Tour 2019

Valloire - Les Menuires 24 - 28 luglio

Il Tour dell'ottavo Galibier

 

 

 

 

Trent'anni di moltitudine

 

 Minimale nel 1990, completo nel 1993, epico nel 1998, memorabile nel 2004, interruptus nel 2011, affollato nel 2013, variegato nel 2017: il Galibier dall’alto dei suoi 2642 metri ha scandito la storia dell’Empolitour al Tour con irregolare ricorsività. Con tre possibili basi e due colli aggiogati, Telegraphe e Lautaret, genera cinque combinazioni di scalata con cinque diverse sfumature di durezza che diventano quindici se consideriamo altre tre variabili: assenza di tappa, presenza di tappa valicante e presenza di tappa arrivante. Per amore d’acribia presidenziale cataloghiamo negli annali, in ordine di difficoltà decrescente: due Galibier da Saint Michel con tappa valicante (1993, 1998) due da Saint Michel senza tappa (2004, 2013), uno da Bourg d’Oisans con tappa arrivante (2011), uno da Briançon senza tappa (2017) e uno, quello primordiale, dal Lautaret senza tappa, tanto modico e inverecondo da essere ripetuto dal presidente Caparrini a piedi nel 2017.

Tutto quest’ozioso preludio classificatorio introduce i due protagonisti indiscussi del trentesimo Tour: il Galibier, gigante petroso delle Alpi e il Caparrini, gigante buono dell’Empolitour, supremo prenotatore d’alberghi ed ora capace di espugnare sette camere all’Hotel de la Poste di Valloire, mai così vicino ad una linea di traguardo di tappa. Una tappa che secondo la predetta classificazione apparterrebbe ad una categoria ancora insondata, quella del Galibier orbato di Telegraphe con tappa valicante. I patriarchi ricordano pernottamenti anche a cento chilometri dall’arrivo e perciò giudicano un bel successo evolutivo anche la conquista del secondo alloggio a Les Menuires, l’Hotel Pelvoux a dieci chilometri dall’arrivo di Val Thorens. L’agio delle visioni di tappa in situ è compensato da due trasferimenti pedalanti, caldamente consigliati ai ciclisti che sono comunque liberi d’usufruire del servizio di Busitalia dello storico auriga Coletti. Il programma caparriniano vorrebbe soddisfare bradicinetici e riduzionisti che da qualche anno possono alla bisogna anche confluire nella sua privata schiera pedestre. Dal 2017 infatti l’Empolitour è ufficiosamente biatletica, manca soltanto l’ufficialità degli itinerari scarpinati che rimangono fino all’ultimo secretati nella mente presidenziale. I pretendenti non conoscono chilometri, dislivelli o terreni ma sono certi che il cibo non mancherà, sotto tetto irrinunciabile di rifugio, baita, chalet o ristorante con gambe rigorosamente sotto tavola. Pertanto si notano adepti d’ogni stazza e anagrafe anelanti a malghe e alpeggi su sentieri erti e incerti, e pure qualche guidatore di bici vi potrebbe anelare lasciando intonso il mezzo di locomozione che lo dovrebbe contraddistinguere.

L’elenco dei partecipanti è così iniquamente tripartito: i portatori di bici Bartoli, Bertelli, Chiarugi, Cocchetti, Giusti, Muritano, Nucci, Pagni, Scardigli, Seripa e Ulivieri; i portatori di scarpe Caparrini, Caparrini C, Masini e Pucci; il portatore d’autobus Coletti. Sono tutti noti ai venticinque lettori e adusi alle grandi corse a tappe. L’unico che si potrebbe definire esordiente è l’atletico Bartoli che dopo cinque Giri vuole esercitare in età matura lo ius primae Galliae. Ma dai due Tour di Giusti e i trenta di Caparrini e Nucci c’è ancora voglia di ricominciare da capo.

