è figlio d’affanno e padre della soddisfazione d’essere arrivati ancora una volta al traguardo.


19/01/2003 I conti che contano

 

Pochi hanno visto la luna piena tramontare nell’aria assolata che prendeva la forma dei respiri. Erano troppo impegnati a contarsi. Caparrini non credeva alle proprie dita. La domenica ha imparato a contare fino al secondo mignolo. Oggi sarebbe servita tutta una terza mano, fino al terzo mignolo, corrispondente a Pelagotti, che è baluginato nell’immenso gruppo il tempo necessario per riprendere confidenza con l’equilibrio su due ruote. È stato però l’unico che è riuscito a contare con le dita nude, prima che Tempestini avesse pietà dei suoi geloni e gli regalasse un paio di sottoguanti.

Le nostre povere venti dita invernali sono troppo lontane dal cuore per illuminarsi della sua stessa gioia in questa brina che scherzava ad incanutire i fili d’erba come la sorella bianca, in quella parte del giovanetto anno che il sole i crin sotto l’Acquario tempra.

C’è chi conta i ciclisti e c’è chi conta la temperatura, in bilico fra negativo e positivo. C’è chi conta le pedalate, chi i chilometri, chi le pulsazioni, chi i minuti di silenzio di Boldrini. Chiarugi è riuscito a contarne ben tre, portandoselo via in una piccola fuga esotermica in pianura. Quel che conta è pedalare. Il resto dei conti lasciamolo a Caparrini che può dirsi contento con tanti contanti contati, contenuti in cassa sociale dopo la cabarettistica cena sociale. Contento anche per i nuovi tesserati subito partecipi, Cerri e Ziodipucci che ora possiamo chiamare anche con lo pseudonimo di Garosi. Soltanto l’indolenza del sarto sociale Vifra impedisce loro l’isomorfismo biancoazzurro e pure lo stilista Giunti è costretto ad un’inadeguata esibizione verdastra.

Come passatempo possiamo giocare ad indovinare il freddo dalle facce dei ciclisti. Lo avrà fatto sicuramente qualche collega tardivo appena desto, dalle finestre di Ponte a Elsa, Molino d’Egola o Palaia, ma sarà rimasto disorientato dagli indizi contraddittori. Ha visto infatti l’imperturbabilità di Bagnoli L. che valeva 15-20 gradi, la facies cadaverica di Borchi da meno 20 e le gote avvampate di Pucci da più 40 all’ombra. Ma secondo noi i segni climaticamente più attendibili erano le chiome della Bertelli usate come sciarpa e la stalattite di moccolo che colava dalla punta del naso di Nucci ai piedi della prima riscaldante e benedetta salita di Palaia.

Così siamo riusciti finalmente a nominarli e contarli tutti, i tanti ciclisti. No, mancano ancora Baricci e Boretti, ma per loro parlerà la salita di Legoli. Intanto continuiamo a contare. Palaia non è una salita che conta ma la contesa è ugualmente incontenibile perché Boldrini non è contento finché non viene staccato e Chiarugi è costretto a contorcersi con un conturbante 53x19 per controllarlo a debita distanza. Legoli è però nell’aria ora surriscaldata. Siamo in una vallata contornata da paesi sdruccioli come lui, Peccioli, Forcoli, Montefoscoli, ma solo lui è terra incognita. Caparrini non lo ricorda bene e questa lacuna fa la fortuna di Legoli e di Chiarugi il proponente, unico memore e consapevole, che perfidamente ridacchia di fronte al destino dei compagni. È lo stesso destino che ci porta fuori concorso Boldrini e Cerri, fuggiaschi e dimentichi del fatal bivio. Chiarugi può così sottrarsi al doloroso ruolo di contendente ed ascoltare rilassato la strada che s’inerpica furiosamente, lo sferragliare delle catene ansiose di larghi pignoni, lo scricchiolio ritmato di alcuni pedali e di alcune ginocchia, il clamore di un’irascibile muta di cani recintati, il boato musicale dei polmoni di Caparrini e il rumore più forte, quello dei pensieri omicidi di Baricci e Boretti, appallottolati fra sellino e manubrio e intenti a contare uno per uno i raggi della ruota anteriore. Ma fra molti giorni, quando si saranno riavuti dal mal di gambe, penseranno con gratitudine a colui che li ha condotti fuori dai soliti solchi dell’Empolitour per avvicinarsi anche di un solo centinaio di metri verso un cielo mai così bello, verso un orizzonte mai così spazioso e incontaminato.

