Le canzoni del Tour

 

 

Presentazione

 

Tutto cominciò quando Jean-Marie Leblanc, il demiurgo del Tour de France, offrì all’Empolitour una wildcard per la partecipazione a due tappe pirenaiche come riconoscimento per la decennale assiduità e la rinomanza acquisita sulle più autorevoli vette francesi. Dallo scorso novembre ad oggi il presidente Caparrini si è armato perciò di pazienza e diplomazia ed ha intessuto una fitta rete di persuasioni nell’intento di portare a Lourdes una squadra compatta e numerosa che ruotasse attorno alla sua figura carismatica di laureato honoris causa in vicende ciclistiche. La girandola dei candidati gira nelle ultime settimane più freneticamente del calciomercato. Sfuma in extremis l’ingaggio della gloria empolese Franco Bitossi, che avrebbe aperto le porte alla storia, e quella di Paolo Boretti, che avrebbe aperto le porte al consumismo. I cinque che si affiancano al presidente vantano però un pedigree non meno blasonato che li rende assai graditi all’esigente organizzazione francese che, non dimentichiamolo, ha escluso gente come Pantani, Cipollini, Zulle e Tonkov.

Questo in sintesi il curriculum atletico dei sei partecipanti.

Bertelli Beatrice. Innumerevoli vittorie nel Master Tricolore, nelle gare di mountain bike e in quelle di braccio di ferro. Ultimo successo prima della conversione defatigante all’Empolitour è stato nella Scarpirampi col famoso podista Chiarugi. Le è vietata la partecipazione a qualsiasi concorso di bellezza per manifesta superiorità.

Bitossi Massimiliano. Fatta salva l’illustre paternità, può annoverare ottimi piazzamenti nei campionati interbancari e nelle Gran Fondo (ha staccato Indurain in salita alla Pinarello) nonché nello slalom gigante dei formaggi a tavola.

Caparrini Andrea. Il suo albo d’oro è ancora fermo alle gare giovanili di salto con l’asta e decathlon. Ha recentemente ricevuto un riconoscimento speciale per il metodo a taglio centripeto per la consumazione di pizze ed è in lizza per il titolo italiano di bevitore d’Orangina.

Chiarugi Paolo. Oltre alla Scarpirampi con la famosa ciclista Bertelli, ha vinto il 16° trofeo podistico Andrea Bellandi e vari concorsi della Settimana Enigmistica. Come ciclista può sfoggiare due maglie tricolori del Campionato Medici. Attualmente è secondo su due nella classifica di categoria del Master Vette.

Nucci Roberto. Vari successi in tornei intercondominiali di tennis, ping-pong e pallacanestro. Ripone tutte le sue residue speranze nel Master Vette per rimpinguare il magro palmares ciclistico (vittoria in un fantomatico Tappone del Bar Viti e nell’Eroica 2000, non competitiva).

Pagni Marco. Le ultime sue vittorie in sport di terra risalgono ai giochi della gioventù del primo dopoguerra ma Leblanc lo ha fortemente voluto al Tour su pressione delle associazioni di albergatori, ristoratori e commercianti francesi che solo con la sua presenza pregustano un’impennata del fatturato senza precedenti.

 

 

20/07/2001 Viaggi e miraggi

 

Per facilitare il viaggio di questo G6 il ministro dei trasporti impone il divieto di transito dei mezzi pesanti. Genova viene quasi evacuata per impedire i temutissimi incagli sugli svincoli uncinati che rovinerebbero la tabella di marcia delle due auto. I capi di governo dei paesi più industrializzati approfittano dell’occasione per organizzare un’improvvisata riunione proprio a Genova. I mass media sono in fermento, i giornalisti danno la caccia alle celebrità e perciò Bertelli, Chiarugi e Nucci decidono di partire a sorpresa la notte prima, per evitare l’inseguimento dei paparazzi come avvenne a Lady Diana e Dodi Al Fayed. Caparrini, Bitossi e Pagni sfuggono invece alle bramose attenzioni della stampa partendo al risveglio del gallo. Le due ammiraglie si riuniscono a Bordighera e varcano così il confine senza dare nell’occhio.