 

 

Il calore sconfinato

 

Sostiene Caparrini che se il Tour vero può cominciare dal Belgio quello finto, sulla falsariga del 2017 può cominciare dall’Italia. La Grand Depart è perciò a fissata Susa, alle 11:00 secondo i calcoli presidenziali, alle 12:20, fra la stazione e una giostra dismessa, secondo la realtà effettuale che tiene conto dei laboriosi freni a disco di Muritano. Fra gli undici ciclisti teorici c’è tosto lo scorporo di Pagni e Ulivieri che chiesero l’esenzione per inanità già al momento dell’iscrizione, mentre il claudicante Nucci esibirebbe un certificato di frattura di metatarso che gli consentirebbe l’uso di una bici elettrica senza dileggio. Sennonché una più accurata stima d’autonomia delle pile sembra garantirgli la sola scalata del Moncenisio con ipotesi di propulsione manuale del mezzo sul Col du Telegraphe ad andatura anserina.

Quindi appuntamento a Valloire, otto in autobus con aria condizionata e otto in bici con aria incondizionata cioè rovente. Le uniche ombre sulla strada del Moncenisio sono quelle dei ciclisti. Valico sempre snobbato a rango automobilistico, ora prende rivalsa di castigo fin dai primi metri quando Giusti è già staccato. Il primiparo Bartoli è l’unico che tenta di preservare un contegno di pedalate anche se reca in groppa un floscio zainetto giallo. L’attempato ma temprato Scardigli lo pedina con maestria ma gli altri ben presto colliquano. L’irrefrenabile Chiarugi è costretto ad irrigarsi a un rubinetto pubblico di Giaglione e nemmeno in questi indugi Giusti previene. Quando Chiarugi un po’ si rianima, riesce prima a sorpassare l’evaporato Seripa e poi in un sol tornante Bertelli e Muritano, assistiti da Cocchetti che si finge crocerossino per rallentare. L’ultimo paese d’Italia si chiama Bar Cenisio, nomen omen, dove quasi tutti si fermano a bere. Non Chiarugi che ricevuto un augurale fanculo dalla Bertelli mira alla frontiera. Arsura e gendarmi non possono mancare al Tour. Stavolta i gendarmi ignorano i ciclisti e l’arsura li tormenta anche quando diventa chaleur oltre confine. Il Mont Cenis ha un lago al posto della vetta e un Bar Restaurant le Savoie dove Bartoli e Scardigli sono fermi in meditazione e idratazione. Anche il riarso e disidratato Chiarugi medita sosta ma quando vede Bartoli indossante bianca mantellina è colto da repentina crisi d’asfissia e fugge in discesa. Opina che un imbelle discesista e passista come lui in siffatto stato fisico possa essere facilmente annullato. Lo rivedranno a cena all’Hotel de la Poste. I giusti optano infatti per l’attesa illimitata di Giusti sur la rive droite du lac conferendo all’ingiusto più di mezz’ora di vantaggio. Il fin de course è comunque costretto a subire altre attese perché la Bertelli si saetta in discesa dopo vane promesse di prudenza e Muritano nella valle della Maurienne si autoproclama tiratore di colli prima del colle.

In onore di Caparrini e di una frana viene scalata anche la côte di Saint-André che ravviva le gambe cotte in vista del Telegraphe. Presso un altro santo, Michel-de-Maurienne, inizia infatti quella salita che dovrebbe fungere da fine pena o colpo di grazia. Lì, subito dopo il varco dell’Arc, su lignea panchina con annesso tavolino, si notano il pavido Ulivieri e l’elettrificato Nucci dotati di bici appoggiate. Forse per senso di colpa, rimorso o magnanimità hanno deciso di venire incontro agli sfibrati colleghi per scortarli nelle ultime pedalate d’espiazione. Chiarugi sembra fingere di non vederli quando subodora un intento di riunificazione mentre i ritardatari sono da loro carpiti e affiancati. Nucci con imperiose pedalate voltaiche tiene le ruote di Bartoli e Scardigli ancora baldanzosi nella loro essudazione. E mentre brindano con foto al cartello del Telegraphe egli torna pure indietro da Bertelli, Cocchetti, Muritano e Seripa per dissipare la carica residua. L’assistenza di Giusti spetta di diritto ad Ulivieri, unico in grado di emulare la sua velocità pedonale e finalmente dopo sole sette ore e mezza lorde Caparrini passeggiante per Valloire può idealmente riabbracciare i suoi ciclisti mandati allo sbaraglio per cento chilometri. Ma non c’è tempo per troppi complimenti e convenevoli perché incombe la cena postale: un bel terno di piatti con terrine de montagne (due fette di salamella con due cetriolini), entrecote pediatrica con tre foglie d’insalata ben condite e dessert costituito da frammenti elaborati di mezza pesca sciroppata. A onor del vero lo chef offriva alternative equipollenti come potage, roti de porc prevalentemente osseo e fetta di fromage blanc ampia circa dieci gradi sessagesimali. Con qualche rondella di baguette si compensano duemilasettecento metri di dislivello e altrettante calorie ma poi si capisce perché saziati da questi menu i francesi non c’è la fanno più a vincere un Tour.