Contaminazione che ben presto si contrae di contrappasso nella sosta contemplata dallo statuto del contumace Pagni, in quel di Castelfalfi fra puzza di fumo e cacciatori. Contaminazione che poco prima avevano sagacemente contratto Bertelli, Bagnoli, Borchi, Garosi e Pucci, tutti piombati nel bel mezzo di una discarica dietro l’esperto nocchiero Nucci. Alla fine tornano i conti, quello del bar e quello dei chilometri. Caparrini controlla e continua contento.


12/01/2003 Le more di gennaio

 

Di questo passo, di questo clima, andremo a cercare le more di gennaio, come soleva dire mio nonno per metaforizzare un comportamento inane o anacronistico. Però rischiamo di trovarle. Non c’è più religione neanche nella meteorologia. La seconda domenica di gennaio, che ci aveva abituato al clima intrattabile, ricordiamo il Blowing in the wind del 2001 e i Brividi di nebbia del 2002, oggi s’è invece presentata con un deludente incipit di due gradi soprazero ventosi che sono diventati addirittura tre nella massima punta di soleggiamento. Quella preziosa dotazione di coibenza adiposa, che insuperbiva Caparrini e Bagnoli L. nelle ricorrenti storie di glaciazione, ora sta diventando per loro, e per i sempre più numerosi emuli, un lusso inutile e insostenibile. Di questo passo, di questo clima, il presidente sarà costretto a svendere sottocosto i completi invernali giacenti in magazzino, magari a quei ciclisti che per trovare un po’ di refrigerio andranno a svernare nelle isole Svalbard.

In vibrante segno di protesta contro gli inaffidabili numi atmosferici, l’Empolitour ha così deciso di vestirsi ugualmente da inverno. Li abbiamo pagati, talora profumatamente, e ora li indossiamo. Diceva Caparrini riferendosi ai capi pesanti, tutta roba tecnica, tessuti studiati per le cordate himalaiane, che è un peccato lasciare in pasto alle tarme. Caparrini ha orgogliosamente guidato la manifestazione sottomettendosi un pletorico rinforzo di camiciola tecnica a maniche lunghe, un paio di sottoguanti e due paia di sottocalzini. Bagnoli L. è apparso in seriosa bardatura invernale, comprensiva di fascia paraorecchie e copriscarpa, ma si è tradito con un leggero ed effimero casco estivo. Tempestini e Chiarugi hanno riesumato dal fondo delle cassapanche i loro burqa afgani e per di più Chiarugi ha voluto strafare con i guantoni di pelle e pelo d’orso. Meno clamorosa la protesta di Nucci coi biodegradabili guanti sociali e lo striminzito zucchetto da sotto-tiara di Sisto V. E pure Borchi si è limitato ad aggiungere un solo strato di vestiario ai suoi cinque usuali. Pucci sventolava un ridondante foulard e s’era arrossato le guance col fard per simulare un poco credibile infreddolimento. Ziodipucci, che fino alla settimana scorsa viaggiava in calzoni corti, s’è artatamente intabarrato con calzamaglia, palandrana d’incerata e berrettone di lana grossa sotto il casco. Ma più profondo e toccante è stato il sacrificio di Pagni che a malincuore ha rinunciato alla crema solare, nonostante la destinazione fosse la sua San Gimignano nella sua assolata piazza della Cisterna.

È da non crederci, ma così è stato. Fieri dei loro principi gli otto attori ciclisti hanno pedalato nella tramontana senza mai lamentarsi del sudore che lentamente intrideva le ingombranti casacche. Siccome il freddo e il vento sferzante evocano lentezza e silenzio, per meglio recitare le parti degli intirizziti, si sono abbandonati ad una quiete muscolare e linguistica che l’assenza di Boldrini ha senz’altro incentivato. Poi, mentre i corpi surriscaldati pativano pure le scottanti pendenze della salita di San Gimignano, dietro una curva s’è materializzata una vera mora di gennaio, ovvero la Bertelli fotografa con cappello e labbra rosso fuoco. Anche lei evidentemente travestita, appariva come tutti gli altri piuttosto irriconoscibile.