Il viaggio è un miraggio, sia come inseguimento mentale di una meta tanto desiderata quanto lontana, sia come gioco di combinazione letterale fra migrazione e pellegrinaggio. D’altronde si va a Lourdes, 1200 chilometri dietro la porta, per un sapido lavacro di pedalate. Incatenate sopra le azzurre vetture, sei bici danzano nelle spire del vento in armonia con gli arbusti impolverati dall’autostrada, in questa bianca striscia di monotonia intermittente, singhiozzante come la vogliono i francesi per tenere svegli i guidatori di lungo corso. Così i peage sono forche caudine dove Caparrini e i casellanti praticano l’antico gioco dello sbolognamento e vince chi appioppa all’avversario il maggior numero di metalli. Fra i brindisi tintinnanti di monete Caparrini in un sol fremito motorio parla, gesticola e zigzaga al volante, Bitossi china la testa e prende appunti, Pagni china la testa e si addormenta e quando si sveglia esige soste, come quella di Sete, già legiferata dalla divina podestà della tradizione. E come tradizione vuole, le vie della città sono occluse, la sabbia appiccicosa, e le acque antartiche. Per migliorare la permanenza dei fuggevoli bagnanti, lo stesso vento che sbatacchiava le bici ora solleva banchi di sabbia destinati un po’ agli occhi, un po’ alla bocca e un po’ ai polmoni. Ma la tradizione non fa i conti col genio. Il genio, dice il barista Necchi, è fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. Eco scrive che genius is twenty per cent inspiration and eighty per cent perspiration. L’Empolitour personalizza il concetto con Pagni che sbracciandosi dal finestrino dell’auto in movimento ed urlando qualcosa come pape satan aleppe, si fa regalare tre stucchevoli biscotti da un pasticcere più gentile che esterrefatto.

Il miraggio di Lourdes si concretizza nel sole della sera inseguito nel suo moto apparente verso ponente dalle vetture sempre più scure. La cittadina è come l’Empolitour l’aveva lasciata due anni fa, una vertiginosa moltitudine di fedeli che brulica fra il tempio e i suoi mercanti. Anche Odette Mathurin è immutata, stessi capelli giallognoli, stesso volto cereo e stesso golfino blu sulle spalle. Il suo abituro, adibito a pensione familiare, avrebbe dovuto ospitare l’Empolitour secondo un illusorio programma di contenimento delle spese. Ma nessuno rivolge nemmeno una parola alla compita madame. Prima di lei viene inquadrato sotto il suo pergolato un individuo losco che sortisce l’effetto repulsivo di una scossa elettrica sugli esigenti del gruppo che arretrano verso ostelli più cortesi anche se meno ponderati e naturalmente più costosi. Perché l’Empolitour suole rispettare la tradizione fintanto non trova un’innovazione di minor peso atletico e maggior peso finanziario. Per fortuna la scelta dell’onere aggiunto cade su un hotel che prende nome e frescura dalla silenziosa Gave de Pau, dove i ciclisti sono benvenuti e tanti, e pagano solo alcuni graditi optional come il parcheggio delle bici nella sala da pranzo e la colazione accompagnata da un servizio cantilenante.

 

 

21/07/2001 Raggio di sole

 

Benvenuto raggio di sole in questo mattino lento, in questo fiume che sembra pregare, in questo vento. Benvenuto in quest’occhi pronti per andar lontano e ritornare sulle stesse visioni quando si ripiegano le feste e gli striscioni.

Gli animi dei sei ciclisti si confrontano coi segnacoli di risveglio dei corpi prima della più lunga tappa della storia del Tour: 166 chilometri con 3080 metri di dislivello. Non ci sono nuvole o rotaie ad intralciare la volontà, qui si fa la Gran Fondo del Tour o si muore. Il cielo è troppo cristallino, irreale. La neve sul Pic du Midi non è plausibile ai sensi, fra tanta luce e tanti aliti pulsanti che si levano dalla strada per riscaldarla; meglio pensarla come roccia bianca, come polvere di gesso o granito.

Il battesimo al Tour di Bitossi è plenario. Caparrini per tutta la notte lo ha edotto allo spirito sociale sussurrandogli nelle orecchie le parole-chiave e le frasi celebri dell’Empolitour. Così l’inconsapevole allievo si sveglia e comincia a ripetere con istintivo meccanicismo: “pattona”, “Carpigiani”, “manicotti sì manicotti no”, “dissetato con la borraccia piena”, “assalto alla boutique”, “saccheggio della carovana pubblicitaria”, “non sono mai stato in affanno” ed infine “ci si vede in cima” che pronuncia all’inizio dell’Aspin adagiandosi sulle ruote del maestro perché come dice lui “bisogna fare le salite al risparmio”.

