13/03/2005 Il gigione annacquato

 

Possa questa mano di peccatore riacquistare il tepore animale perduto in quel fugace ma fatale passaggio nell’Oltretomba, prima che la memoria ceda al tanto oltraggio di quei mirabili accadimenti e rimanga insabbiata in un’obliviosa aporia; perché a noi mortali, quando è concessa la licenza di avvicinarci con un cammino reversibile alla fine corporale, è al tempo stesso impedita la fedele divulgazione dell’esperienza, man mano che prendiamo consapevolezza dell’insperata reviviscenza: sono segreti ontologici che non devono sopravvivere nitidamente nelle menti inferiori; il primo sonno li confonderà di immagini oniriche false e romanzesche. E involve tutte cose l’oblio nella sua notte.

Eravamo pronti a narrare la Classica Tinti, la Classica delle Classiche, con quel classico repertorio di prolisse facezie al quale ogni anno attingiamo per rimpolpare un palinsesto tenacemente immutabile. Sarebbe stato sufficiente trascrivere alcuni concetti strategici, con opportune revisioni sintattiche e lessicali per ingannare i lettori più attenti, e in pochi minuti la cronaca avrebbe suonato più o meno questa litania: partirono in molti, pochi ciclisti integralisti, molti riduzionisti, qualche utile accompagnatore e molti inutili accompagnatori; si lanciarono in una strenua e appassionante volata all’Intergiro di Larciano; scalarono l’ansimata e combattuta salita di Goraiolo dove Caparrini infranse l’imbattibile record; arrivarono nella magione del gigione Tinti ilari e vocianti e per due ore fecero capanne delle loro pance e furono intrattenuti ad occhi sbalorditi dai giochi di prestigio del Gigion mago; ripartirono gravi e satolli, prima in discesa e poi in salita, dove l’arconte Pagni eccelse nella pedalata con chilo e alla fine le melodiche marmitte dei motociclisti e le raggianti bici dei pasciuti ciclisti si divisero sbadigliando i loro saluti.

Tutto sbagliato, tutto da riscrivere. Quest’anno neanche una di queste frasi fatte possiamo copiare tranne, forse, quella dei saluti sbadigliati. Dobbiamo impugnare il calamo dello scrittore epico e cercare parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane, e poi drammatizzare con qualche voce dell’enciclopedia medica: agonia, collasso, lipotimia, paralisi a frigore, shock, sincope..

Scrivendo, la mano si scalda ma il dolore ancora fresco riaffiora sulle membra appena risorte. Vorrei potermi esimere, ma se a conoscere la prima radice di tanto inconcepibile melodramma il lettore ha cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.

Noi eravamo pronti per diletto in Via Baccio, pochi e senza alcun sospetto, allietati dagli stentorei carburatori dei centauri Torcini e Masini che emettevano fumi più densi delle nubi visibili dalla via. Caparrini, che temeva l’estinzione della sua classica preferita, nell’imminenza della partenza si stava rasserenando più di quel cielo tanto a lungo scrutato, e la luce della speranza gli aveva rischiarato anche due oscuri presagi: il ritorno dopo quattro mesi di reclusione dell’imprevedibile Boretti e la fascia di cielo veramente oscura in direzione nord-ovest, proprio davanti agli occhi di tutti quando si mossero in pedale dopo la posa proemiale. Per Boldrini, Boretti, Giunti, Mazzantini, Tempestini e Zio risanato, riduzionisti annunciati, si trattava soltanto di decidere il punto di reversione. Per Caparrini, Bertelli, Chiarugi, Nucci e Pagni stavano arrivando dubbi insani a scalfire l’orgoglioso integralismo.

Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Su le soglie del Cerreto fugge la Bertelli, e Caparrini nasconde l’idea della pioggia sopra la tesa di un consunto cappellino zebrato: occhiale non sente, cuore non duole. L’ipotesi di rinuncia lo fa rabbrividire più del piovasco che con l’usbergo del cappellino salvifico non bagna le lenti ma lento impregna il tabarro sociale. Chiarugi, che non ha il cappellino, si toglie gli occhiali, perché la pioggia diventi una miope illusione. Di Caparrini non invidia il copricapo ma lo strato adiposo impermeabile che scalda molto più dell’impregnato tabarro.

L’acqua scende candida dai superi e lutulenta dagli inferi, dalle ruote che la centrifugano sui volti silvani di coloro che seguono. Il saggio Pagni tiene affiancato il presidente e lo lascia sfogare sulle vicissitudini del suo telaio infranto, così entrambi pedalanti sugli antiqui e valorosi cancelli si dimenticano del tema idrico o lo rimandano a peggior bivio. Sulla via degli speranzosi integralisti c’è solo un pericoloso ostacolo, la Bertelli. Il presidente nota che i centauri sono fedeli, Pagni è docile, Chiarugi dogmatico, Nucci avventuroso, ma lei, che pure ha un passato ricco di imprudenze, può da un momento all’altro estrarre qualche bubbolante monito all’assennatezza che alle persone normali, ma anche ai ciclisti normali, impedirebbe di arrivare fradici a mille metri d’innevata altitudine. Ella, mostrando l’infittirsi della precipitazione, potrebbe disgregare le illusorie certezze di miglioramento e incutere lancinanti quesiti che Caparrini teme più del diluvio universale: che si fa? Ma dove si va? Perché non si torna indietro? Ella potrebbe contagiare tutti di amara rinuncia, ma per ora è in fuga.

Mentre i riduzionisti si perdono uno dopo l’altro nella pavidità, Caparrini sotto l’usbergo di quella zebrata tesa procede senza quesiti. Pagni tossisce ma è ancora docile. Chiarugi si avvolge in un esile vello bianco antipioggia quando ormai la pioggia lo ha già conquistato fino all’anima. Il bivio delle decisioni irrevocabili è ormai imboccato. Caparrini può far partire il cronometro e i sospiri, prima di sollievo e poi di fatica. Dedica complimenti a Bertelli e Nucci che senza indugi, questioni e attese hanno anticipato la sua eroica decisione. Più tardi la verità verrà a galla mentre il gruppo sta risalendo una vera corrente fluviale che scende torrentizia dal Goraiolo. I due presunti fuggitivi hanno in realtà indugiato, questionato e atteso, però al bivio sbagliato, e i vari riduzionisti che tornano indietro, a guisa di ambasciatori li mettono di fronte al fatto compiuto. Così i due babbei da inseguiti diventano inseguitori e la Classica delle Classiche è salva.

Ora si tratta di salvare la vita, non tanto dal furore dell’abbindolata Bertelli che in salita avrà trovato acqua a sufficienza per spengerlo. Si tratta semplicemente di conservare il residuo calore animale in una quindicina di chilometri scarsi, tutti in quota, tutti innevati, tutti inzuppati di acqua ghiaccia dai piedi alla testa, cappellino zebrato compreso.

Caparrini in quest’irreale e oltremondana gara, dove la logica ciclistica s’inverte e fa prevalere i più corpulenti, primeggia fra gli integralisti e a Goraiolo attende sotto la gelida pioggia, fiero del suo zebrato usbergo. Chiarugi nel suo telo bianco da fantasma e non dissimile come stato fisico, conquista invece una tettoia, mentre Pagni a colpi di tosse comunica di voler proseguire senza interposita mora. La mossa vincente è questa: alimentare una tiepida fiammella muscolare per approdare in carne al caldo del ristorante. Caparrini e Chiarugi invece s’immolano nell’attesa dei due babbei erranti scortati dal centauro senior Torcini, mentre il centauro junior Masini compatisce le difficoltà degli attendenti scoprendo che la pelle dei guanti è glacialmente fusa con quella delle mani.