 

 

La memoria delle alte rocce

 

Con dotazioni darwiniane di baguette, croissants, pain au chocolat e oeufs durs per Pagni i ciclisti mattinieri fortificano le membra e gli animi per quel decantato Galibier che si erge su una Valloire ornata di trofei. Con la conquista di questo prezioso hotel viciniore l’organizzazione caparriniana è immune da difetti e critiche, e garantisce a tutti i partecipanti panem et circenses. Il divertimento è assicurato da carovana pubblicitaria e tappa in loco dopo percorrenza d’itinerari podistici e ciclisti d’alto livello e accessibili anche al volgo. Ma Caparrini è attento anche all’aspetto alimentare grazie all’esproprio di sedici coperti all’Asile des Fondues per un pranzo con obbligo di tartiflette, inquietante ma nutriente mistura di specialità savoiarde avanzate a precedenti comitive. Queste lusinghiere prospettive risvegliano dal letargo anche i ciclisti che sembravano estinti, come l’arconte Pagni in continua evoluzione anagrafica e involuzione chilometrica ma uno dei pochi memori dei due Galibier integrali del 2004 e del 2013.

Il Galibier odierno è ovviamente quello senza il già timbrato Telegraphe e tutti gli undici ciclisti lo approvano, con qualche distinguo: Pagni, noblesse oblige, può partire in anticipo, Giusti lo deve seguire e Cocchetti furbescamente s’infiltra fra i due. Il certificato medico dello sbilenco Nucci è già scaduto e dovrà arrangiarsi motu proprio. Per i quattro scarpinatori il raggiungimento del Galibier sarebbe incompatibile col raggiungimento della tartiflette, e forse con la vita di qualcuno. A loro è concesso per meritare il desco anche un succedaneo Telegraphe per vie traverse.

Al postutto sono sempre in otto a pedalare insieme, almeno per cento metri. Al primo carrefour perdono Ulivieri. Poi la strada s’impenna linearmente e sembra mietere Bertelli, Muritano e Seripa che però rientrano nella piana di Les Verneys: effimeri momenti d’ecumenismo destinati a soccombere sotto il peso delle prime rocce. Flosci sia lo zainetto di Bartoli che il piede di Nucci, ma i due menano le danze fino Plan Lachat. Pagni vi è già passato e forse ricorda il pasto del 2004 quando invece della tartiflette fu consumato il deux-penis-de-taureau,  che lo storico dell’Empolitour definì “una specialità fallica savoiarda costituita da due peni taurini o canini, immersi nella salsa del proprio liquido seminale”. Ma non è lui il primo dei ripresi e nemmeno il placido Giusti, bensì il reprobo Cocchetti punito con la rottura di due raggi. E non è né lo zavorrato Bartoli né l’evasore Chiarugi il primo dei riprendenti, bensì il fratturato Nucci che ingaggia esemplare tenzone con un eterodosso destando qualche sospetto d’elettromagnetismo. Lasciati alle spalle gli abitacoli di Les Granges e Giusti di slancio, i principali ciclisti cercano di scorgere la stele di Pantani che però come nel 2013 pare invisibile in salita. Se quindi qualche indegno avesse la forza di simularlo e scattare impugnando il manubrio dal basso, non saprebbe mai d’essere nel punto giusto. Poi gli ultimi chilometri di memoria vanno al 1998. Pagni non c’era ma non sarebbe salito come adesso con la maglietta sventrata. Nucci e Chiarugi lo sorpassano prima del tunnel e si rammentano del pastis offerto dai gendarmi in vetta sotto una tenda a usbergo del nevischio, e del venditore di souvenir che quando vide ciclisti infreddoliti e postulanti sotto la tormenta si chiuse a chiave dentro il negozio. Oggi il sole trafigge i nevai e dopo lo sbudellato Pagni arriva anche la scollacciata Bertelli in canottiera. Seripa la scorta in silenzio ma fa finta di non conoscerla quando litiga con un gendarme che vuole impedirle la foto al cartello. Mancano solo sette ore al passaggio della corsa ma gli amati militi sono comunque addestrati per creare scompiglio fra i ciclisti. Soltanto Muritano professionista di pose ebeti riesce a conquistare il traguardo iconografico. Per pose più collettive occorre recarsi da Pantani, visibilissimo in discesa, e discendendo rivedono con sollievo Giusti e s’accorgono dell’esistenza in bici di Ulivieri, conquistatore inopinato di Galbier a pedalata intervallata.