Il risparmio di Bertelli, Chiarugi e Nucci è posto invece un po’ più in su, in mezzo ad un gruppo di anglofoni. Bertelli è grammaticalmente inibita nella ricerca di un malcapitato da interrogare ma ha già comunque rotto il fiato carpendo un randonneur indigeno smilzo e bianchiccio di nome Raffaello come la tartaruga Ninja cui somiglia solo per la gobba. Il gruppo misto angloitaliano procede compatto finché non sfreccia un tizio giallonero in calzamaglia e giubbino invernale (la temperatura in quel momento è di 28°C). Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Nucci mormorò: “non passa lo straniero”. L’inseguimento è istantaneo. Chiarugi pondera, accelera e desiste nello stesso tempo, ricordando il proverbio che l’abito fuori stagione non fa il ciclista bubbone. Nucci impulsivo insiste con veemenza e così facendo scardina la ruota libera. Il Tour dello svitato granfondista potrebbe finire in questo ingranaggio svitato, ma la Provvidenza, quella che parcheggiò la jeep sullo Stelvio, oggi guida un pulmino con un meccanico catalano che si ferma, aggeggia, scorreggia, riavvita e poi sentenzia: “el marcha!” ruotando con fierezza i pignoni fino ad allora maneggiati con disperata insipienza.

La prima sosta degna è però in una patisserie-boulangerie di Arreau dove finalmente Bitossi conosce con occhi e palato la pattona di cui aveva appreso solo il concetto a livello subliminale. Questa artigianale manifattura presenta le principali occorrenze sensoriali per appartenere alla categoria semiotica di pattona: è insipida, rigonfia e rigogliosa con crepature superiori a raggiera. Tuttavia, essendo stata servita calda di forno recente, ha ancora un contenuto di vapore acqueo che non le permette di cementarsi in semipermanenza nell’esofago (e cioè non strozza) anzi, questo suo tepore, questa sua innaturale morbidezza la rendono quasi gradevole all’assaggio.

Il traffico è lento nell’ora di punta prima della salita di Pla d’Adet dove la gente perduta nel sole sta aspettando da sei ore i suoi campioni ballerini. E rimane lì ad insolarsi ancora un po’ formando un nastro screziato che si avvolge con poche curve sui fianchi della montagna e segna interamente il tragitto della salita che i ciclisti possono disegnare nella testa guardandola dal basso di St. Lary Soulan.

Bitossi segue Caparrini per pochi metri ed esperisce un altro suo fondamentale attributo cognitivo, quello di “bagno di sudore”. Spaventato da siffatto profluvio, comincia allora a pedalare a velocità più consona al suo tasso atletico tirando il collo a Nucci e Chiarugi e giunto al fin della licenza esperisce anche una ricorrenza comportamentale di Nucci che dopo un prolungato succhiamento rotazionale lo sorpassa in scatto irriverente all’ultimo chilometro. Nelle tre ore di attesa di Armstrong sfilano le nudità e scorrono le creme. “Ecco la vaticinata cardata”, dice l’inconscio di Bitossi per bocca di Caparrini, annunciando l’insolazione zenitale attesa con brama da un decennio. Le mutande di Pagni sono in tinta col prato su cui si stende. Il reggiseno sociale della Bertelli stende tutti i deboli di cuore. Sull’abbronzatura di Chiarugi e Nucci si stende un velo pietoso, quella di Bitossi è nero steso su nero. Caparrini è l’unico a rimanere rivestito decentemente coi panni regali e curiali, per il resto le biciclette sono stendibiancheria.

Molto tempo dopo l’Empolitour va veloce verso il ritorno in mezzo al rumore di questo traffico impacciato fra ansia di movimento e pochezza di spazio. L’Aspin diventa un sospiro di sollievo ma è pur sempre una risalita di tredici chilometri dove Pagni sembra aver caricato le gambe ad energia solare. La voglia di giocare non passa nemmeno dopo dodici ore di duro lavoro dentro e fuori dai pedali e sulla collinetta di Loucrup viene preso di mira uno scalcagnato ciclista con due gambine cadaveriche che sorpassa salutando e si becca uno spietato contrattacco di Nucci, Chiarugi e Pagni.

Buonanotte raggio di sole in questa terra dove vai a letto tardi. Dormi tranquillo e asciutto, cullato da questo grande ruscello, ché domani sarai ancor più bello.

 

 

22/07/2001 Adelante! Adelante!

 

Hoy se habla español, anzi euskara, basco.