La commedia è finita in piazza della Cisterna dove i ciclisti, accecati dal sole e dal riflesso delle labbra della Bertelli, si sono con sollievo spogliati di quelle vesti esagerate piene di sudore, di sangue e di loto, e condecentemente accampati, si sono pasciuti di quel cibo che col caldo o col freddo è sempre più uguale e sempre più caro.


05/01/2003 Le lonze

 

Vi ricordate di Pelagotti? Qualcuno lo considerava ormai perduto nella schiera dei ciclisti in via d’estinzione. Qualcuno lo dava già per estinto o involuto a pacioccone da salotto. Tanto che si era reso necessario modificare il suo profilo biografico in questo modo:

Dopo un matrimonio e un tenore di vita ipercalorico e ipociclistico, può sembrare ad occhi profani un grosso e peloso baribal. Ma chi lo conosce sa che dentro la sua imbottitura palpita ancora l’anima del ciclista che ruppe la catena sul San Pellegrino in Alpe e scalò lo Stelvio con le scarpe scocciate.”

Più volte nella polvere, più volte sull’altar. Nella sua carriera sportiva c’è un che di napoleonico: la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio. I frequenti passaggi da altari a polvere, in lui avvenivano con meccanismi puramente gastronomici. L’ultima volta che era stato visto seduto in bici si vantava di potersi grattare la pancia con la pipa del manubrio. Fino a ieri sembrava destinato ad un futuro di comparsa nelle cene sociali. Poi in redazione è pervenuto un documento anonimo che rivoluziona tutte le teorie atletiche sul suo conto. Contiene prove inoppugnabili di una clamorosa metamorfosi. Ve lo proponiamo in originale per una lettura diretta e appassionata. [Leggete]

Prendiamo atto di quest’incredibile rivelazione e prepariamoci così al ritorno di Pelagotti senza quelle belle lonze che ce lo rendevano inimitabile. Pelagotti s’identificava iconicamente nelle lonze, le lonze erano il suo tipo cognitivo semiotico. Uno, cioè, pensava a Pelagotti e immediatamente vedeva le lonze. Lonze che vanno, lonze che vengono. Oggi abbiamo visto una decina di ciclisti Empolitour che sono seri candidati a sostituire Pelagotti nell’immaginario collettivo della lonza.

Qui però è necessario un breve inciso sul senso etimologico del termine lonza. Per gli antichi la lonza era un felino, ricordate Dante: “una lonza leggiera e presta molto, / che di pel maculato era coverta.” Per i macellai invece la lonza è la lombata di maiale, e da questo significato derivano gli attributi caratteristici che ne fanno lo status symbol dei sedentari: quelle morbide ciambelle o maniglie che debordano dai fianchi e si prolungano nella più nota e apprezzata pancetta. È curioso che in Pelagotti si adattassero perfettamente entrambe le accezioni del lemma, poiché, sebbene ormai famoso per la pinguedine lombare, nelle rare fasi magre della vita egli era capace di diventare un felino leggero e molto veloce, coperto di folto pelo maculato. In volata, quando si depilava, era imbattibile. Aggiungiamo poi che l’aggettivo lonzo significa floscio, fiacco, senza energia, e che lonza, intesa come ciccia, deriva da lumba, i lombi, che oltre alla parte muscolare sopra le natiche, possono indicare, per estensione, vigore fisico, virilità, con sottinteso riferimento alla funzione genitale e riproduttiva. Tant’è che Parini parla di “magnanimi lombi” per indicare una stirpe prolifica.

Insomma, le lonze sono una spia, oltre che dell’ovvia flaccidità da ipernutrizione, anche dell’operosità sessuale, caratteristiche entrambe che non ci devono meravigliare in uno sposo novello come Pelagotti. Il problema è che, se il documento, come nessuno di noi dubita, è autentico, Pelagotti si ripresenterà alla squadra in condizioni atleticamente irriconoscibili ma la troverà molto simile a com’era lui quando l’ha lasciata. In pratica, se prima le lonze di Pelagotti potevano sembrare una simpatica eccezione, ora diventeranno la regola, alla quale però Pelagotti sarà eccezione, stavolta per difetto.