Nucci non si accorge nemmeno che lo stanno aspettando e valica il Goraiolo tutto concentrato nella pedalata adiabatica che lo salverà dall’esizio, come saranno salvi il saggio arconte Pagni e il centauro maior che è fotografo ufficiale e portatore di panni asciutti, compreso il basto con l’immane guardaroba dell’arconte medesimo.

La gara di sopravvivenza è fra Masini, Caparrini, Chiarugi e Bertelli. Il centauro minor si salva grazie alla tonitruante ma tepente marmitta, Caparrini è in realtà fuori gara per manifesta adiposità e funge da scorta ai derelitti. Chiarugi e Bertelli se la giocano a geloni pari fino all’ultimo chilometro di discesa negli inferi e soccombono entrambi. La loro ossuta complessione, che dà vanto in salita, in discesa è miseramente sconfitta dal gelo vulnerante. Sognano la morte per trapassare nelle fiamme eterne della perdizione ma il loro inferno è il Cocito, sono ombre dolenti nella ghiaccia che hanno abbandonato nel rigor mortis la loro esile corporeità. Hanno mani che suonano metalliche più dei manubri che ghermiscono inanimate. Chiarugi è spettrale e silenzioso, Bertelli urla e tenta di piangere ma le lacrime, come ai dannati della Caina, si congelano sull’orlo delle palpebre e le negano anche l’ultima goccia di calore sulle livide gote. Caparrini s’improvvisa paracleto e tenta di consolarla e riscaldarla, ma è vano pure il suo fiato più caldo e vigoroso dei gas della masiniana marmitta.

Questo è il ciclismo che piace al pubblico, che non assisteva a scene simili dai tempi del Bondone di Gaul nel 1956, del Gavia di Hampsten nel 1988 o dello Stelvio dell’Empolitour nel 2001. Perché in quest’agghiacciante e sublime patimento c’è sempre un caloroso fine, impersonato in questo caso dal mago Tinti e dall’attonito ristoratore che vede squagliarsi al suolo nel suo locale questi cinque lemuri avidi di riscaldamento. Tinti, dotato di virtù sopranaturali, estrae dal cilindro non le solite palline di gommapiuma ma un graditissimo campionario di calzini, pantaloni, maglioni e generi di prima necessità, che non rifiuta nemmeno il coibentato presidente.

Nunc est bibendum. Dentro questi leggeri e increduli vestimenti, i rianimati ciclisti si stringono all’anelato desco con ritrovato sanguigno ottimismo. Mancheranno i circenses, per rispetto della scampata sofferenza, ma il panem e soprattutto il vinum ridaranno ai commensali un aspetto più umano e un’ebbrezza più idonea per affrontare l’anabasi, o comunque per dimenticare che prima o poi quei panni fradici e motosi disseminati nell’anticamera del ristorante dovranno essere di nuovo indossati.

In qualche modo ce l’abbiamo fatta. Non ricordo come, per quel problema di alcolemia, ma siamo tornati salvi e forse anche sani almeno nei corpi, perduto ormai ogni diritto alla salute mentale. Possiamo, è vero, difenderci dall’accusa di follia rispolverando l’argomento del piacer figlio d’affanno, tanto caro ai ciclisti. E possiamo riguardare quei sorrisi nell’innevata foto del commiato e convincerci che ancora una volta il piacer è stato più forte dell’affanno, giurando però sulle teste delle nostre bici che non lo rifaremo mai più.

Via Baccio da Montelupo.

Lieti eravamo e senza alcun sospetto.

Gabinetto del Ristorante Tinti.

I salvati.

Bar del Ristorante Tinti.

Il quadrumane Caparrini vestito di nuovo.

Vivo o morto?

Riso o pianto?

Ristorante Tinti.

I sommersi e i salvati riuniti all'anelato desco.

Nevaio del Ristorante Tinti.

L'alcolico commiato.