27/02/2000 Il gigione

 

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: è il giorno solenne della classica d’apertura. Un sentore di primavera accoglie il brulichio di undici ciclisti che si apprestano alla festosa partenza. Sono preceduti dal longevo e salace Marchetti, membro della corrente ciclopenica dell’Empolitour, che con un’avveniristica videocamera raccoglierà una preziosa antologia di immagini per tutto il lungo corso della manifestazione. Al cronista rimane l’improbo compito di raffigurare con le parole quel che non è stato colto dal paziente occhio digitale dell’accompagnatore automunito.

Si schierano dunque al via: Caparrini con giubbino di terza generazione, Nucci con giubbino di prima generazione, Chiarugi con giubbino di seconda generazione, Bertelli con pantaloni asociali, Magnani con pantaloni alla zuava, Bagnoli L. senza pacchiano casco, Tempestini con pacchiano casco, Boretti con fez di lana caprina, Boldrini con niente sotto il vestito, Pagni con bisaccia piena d’indumenti, Pelagotti con epa piena d’alimenti.

Il gruppo si mantiene compatto addirittura fino al GPM di Cerreto Guidi. In discesa iniziano gli attacchi ed una fuga bidone consente a Pelagotti di transitare per primo all’Intergiro di Larciano. Sullo slancio della fuga Pelagotti, Magnani, Tempestini, Boretti e Bagnoli prendono il largo nel dissestato autodromo che conduce a Montecatini ed iniziano la salita verso Goraiolo con vari minuti di vantaggio sul resto del plotone. Chiarugi parte alla forsennata rincorsa e raggiunge dopo un chilometro il pacato Boretti, dopo due il rassegnato Pelagotti e dopo tre il trio di testa formato da Tempestini e Bagnoli con Magnani che vanamente li sprona. Magnani e Chiarugi proseguono da soli con un tacito accordo di non belligeranza. Dietro a loro la situazione creatasi a causa dell’avvio differenziato varia in maniera inenarrabile per continue rimonte, agganci e cedimenti. Si può solo dire che ad ogni passaggio davanti all’implacabile videocamera tutti i ciclisti tentano di darsi un apparente contegno, talora salutando con la manina, per ripiombare nello stato di ottundimento o di acidosi lattica non appena l’occhio del premuroso Marchetti si stacca dal suo lussuoso utensile.

Sulla vetta di Goraiolo si riunisce l’affannato gruppo e riparte non prima di un’ecumenica foto e dopo aver accertato che il sudore di ciascuno sia diventato sufficientemente ghiaccio. Fra gli alberi stecchiti che accompagnano la marcia d’avvicinamento a Casamarconi sul crinale della montagna pistoiese, sembra allora diffondersi un soave profumo. Non sono viole precocemente fiorite ma allucinazioni olfattive di alcuni ciclisti che a distanza di 15 chilometri cominciano ad avvertire i benefici vapori della cucina di Mario Tinti. Incombe la sosta al ristorante che ha visto il germe dell’Empolitour prendere forma di virgulto e divenire negli anni pianta sempre più radicata, una sosta che annualmente vede incrementare la durata, il numero di partecipanti e la quantità di calorie acquisite pro capite. Quest’anno il tempo necessario ai gioviali adempimenti è stato di 135 minuti così suddivisi.

·        Preparativi iniziali: 45 minuti. Abbandonati sulle sedie i maleodoranti giubbini, ognuno si presenta al desco con vestimenti asciutti e variegati. Si va dal torso nudo di Boldrini al ricambio integrale (mutande comprese) di Pagni che per tale operazione impiega 20 minuti trascorsi dal resto del gruppo con la visione in anteprima del filmato della corsa.

·        Pranzo: 10 minuti. Misurati come tempo effettivo di alimentazione. Risulta così breve per la voracità con cui le fauci dell’Empolitour sono solite saccheggiare ogni piatto che contenga materiale commestibile indipendentemente dalla sua pertinenza con l’attività ciclistica.

·        Trastulli: 50 minuti. Non si tratta del solito chiacchiericcio dei commensali fra una portata e l’altra (e comunque non sarebbe mancata una valente cultrice della materia) ma delle esibizioni gigionesche di Mario Tinti. Egli si presenta con occhi piccoli che denotano scaltrezza e mani tozze che potrebbero sembrare unicamente use ad agguantare e smembrare quarti di bue. E invece in quelle dieci dita si cela un estro prestidigitatorio che ogni anno rinnova esibizioni esilaranti burlandosi degli increduli e divertiti astanti che vedono apparire e scomparire carte e monete con la stessa velocità e naturalezza con cui essi vuotano piatti e bicchieri.

·        Preparativi finali: 30 minuti. Tempo impiegato da Pagni per ristabilirsi nello status quo ante più quello trascorso a raccogliere i soldi del conto (anch’esso annualmente crescente), a disporsi nelle ennesime pose fotografiche e a riempire borracce.