Diciamo questo perché abbiamo visto l’Empolitour, schierata oggi per Villamagna, in un preoccupante stato di adiposità che deve essere rimarcato caso per caso. Della grassezza di Pagni si è già parlato in altre occasioni. L’arconte ha la fortuna d’essere partito dal basso, da un lontano 66 Kg dei suoi trascorsi podistici, altrimenti col suo esponenziale tasso d’ingrasso avrebbe già superato il quintale. Meno noto è il caso di Nucci che sembra ossutissimo ma concentra nel suo piccolo addome batraciano tutto l’infaticabile esercizio di sostante consumatore. Caparrini invece, da buon regolarista, è anche regolarmente grasso, senza parti del corpo privilegiate o periodi dell’anno più o meno fertili. Per la Bertelli il giudizio d’adiposità è sospeso, in quanto sarebbe necessario un accurato palpeggio delle sue prorompenti natiche per capire fino a che punto si tratta di nobile muscolatura glutea. Il narratore s’offre comunque volontario per la perizia. Facile invece la valutazione di Boretti che s’incarna fisiognomicamente nella massa grassa, tanto da assumere mentre pedala un profilo a salsicciotto. Altri due casi invece d’adipe concentrato sono quelli di Baricci e Tempestini, rispettivamente nelle lanose gote e sul bacino. Quelle di Tempestini non sono vere e proprie lonze pelagottiane ma gommosi cuscinetti femorali, un po’ femminizzanti. Restano Boldrini, che non è grasso ma insufflato di silicone ed altri polimeri sintetici, Chiarugi, che ultimamente sta accumulando un po’ di grasso sulla catena, e Giunti, che ha deciso di fare ingrassare i mozzi dal meccanico. Ziodipucci è per ora in giudicabile in quanto non tesserato e quindi ovviamente magro. Però sta imparando alla svelta. Durante le soste-Pagni non si lascia mai intimorire dall’inesperienza e questo gioca a favore del suo peso.

Come si vede non c’è uniformità di tessuto adiposo nella squadra, ma all’opera di catechizzazione parificante ci pensa Pagni. Oggi, dopo che tutti avevano già consumato la loro razione calorica di sosta al circolo ACLI, egli ha imposto, come recupero crediti di Capodanno, pandoro e spumante dai quali nessuno s’è potuto esimere, neanche l’occasionale Posarelli, suo compagno di giochi quando era giovane e filiforme.

Pelagotti è vicino, continuiamo ad ingrassarci.


01/01/2003 Purgatorio, Canto Secondo

 

O greve fantasia, su spiega l’ali

per raccontar le fervide vicende

dei prodi biancoazzurri sui pedali.

Nell’alba che più d’altre al sonno tende,

quando s’azzerano i computerini

e pur rinnovellate son l’agende,

noi fummo presto svegli e mattutini

per presentarci al solito cospetto

del grande presidente Caparrini.

Sette eravamo senza alcun sospetto

per purgarci di nuovo con affanno

lo spirito sul monte benedetto,

quel Senario, per quei che non lo sanno,

rimasto inesplorato nella ghiaccia

la scorsa spedizion di Capodanno.

Or dunque di quei sette non si taccia

che volevan brindare sul Senario

con lo spumante dentro la borraccia.

Per Caparrin non era un ordinario

giorno di bici, tanto che distratto

i copriscarpa si mise al contrario.

E per notar la gravità dell’atto,

prima di lui soltanto Pagni fece

di destro con sinistro tal baratto.

Assente Pagni, v’era Nucci in vece

d’arconte della sosta, e ciò bastava

per invocar già preventiva prece.

Come vulcano spento senza lava

Chiarugi era fremente a tal pensiero

con bici che sul suolo molto grava,

mentre un ramarro secco, verde e nero

venne con le sembianze di Trasacco

per estraniarsi dal ciclismo vero.

Nel gruppo temporeggiator e fiacco

venne pur Cerri a rinverdir le gesta

del Tour ormai passato in almanacco.

Alla buon ora puntualmente desta

si presentò Bertelli la leggiadra

con le chiome fluenti e il casco in resta.

“Qualcosa c’è di strano che non quadra.”

Pensaron tutti, conoscendo il vezzo

di mostrarsi alla già schierata squadra;

ma il tempo vinto si pagò sul prezzo

del suo computerin da riparare

usando l’orecchino come attrezzo.

Comunque, quando pur Giunti compare

l’occasione d’indugio egli non piglia

per soddisfar la brama d’orinare,

ma la soddisfa dopo poche miglia,

allor che da una flaccida andatura

il gruppo s’era dato un po’ la striglia,

ansioso di fuggir dalla pianura

per l’alto Purgatorio, la montagna

che s’erge sopra il vizio e la bruttura,

lassù dove la pace si guadagna

scaldando l’alma fredda e peccatrice

col bell’ardore che la fronte bagna.