Dolce signora che bruci, per cosa stai bruciando? La Bertelli è una donna caliente. Il giorno prima ha sfidato il sole in una gara d’irraggiamento ed ha vinto, ma oggi si è svegliata più calda e più triste del suo sfidante. Gli sfidanti di terra, roccia ed asfalto si chiamano invece Tourmalet e Luz Ardiden. Caparrini li teme come il sole. Il suo calore specifico lo protegge dal freddo ma gli dà un punto di fusione più basso rispetto agli ossuti compagni. Bertelli e Caparrini, due corpi così diversi ma una comune volontà di raffreddarsi. Per Caparrini la cura ipotermica prevede somministrazione d’Orangina, liquido refrigerante che ha effetto di breve durata e perciò va ricambiato spesso e volentieri. Bertelli sperimenta come nepente il succo nettarino di pesche e albicocche acquistate con reciproche burle linguistiche da un ambulante accampato tra Bagneres de Bigorre e St. Marie de Campan. Qui la strada appartiene alle ruote silenziose. Ci salutano pupazzi che sembrano uomini e uomini che sembrano pupazzi. Sono fermi ad annusare la vita con cappelli ed ombrelli che li riparano dal sole e dalla malinconia. Cantano e contano i passanti a piedi ed in bici per aspettare un lungo rumore senza nome che per loro si chiama gioia, da vivere e raccontare quando torneranno a casa dopo tre ore di coda in macchina.

Lunga coda di fedeli anche per ascendere sul Tourmalet, la cattedrale dei Pirenei. Le ultime nevi di ieri, quelle innaturali del Pic du Midi, si stanno squagliando come ciclisti al sole; ciclisti quasi sempre impropri per noi puristi, piccoli, storti, malfatti, zavorrati, malvestiti ma onorevolmente tenaci. Come le donne, di tutte le età e di tutte le cosce, acclamate col garbo che si deve ad una fatica senza sesso. Una come la Bertelli, che quando sfila su una italica salita viene ossequiata con rimandi a tutte le zone erogene del suo corpo, qui è vista prima di tutto nel sudore e nella sofferenza, ripagati da semplici incitamenti e sorrisi.

Canta intanto anche la salita, dura e popolosa. A La Mongie siamo in pieno mercato, uomini e cani allo stato brado per strada. Nucci ne investe uno (cane), Pagni ne spaventa molti (uomini) col suo grido sfollagente, esplosivo, bivocalico e reiterato (ue). Dopo il paese gli allez diventano aupa, venga o andale. Bandiere basche (ikurrinas) e maglie naranjo colorano asfalti e prati già riccamente istoriati di cacche bovine. Caparrini e Pagni, che non si pascono di canti, applausi e gran pavesi, quando arrivano sderenati sul cacume del colle nuotano annaspando nell’onda degli euskadi e conquistano con facce intontite cibo e bevande che inghiottono senza cognizione di gusto. In una seconda sosta in discesa a Bareges, il livello di coscienza dei due è ben esemplificato da Pagni che tenta di gettare i rifiuti della sua fame cieca in una cassetta della posta. La morale di questo faticoso mattino è che, dopo 70 chilometri percorsi in sei ore lorde metà delle quali statiche, bisogna ancora salire a Luz Ardiden e non si sa bene se siano più implacabili il caldo, la pendenza o i gendarmi. Questi sono già appostati sul ponte di Napoleone a vagliare i ciclisti come Minosse prima dell’inferno aspro, forte e imperiale. Le salite corse più velocemente sono meno dolorose perché durano meno, pensano con candore Nucci e Chiarugi che, sorpassati dal solito forestiero effervescente, si fanno trascinare ai confini dell’acidità. Nucci va oltre le avvisaglie sperando in una sosta precoce del duellante ma finisce per cuocere a bagnomaria. Due a questo punto sono le sue fortune: la bontà di Chiarugi che ha pietà dei suoi occhi iniettati di sangue e il rigore dei gendarmi che bloccano il traffico ciclistico a quattro chilometri dall’arrivo. In realtà bloccano i ciclisti come entità pedalanti non come entità dotate di bicicletta da spingere a piedi. Pochi capiscono la ratio di questa consegna, alla quale i militi sono più o meno ligi, anche perché nella maggior parte dei casi la differenza fra la velocità del pedalante e dello spingente è minima mentre l’ingombro sterico di quest’ultimo è doppio. Forse il provvedimento ha reconditi connotati educativi per indurre i ciclisti neghittosi a dormire poco, partire presto e sostare mai, tre antinomie dell’Empolitour insomma. Il gendarme non vuole impedire l’accesso ai ciclisti, desidera semplicemente la sofferenza dei ritardatari, costretti ad un martoriante saliscendi sul sellino prima di arrivare comunque a destinazione. Nemmeno la seminuda Bertelli con l’abbacinante reggiseno sociale riesce a far breccia nei cuori e nei posti di blocco francesi. Il basco invece, che sarà sì nazionalista sfegatato ma che quando si tratta di toccare culi femminili non si perita in pregiudizi etnici, apprezza la prorompente virtù transnazionale della nostra fata e la spinge a piena mano in mezzo ad un alcolico sventolio di ikurrinas. Caparrini tra finzione e realtà accetta di buon grado l’alt dei gendarmi per posare a terra le gambe autodefinite in pappa che però lo portano come sempre fino in fondo senza liquefarsi affatto, anche perché sono sempre ben rifornite d’Orangina in tutte le stazioni di servizio, fisse o mobili e in tal caso abbordate con l’aiuto piratesco di Pagni.