Il rito ortodosso della visione di tappa può dunque compiersi per tutti in panni regali e curiali, dilavati dai sudori montani anche i quattro podisti. Prima però incombe il pranzo obbligatorio, giacché socialmente finanziato, ove Caparrini caldeggia fino all’imposizione l’agognata tartiflette che nella sua avventizia e sinistra composizione dovrebbe corroborare gli spettatori nelle complesse manovre di visione. Ma il senso di plenitudine, l’ebbrezza e la tentazione d’agiatezza dirigono la maggioranza verso le camere postali con dubbiosa promessa di ridiscendere sul percorso di tappa prima dell’assopimento. Solo i più sobri, Cocchetti, Masini e Pucci s’uniscono al supremo visionatore Caparrini e al cacciatore di gadget pubblicitari Chiarugi. Due transenne minate e l’impetuoso torrente Valloirette separano gli operosi astanti dalla meta dell’Hotel apparentemente vicina, e finché si tratta di meriggiare, afferrare cadeaux meteorici, incitare Quintana e dopo mezz’ora Nibali nessuno sente la carenza di mollizie, ma quando insieme alla voiture balai incede sul Tour un deflagrante acquazzone quei pochi metri di strada non valicabile significano per Caparrini e sodali una sistematica abluzione che non avevano sperimentato nemmeno nel 1998. Con l’aggravio del ludibrio che i compagni capitanati da Pagni sotto parapluie officiel e rassicuranti tettoie riservano al loro fradicio ritorno.

 

 

Il fuoco e gli artifici

 

Sostengono i maligni che da quando Caparrini è diventato spettatore passeggiante anche del Tour finto, abbia assunto un’insolita propensione a sviluppare per i suoi ciclisti percorsi che egli non avrebbe mai osato percorrere. Infatti, a ben leggere il programma, questa tappa Valloire - Les Menuires con tre GPM di specchiate virtù non sfigurerebbe nel Tour vero, anche senza immaginare che gli organizzatori avrebbero ignominiosamente menomato le due tappe decisive. In difesa dell’innata pietas caparriniana si schierano gli attenti esegeti delle sacre scritture ove era compresa una previsione d’assistenza in autobus per eventuali cassatori di uno o più colli fra Chaussy, Madeleine e Les Menuires.

Fu la Societé du Tour de France ad avvisare Caparrini che avrebbe imposto il coprifuoco agli autoveicoli dalle 12:00 e che quindi si scordasse pure la visione di partenza a Saint-Jean-de-Maurienne e l’assistenza in autobus: i ciclisti avrebbero dovuto cavarsela da soli per cento chilometri o in alternativa unirsi ai caparriniani trasbordati dall’auriga, tertium non datur. Questa notizia provocò ipso facto le defezioni di Cocchetti, Muritano, Pagni e Ulivieri. Giusti ci pensò un po’. Pensieri di riduzione rampollavano anche nelle menti più integraliste. Il rigoroso Chiarugi capì che dopo il calore sconfinato del Moncenisio c’era un’alta probabilità di strage e che l’unica soluzione onorevole e salvifica sarebbe stata la cassazione dell’unico colle cassabile, cioè lo Chaussy anche se questo era stato eletto per motivi estetici colle di copertina. Così scorciando, dopo la sfiancante Madeleine sarebbe rimasta solo l’ascesa a Les Menuires, una porzione di quel Val Thorens che il solito anonimo storico nel 1994 descriveva come “strada che arriva miracolosamente a 2200 metri senza mai salire.” Quest’idea di blandizie fu accolta con favore dai sei rimanenti ciclisti, Giusti compreso, e Caparrini fu contento che suoi atleti si sfogassero mentre lui aveva tutto il tempo per puntare gli scarponi verso il Lac du Lou con annesso rifugio e consequenziale strippata.