Usciti da questo clima di avanspettacolo, diventa duro il solo pensiero delle pedalate che separano Casamarconi da Empoli con il caotico attraversamento di Pistoia e con la scalata del S.Baronto che è affrontata con dispendiosa foga sperando così di ottenere un’ardua catarsi alimentare come se si potesse cancellare in sei blandi chilometri un comportamento colpevolmente ipercalorico. Nell’approssimarsi ad Empoli ogni bivio riduce di qualche unità lo stanco ma felice gruppo. Gli ultimi due superstiti finiscono per rimanere intruppati nel carnevale dei bambini di Monterappoli.

È la degna conclusione di un giorno d’allegrezza pieno.

 

 

19/03/2000 Fame medievale

 

La cinta muraria fortificata di Monteriggioni è nota fin da tempi di Dante che ne fa cenno nel canto XXXI dell’Inferno (però che come sulla cerchia tonda / Monteriggion di torri si corona…). Oggi le quattordici torri sono usurate e decrepite e l’Alighieri non potrebbe più paragonarle agli orribili giganti di Malebolge, tuttavia il luogo conserva ancora quell’artificiosa parvenza di medioevo che piace tanto ai turisti. È una meta ideale per chi vuol passare la domenica con la bella sotto braccio a parlare d’amore ma nessun ciclista in allenamento vi era mai transitato prima d’ora. I ciclisti sui generis dell’Empolitour, non nuovi a lunghe pause ipercaloriche nei borghi medievali, hanno invece progettato un ameno circuito collinare di 133 chilometri per giustificare una sosta fra le mura dell’antico castello.

Protagonisti in ordine d’indumento: Bagnoli L., Caparrini e Chiarugi (estivo con rinforzo permanente di manicotti), Tempestini (estivo con rinforzo permanente di sostitutivo), Pagni e Pelagotti (ibrido primaverile sociale), Boldrini (ibrido primaverile asociale), Magnani (semi-ibrido primaverile sociale con rinforzo temporaneo di sostitutivo), Bertelli (semi-ibrido primaverile asociale temporaneamente rinforzato e socializzato da sostitutivo con vezzosa treccia fuoriuscente dal casco), Boretti (invernale semi-asociale con socializzazione da neoacquisito sostitutivo), Nucci (invernale totale).

Partenza non proprio sollecita. Al cronicizzato ritardo di Pagni si aggiunge l’insolita foratura ante motum di Bertelli e per molti chilometri regna un diffuso sopore tanto che un trio di ultrasessantenni sorpassa il gruppo a doppia velocità nonostante gli improperi di Magnani. Bertelli inaugura sul Gelli il primo di una sequela di scatti che esibirà su gran parte delle salitelle del percorso e con questa incontenibile foga arriverà prima di Lucardo a disarticolare la ruota posteriore dalle forcelle. È Magnani a prestare soccorso meccanico anche perché il responsabile tecnico Bagnoli si appella alla sua obiezione di coscienza che gli vieta di intervenire su biciclette con cambio Shimano e/o telaio Cannondale (condizioni entrambe verificate in questo caso). A Tavarnelle Tempestini e Boretti optano per il percorso ridotto mentre una lunga teoria di podisti rallenta la già ridotta marcia del gruppo. La treccia della Bertelli continua a sfuggire dalla vista dei compagni sia in salita che in discesa, finché sulla Cassia comincia a torreggiare Monteriggioni. Allora Pagni, finora in sordina, si fa largo dalle retrovie col volto cosparso di uno strato di calcestruzzo spacciatogli per crema solare e si fionda verso la porta Romea del borgo come sospinto da un invasamento mistico. Quel che combina nell’ampia piazza centrale all’interno delle mura è in piena linea col personaggio ormai noto ai nostri lettori. Così non stupiscono le quattro fette di pane casereccio (quattro centimetri di spessore cadauna) ridondanti di prosciutto e pecorino con allegato boccale di vino rosso. Molti tentano di emularlo sbocconcellando panini più esili mentre egli sbrana e dilacera con le mani l’anelato cibo incurante degli sguardi dei digiunatori Chiarugi, Bertelli e Bagnoli (quest’ultimo, reduce da una Gran Fondo alimentare intramatrimoniale, pilucca invero un densissimo Power Sport).

Sulle salite della seconda semitappa Monteriggioni-Empoli, Nucci esce dallo stato di letargia in cui da giorni era caduto ed insidia Magnani sul GPM di S.Gimignano. In discesa Boldrini scompare progressivamente all’orizzonte animato dal suo usuale moto perpetuo programmabile con comando a distanza. Magnani lo segue per superamento della soglia d’impazienza e fra i rimanenti alcuni occhi lasciano trasparire dalle lenti chiare o scure segni inequivocabili di appagata spossatezza.