L’interesse per la tappa dei forti sarebbe scarso ma gli ultimi chilometri sono panoramici e ravvivano i cervelli un po’ evaporati, anche se poi vince un basco rachitico e brachicefalo che pedala scomposto peggio di Caparrini. Dopo aver assistito ai trionfi di Cacaito Rodriguez ed Escartin, l’Empolitour non credeva nell’esistenza di vincitori più brutti.

Hoy se come español. E così per onorare questo bagno di sudore iberico la tavola serale dell’Empolitour s’imbandisce con la paella valenciana, piatto osteggiato due anni prima da uno spartano membro della spedizione. Lo stesso osteggiatore, oggi consumatore, nota che si tratta di un risotto di bassa lega adornato da cosciotti di piccione urbano di Lourdes. E siccome costa molto ma non moltissimo, si arrotonda con mancia principesca per salvare l’onerosità della spedizione, messa in discussione da pranzi a base di trancio di baguette e caramelle Haribo gentilmente offerte a lancio dalla carovana pubblicitaria.

 

 

23/07/2001 Due zingari

 

Ovvero Bertelli e Chiarugi, travolti da un insolito destino in un grigio monte di Luglio.

Che ne sai tu di un campo di grano? Nessuno dei quattro indegni d’esser nominati, lassù sull’Hautacam, su un radioso terrazzo di nuvole lo sapeva. Ignoravano mentre deglutivano cibo incommestibile, non potevano immaginare che ogni sorso di disagio doveva bruciare come meritato contrappasso per l’abbandono dei due compagni malati che stavano tremando in vana attesa. Tremavano come le spighe in quel vento, in quel campo scrutato, papavero dopo papavero, per due ore con palpebre sempre più pesanti e rassegnate. Tremavano sul ciglio della strada a contemplare gli americani che scendevano da quella montagna nebbiosa. Scendevano tutti i popoli, anche l’unico italiano asociale in trasferta sui Pirenei, ma non i desiderati. A quel punto era meglio farla finita e terminare insieme, nel silenzio di una lunga pista ciclabile quel giorno di conati e singulti. Le viscere dei due rappresentanti del disciolto partito spartano, abituate a nutrimento di assoluta parchezza, si erano ritrovate nella notte a combattere con i frutti efflorescenti di quest’Empolitour ormai indirizzato all’epicureismo irreversibile. Gli scrosci del loro vomito suonavano come l’epicedio della morigeratezza. Le gambe omogeneizzate di Caparrini e i desideri bucolici di Pagni avevano già deciso il dimezzamento del percorso programmato. La prospettiva di un breve tragitto palindromico accompagnato da banchetto al rifugio e pic-nic sul greto del fiume, aveva forse suscitato le ire di qualche germe protettore della tramontata povertà ciclistica e sopravvissuto alle drastiche terapie sociali nel corpo dei due antichi paladini di un’anacronistica fede. All’unisono Bertelli e Chiarugi si erano purgati, avevano comunque tentato l’inane assalto alla salita e si erano fermati nel mezzo del cammino a respirare nebbia e sconforto pisciando insieme alle galline. I due zingari tornarono così indietro a mendicare l’altrui discesa presso un bivio profumato di lavanda e prima di desistere vollero che il senso di colpa come un calabrone pungesse il collo di uno degli ingrati, quando fosse sceso di nuovo nel grigiore della valle. I due derelitti bevvero fino in fondo il calice del disonore, sorpassati e umiliati in pianura da tutte le razze di ciclisti, anche da un omone in pantaloncini e scarpe da tennis che sembrava Craxi.