Frettolosamente scaricati alle 9:25 su una rotonda nei pressi di La Chambre, i ciclisti confidano nella clemenza dell’aere mattutino per domare l’implacabile Madeleine. A Saint-Martin-sur-la-Chambre Giusti è già rassegnato alla definitiva solitudine. La Bertelli si consola col fido caudatario Seripa mentre il quartetto degli avanguardisti Bartoli, Chiarugi, Nucci e Scardigli procede di pari passo anche quando sui capitelli informativi si leggono pendenze a due cifre. Rilassante per tutti pare la durezza del presente mitigata dall’altitudine più del riscaldamento futuro minacciato da un sole lento ma tenace come Giusti. In vetta questo senso di rilassamento è più psichico che fisico perché Nucci s’adagia cadaverico sul cartello monumentate dopo la foto mentre Bartoli e Scardigli tradizionalmente spartani invocano la sosta Pagni. Chiarugi non resiste agli indugi e col solito ragionamento del discesista inetto facilmente raggiungibile s’avvantaggia quatto e asociale. Anche stavolta lo rivedranno in albergo ma dopo un garbuglio di eventi che genera pathos inaspettato.

Il reprobo Chiarugi calato nel calore della Val d’Isere sperimenta in avanscoperta il patema. Prima sbaglia salita seguendo fasulle frecce gialle, poi si perde nella zona industriale di Moûtiers e infine inizia la Montée de Belleville alle 13:05 senza apprezzare l’ironia dello scrittore. In verità la carreggiata sale larga e moderata ma a quell’ora gli alberi proiettano vellutate ombre solo sui bordi. Le uniche forme di vita sono appuzzanti automezzi che non dovrebbero nemmeno esistere secondo l’editto che ha costretto i caparriniani a fuggire anzitempo per chiedere asilo al rifugio del lago. A quella temperatura per un normale fabbisogno idrico le borracce dei ciclisti si svuotano dopo tre chilometri mancandone ventitré. L’acqua però si può sorseggiare e centellinare per farla durare altri due allo stato di brodo. Durante questi chilometri non s’incontra nessun segno o speranza d’erogazione di liquidi e anche i canali di scolo danno mostra d’atavica secchezza.

Il primo paese, Saint-Jean-de-Belleville giunge dopo tredici chilometri bastevoli per visitarlo già collassati. Chiarugi resiste pensando a “li ruscelletti che dai verdi colli, del Casentin discendon giuso in Arno, facendo i lor canali freddi e molli...” ma trova vicino a una cappella solo uno scassato rubinetto che emette un vuoto cigolio al posto dell’acqua. Per non subire altre cocenti delusioni prosegue senza entrare nel desertico villaggio e viene premiato con un’ombrosa discesa che offre a guisa di miraggio non proprio un ruscelletto del Casentino, ma una cascatella d’acque reflue a cui si abbevera e si irriga con foga belluina, ingurgitando avidamente e in unica soluzione anche residui minerali, vegetali e animali dispersi in quel freddo e molle ben di Dio. Dopo quella rianimazione la seconda metà della salita sembra ancora discesa. E si popola anche di ciclisti e tifosi confermando due constatazioni che la sete aveva reso secondarie: il percorso di tappa dell’indomani non era questo ma una via convergente più stretta e ombrosa; di qui l’autobus sarebbe passato a qualsiasi ora senza divieti. Più una terza estemporanea: i camperisti accampati non sono così nocivi come sempre ma oltre alle incitazioni offrono talora acqua calda e caramelle gommose ai ciclisti che passano cachettici. Ma ormai sono constatazioni indolori. Torreggianti palazzi annunciano Les Menuires. Anche l’Hotel Pelvoux è annunciato a caratteri cubitali ma per trovare l’ingresso ci vuole un’altra decina di minuti durante i quali sbucano dal nulla Nucci e Scardigli. In salita hanno staccato Bartoli e recuperato mezz’ora a Chiarugi? Non bisogna aspettare i posteri per l’ardua sentenza perché confessano subito.