“Il Senario, signor!” Caparrin dice

appena di salita c’è parvenza

ai suoi cinque Virgili ed a Beatrice.

“Considerate la mia contingenza.

Fatto non fui per viver scalatore,

ma per seguir pianura e non pendenza.

Pria d’esser inondato dal sudore,

dopo la requie di Pian del Mugnone

staccare mi farò senza rancore.”

È lì che udimmo il suon d’un gran tifone,

nonostante che il cielo fosse terso.

Poi ci s’accorse ch’era il suo polmone.

E quel respiro trepido e diverso,

avvicinandosi ai silenti cieli,

d’abbandonar non c’era proprio verso.

“Convien che d’ora in poi più non aneli.”

Allora disse Caparrini a Giunti

che trasudava lena in tutti i peli.

E quando ai piè dell’abbazia fur giunti,

i due si distaccaron senza fretta

ché i cor avevan già troppo compunti.

Fummo così sull’agognata vetta,

per descriver la quale senza frode

la lingua mi sarà purtroppo stretta.

L’immensità che di lassù si gode

a scia della memoria non può ire

se un mortale ne vuol tentar la lode.

Fotografo conviene reperire

a cui affidare l’inclita promessa

d’impressionar le nostre ambite mire.

“Eccone uno uscente dalla messa,”

disse il duca “col suo valor fia meglio

la foto fatta della vista stessa.”

Era un omino infatti molto sveglio

con un vigor impavido e giulivo

che non s’addice al lamentoso veglio;

aveva solo un modo sbrigativo

di scattare le tormentate foto

col mignolo davanti all’obbiettivo.

Ma di rimettersi di nuovo in moto

era già tempo, verso Pratolino

ove onorar la nostra festa in toto.

“Giunti non fummo trafelati fino

al summo monte sol per panorama

ma per seguire panetton e vino.”

Questo diceva Nucci, e la sua brama

saliva con saliva, e quando fummo

al bar però la situazion fu grama.

“Scesi non fummo giù dal monte summo

per rintanarci in questo vil tugurio

dove si taglia col coltello il fummo.

Lungi da me quest’aere sozzo e spurio!

Venite meco! A più nobile foce

l’approdo fia del nostro sacro augurio.”

Questo diceva Nucci, e la sua voce

tanto suonò che molti suoi compagni

si fecer tosto il segno della croce.

“Le veci tengo dell’arconte Pagni

e sulle soste esigo l’obbedienze

cieche di voi, però nessun si lagni.”

Ognun sapeva, ahimè, le preferenze

del dissennato Nucci, e rassegnati

finiron nel bel mezzo di Firenze.

“Ben presto mi sarete tutti grati.

Che cosa son codesti musi tetri?

O Giunti, o Caparrin, siam arrivati!”

Questo diceva Nucci, e tutti i metri

ben presto furon fittamente invasi

da turisti, bambini, cocci e vetri.

E qui la storia degli umani casi

che andavan pedalando in suolo ostile

si svolse in varie e concitate fasi.

Nucci, col senno ormai senza le pile,

suscitò in Caparrini desideri

poco garbati fra le dense file,

così che con intenti semiseri

decise la Bertelli di far meta

nel lido di festosi canottieri.

L’ira di Giunti allor non fu segreta:

“Io torno a casa, o anime perdute,

andate pur, nessuno ve lo vieta.”

E Caparrini con la sua virtute

cercò di riparar le incrinature

nel gruppo delle volontà incompiute;

però il destin, fendente come scure,

tagliò di netto tutt’esti rovelli

con due pacificanti forature:

prima di Giunti e poi della Bertelli

che sui frantumi della notte tosta

immolaron fascioni non novelli.

Questa di tanta speme fu la sosta!

E dir si deve che Trasacco e Giunti

eran forse venuti pure apposta.

Ecco la sosta Pagni con i ferri,

le pompe, le smembrate biciclette

e mani lorde ed unte come verri.

Così sul marciapiede si ristette

a piluccar come fosse pandoro,

insipide energetiche barrette.

Vedendo quei ciclisti lì al lavoro

si mise a ridere beffardo Dante

ed invitò di nuovo tutti loro

a bere questo altr’anno lo spumante.