Poi al tramonto di questo Tour il perdono cristiano emanò da quei corpi debilitati e surriscaldati che vagarono nella multinazionale del culto a leggere le mattonelle dei miracolati, a guardare la grotta più toccata del mondo, a respirare in immensi spazi di speranza fra sorrisi inaspettati, a sentire dentro i gangli del raziocinio una mistura impalpabile di commiserazione ed invidia per qualcosa in cui non a tutti è dato a sperare. Passa la Gave in punta di piedi fra i sassi e passa l’Empolitour sempre più uguale, sempre più nuovo come un fiume. Epilogo dell’ultima cena è Bitossi che lecca un simbolico Carpigiani, gelato raro, dolce e uniforme per un ciclismo raro, dolce e uniforme dove i gusti sembrano diversi nei colori ma si assomigliano molto quando si assaggiano, come i due sapori di questo gelato sorbito con qualche smorfia dal neofita del gruppo che ha stupito tutti per il suo lapidario adeguamento agli usi e costumi sociali senza mai dire: “padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”.

 

 

24/07/2001 Cosa sarà

 

Cosa sarà che ci fa rincorrere il sole e la felicità, che ci fa lasciare la bicicletta sulla transenna e bruciare le labbra e i capelli rincorrendo un strenna. Che ci spinge a star male per essere felici, a colmare le nostre tristezze coi sorrisi degli amici. Cosa sarà che fa nascere l’invidia degli sguardi, che ti fa aspettare le gioie degli altri sotto i traguardi. Cosa sarà quel desiderio di avere braccia non tue, questa voglia di urlare a tutti la tua fame mangiando come un bue, questa voglia di uscire dal regno dei vili e cercare dolciastri biscotti per comprarne sei chili. Cosa sarà quello che insegui quando ti sorpassa di corsa, quest’abbandono nel vuoto della mente e della borsa, una parola che cerca il suo senso, quella parte del cuore che punge quando non penso. Cosa sarà quest’ansia di ritorno sulle stesse strade, questo rapido rialzarsi dall’asfalto quando si cade, questo sforzo per non piangere quando si soffre, quest’effimero bacio che la vita t’offre. Questa forza di parlare senza farsi capire o di capire senza parlare, questa forza di pedalare quando stai per morire. Cosa sarà che nel caldo e nel freddo ci unisce, che inseguiamo per un anno e poi in un’ora svanisce, che vorremmo guardare per giorni e giorni, che ci ammorba il sangue nei lunghi ritorni. Cosa sarà di me risvegliato da un sogno, che non riesco a comprare niente anche se è di tutto che ho bisogno. Tutto è durato come un intero giro sul sole, come il profumo delle viole, come il sale sulla pelle quando s’esce dal mare. Ora si torna a letto a scacciare le zanzare.

Arrivederci Tour, grazie per averci reso più insensati, più malati, più poveri assai nelle tasche del corpo ma più ricchi in quelle dell’anima. Grazie per averci fatto sperare in pochi giorni d’essere un pezzo, una propaggine mutevole di quell’amore universale in cui non tutti credono ma che almeno per noi esiste sotto forma di amicizia.

 

Al ritorno hanno cantato:

Bertelli: Alice. Non perché guardasse i gatti che giravano nel sole ma perché il suo corpo dopo una sequela di piccoli dolori è più acciuga di prima, rimanendo comunque un paese delle meraviglie.

Bitossi: Pablo. Prima mangiava strano e io non lo capivo però il pedale con lui lo dividevo e la salita non sembrava poi cattiva.

Caparrini: Generale, anzi, L’uomo cannone. Butterò questo mio enorme cuore tra le montagne un giorno, giuro che lo farò e oltre l’azzurro della bici nell’azzurro io volerò.

Chiarugi: Quattro cani. Il primo è un cane di guerra e nella bocca ossi non ha e nemmeno violenza. Vive addosso ai muri e non parla mai. (Però dopo Pistoia-Abetone e Prato-Abetone si meritava anche Il bandito e il campione).

Nucci: Il signor Hood. E che fosse un bandito negare non si può. E tutti lo chiamavano signor Hood ma il suo vero nome era spina di pesce (per come è secco e per come a volte è doloroso da mandar giù).

Pagni: Piano bar. Questo strano tipo di ciclista vuole la compagnia, la risata forte l’amicizia a cena, ama se stesso con allegria. È un ciclista di piano bar e un poeta di varietà, non cercare di vederlo piangere perché piangere non sa.