Dobbiamo fare però qualche pedalata indietro e tornare sulla Madeleine quando arrivano Bertelli e Seripa che risvegliano Nucci pisolante sul cippo marmoreo. Alcuni litri d’Orangina valgono l’attesa di Giusti, poi convolano tutti insieme senza alcun sospetto. Biasimano il fuggitivo Chiarugi ma ne ripetono gli stessi errori di percorso fino ad imboccare la rovente autostrada per Les Menuires. E qui i ciclisti non tardano ad esplodere, ognuno proiettato verso un ingrato destino d’arsura. Bartoli sembra l’unico che possa ragionevolmente sopravvivere, forse perché nel suo vituperato zainetto floscio nascondeva un camel bag da due litri. Gli inseparabili Bertelli e Seripa procedono silenziosi per non aggravare la secchezza delle fauci e guadagnano qualche goccia di fiducia quando sorpassano i prosciugati Nucci e Scardigli che se ne stanno seduti su due paracarri meditando soluzioni finali. Mancherebbe poco al salvifico Saint-Jean-de-Belleville ma solo la Bertelli, bubbolante ma caparbia, superando anche lo sconforto del rubinetto sconsacrato, riesce a conquistare una fonte Castalia ben più pura di quella chiarugiana, ove il lavacro condiviso ripaga anche il santo Seripa di tanta onerosa scorta. Pure a loro s’aprono così le porte di Les Menuires coi tifosi che li acclamano per la loro impresa, compreso un furgoncino verde che li saluta col clacson. E a questo proposito bisogna tornare su Nucci e Scardigli seduti ad aspettare la pioggia dal cielo senza nubi. Passa invece un olandese che capisce al volo i loro bisogni e li carica sul suo verde furgoncino senza incontrare opposizioni. Risalendo la china, la misericordiosa voiture balai vorrebbe estendere anche agli altri compagni di patimento questo servizio ma la Bertelli fraintende e saluta mentre Bartoli interpreta a modo suo e s’aggancia alla vettura per vari chilometri. Gli equivoci sono ovviamente alimentati da Nucci e Scardigli opportunamente nascosti per la vergogna.

All’arrivo ognuno porta con sé segreti e sofferenze, scoprendo che il laborioso accesso al Pelvoux passa attraverso una specie di Pronto Soccorso locale, quanto mai provvidenziale. Anche perché all’appello degli eventi manca ancora Giusti. Se atleti comprovati sono saliti con sete, deliquio, traino o furgone è sensato temere per la sua incolumità. In verità il saggio bradicinetico capisce dopo poca salita che così percosso e inaridito non può andare molto lontano. Si ferma perciò sotto una pensilina ad aspettare l’autobus di linea scoprendo che non passa il venerdì. Senza perdersi d’animo ridiscende alla stazione di Moutiers e dopo aver scartato le ipotesi di treno e cabinovia si affida a un efficiente tassista che ha già effettuato altre simili corse per ciclisti cotti. Ignaro che compagni più forti abbiano già usufruito dello stesso artificio gratuitamente.

A cena nel sottoscala del Pelvoux il giudice Caparrini, reduce da passeggiate meno narrative sul lungolago, raccoglie senza emettere sentenze tutte queste indiscrezioni per trarne una morale sulle magnifiche risorse dell’uomo ciclista contro l’oppressione della natura. Poi però a placare gli animi e le fami viene servita la solita terrine de montagne, sempre con due fettine di salume per l’occasione rinforzato da ben tre cetriolini sottaceto.

 

 

L’estintore finale

 

Per strane coincidenze la tappa del Tour vero e quella del Tour finto, ambedue passanti per Les Ménuires e arrivanti a Val Thorens, subiscono lo stesso destino d’epurazione. I professionisti hanno paura di bagnarsi dopo la grandinata del giorno prima e riducono la corsa a una sessantina di chilometri, gli Empolitour hanno paura di riscoppiare dopo le grame figure del giorno prima e riducono la corsa a una ventina di chilometri. Il clima è beffardamente piovigginoso ma nessuno ha vigore e voglia di tornare a Moutiers, come da programma presidenziale, per ripetere la cocente esperienza, stavolta in eccesso d’acqua, magari passando dal vero percorso di tappa. Meglio un inverecondo anda-e-rianda a Val Thorens per chiudere i conti con un Tour già ricco d’emozioni. Anche Caparrini e il suo itinerario personale vacillano: avrebbe voluto guidare i suoi palafrenieri a Val Thorens per espugnare un ristorante vicino all’arrivo e resistere cinque ore in assedio anche grazie al supporto dei ciclisti. Ma le alternative sono troppo più allettanti. Si scopre infatti che Les Menuires è provvista di una città sotterranea e che grazie alla galerie marchande è possibile transitare dal Pelvoux al percorso di tappa senza bagnarsi.

Alla resa della colazione si guardano negli occhi e decidono quanto segue: Muritano ed Ulivieri si ritengono esentati perché già esecutori dei dieci chilometri di Val Thorens durante l’essiccazione dei loro compagni; Cocchetti e Pagni hanno già imbustato definitivamente le bici dopo il Galibier e si rendono eventualmente disponibili per l’assedio al ristorante; i sette rimanenti, Giusti compreso, è meglio che partano alla svelta prima che qualcuno ci ripensi.

Opina la Bertelli che, data l’esiguità dell’impegno, non sarebbe disdicevole svolgerlo di comune accordo. Ma Nucci suona la carica prima della formulazione dell’opinione, dimentico del metatarso, dell’elettricità e del trasbordo. Chiarugi lo tallona come venticinque anni fa quando si fermarono solo di fronte a un baluardo di gendarmi prima di Val Thorens. A quest’ora i gendarmi non sono ancora usciti dalle tane ma la scalata sembra subire il solito destino interruptus dopo un primo tuono, un secondo e uno scroscio d’acqua che induce Nucci all’immediata retroversione con trascinamento a catena degli inseguitori Bartoli, Bertelli, Giusti, Scardigli e Seripa verso la via del Pelvoux. Stavolta Chiarugi rimane solo per fuga degli altri, sotto un casotto pieno di gilet arancioni a misurare la pioggia che come tutte le piogge prima o poi cessa e autorizza la ripartenza. Con questi principi naturali lo scalatore silente e solitario riesce quasi a tagliare il traguardo se non fosse per gli operai che lo stanno montando. Poi senza tanti fronzoli torna indietro guadagnando sole e asciuttezza stradale. E queste mutate condizioni atmosferiche gli permettono d’incrociare i risalenti per resipiscenza Bertelli, Nucci, Scardigli e Seripa che erano davvero tornati a Les Menuires e che lo invitano con approvazione ad unirsi alla risalita. Questa differisce dalla prima non solo perché è più asciutta e più comunitaria ma anche perché è un po’ più corta, considerando che i gendarmi ogni minuto che passa diventano sempre più ostili e respingenti verso i ciclisti.

Nessuno vuole però restare a Val Thorens oltre la durata di due foto. La visione di tappa può essere officiata nel modo più prevedibile e agiato: in poltrona alla TV con instradamento sul territorio all’ultimo momento, anche perché la carovana pubblicitaria in questa politica di tagli non è nemmeno partita. Nessuno si sente in colpa per questa soluzione sibaritica notando che il presidente in persona inibito dall’acquazzone è ben disposto ad officiare il rito in cotale modalità, comprensiva di soporifero russamento.

Anche se non avesse vinto Nibali ci sarebbero già i presupposti per il lieto fine di questo trentesimo Tour. Cena e pioggia leggere, colazione e viaggio pesanti verranno a sfumare gli ultimi scampoli di quest’ennesima esperienza francese che arricchisce di un altro trofeo la gloriosa bacheca dell’Empolitour. Nessuno sa quanti posti liberi rimangano da riempire, né quanti di questi attori ritorneranno, quanti si aggiungeranno, quanti si trasformeranno e quanti abbandoneranno. E se qualcuno fosse costretto a fuggire in discesa senza salutare si spera sempre di ritrovarlo a cena in albergo.

   

 

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