 

 

16/04/2000 Poco parchi nel parco

 

Quella di oggi è una delle rare occasioni in cui l’Empolitour affronta un percorso lontano dai centri abitati, con pochi chilometri di pianura e soprattutto con una quantità seppur modica di salita dura. Si va sui monti del Chianti nell’oasi naturale del parco di Cavriglia e nonostante l’asprezza dell’itinerario la partecipazione è quasi plenaria. I maligni sostengono che molti siano attratti dalla lusinga di una sosta illimitata fra animali esotici in libertà e i fumi di un arrosto girevole evocato nel ricordo della spedizione dello scorso anno. Partecipanti in ordine inverso di apparizione: Pagni, che merita una menzione prioritaria per i calzettoni rosso-verdi ad estensione rotulea appartenuti ad Angelino Rosa terzino destro della Ternana nel campionato di serie A 1974-75, Magnani, Pelagotti, Boldrini, unico ad esibire il completino estivo puro (ma con evidenti segni di orripilazione), Bagnoli L., con casco nuovo di gommapiuma dotato di tesa anteriore modello tettoia, Tempestini, Nucci, Bagnoli A., Bertelli, Chiarugi, Caparrini. Il gruppo è animato dalla solita briosa loquela in partenza e questo fenomeno dura per circa 75 chilometri fra pacche sulle spalle, scherzetti da caserma ed andatura che complessivamente ricorda quella del bird-watcher. La salita del parco di Cavriglia o, con epiteto più sinistro, della Badiaccia a Montemuro non sembra incutere particolari timori, forse perché è inedita per la maggior parte dei ciclisti. Magnani, che invece già l’aveva sperimentata, tenta di evitarla sbagliando freudianamente strada e trascinandosi dietro sette undicesimi del plotone. Bertelli, Chiarugi e Nucci possono così avvantaggiarsi per contemplare a lungo le famose case col cruciverba di Castelnuovo dei Sabbioni. Il gruppo si ricompatta giusto il tempo che serve a Caparrini per annunciare solennemente l’avvio della scalata. Pelagotti tenta un velleitario attacco che viene rintuzzato appena la strada si fa aspra e forte. Si stacca ma stranamente non esplode. Nucci dimostra di aver ritrovato oltre al senno anche l’agilità di un tempo e s’invola sulla scoscesa e sinuosa striscia d’asfalto. Chiarugi lo segue a vista finché dura il tratto duro poi cede e si fa raggiungere anche dal sedicente passista Magnani. Ma è nelle retrovie che si apprezza il lato più crudele e per certi versi più umano del ciclismo. Bagnoli A. si ferma bofonchiando sul ciglio della strada e medita di utilizzare la bicicletta per saldare i conti in sospeso con gli allibratori delle scommesse clandestine. Bagnoli L. procede più attardato col passo dell’avvinazzato disegnando traiettorie curvilinee da un lato all’altro della carreggiata per attenuarne la pendenza. Entrambi assistono al passaggio lento ma parsimonioso del saggio Caparrini che affianca alla fine anche l’incostante Tempestini. Nel parco si riunisce l’anelante plotone che perde subito le due unità più impazienti, Magnani e Boldrini. Giungeranno a casa probabilmente quando gli ultimi caffè saranno sorseggiati dai compagni goderecci. Per la sosta-Pagni non basta infatti un’ora. Nonostante l’inattività del bramato girarrosto, un’équipe di ristoratrici riesce comunque a soddisfare le esigenze della truppa con un sistema di cottura meno appariscente. Pagni entra prepotentemente in scena (dopo aver vanamente tentato di circuire le ristoratrici per ottenere l’anticipata messa in moto del girarrosto) scaricando sul ligneo desco un pane raffermo di 3 Kg (che per tre quarti della sua massa rimarrà nell’involucro d’origine) ed un contenitore pieno di membra arrostite di animali perlopiù appartenenti a specie protette. È lui ovviamente il dominatore incontrastato. Gli emuli cedono dopo pochi cosciotti mentre le sue mascelle continuano a dilaniare le carni abbrustolite ed a spolpare avidamente le ossa di cui il suo piatto risulterà alla fine stracolmo. La Bertelli assiste con malcelato ribrezzo mentre a piccole cucchiaiate sorbisce un bicchierino di ipocalorica macedonia. I 60 chilometri del ritorno servono, se mai ce ne fosse stato bisogno, a dimostrare che gli stomaci dell’Empolitour hanno doti atletiche non comuni. Pieni infatti di materiale ad alto grado di indigeribilità ed assetabilità riescono a resistere sui residui saliscendi a scatti, allunghi, progressioni, tirate e picchiate manifestando solo sporadicamente qualche segno di disappunto con rigurgiti o eruttazioni.

 

 

14/05/2000 Una muraglia chiamata Fossato

 

Una tappa impegnativa attende gli instancabili alfieri dell’Empolitour. Assenti gli agonisti e i pavidi, si schierano al Via Caparrini, Bagnoli L., Chiarugi, Pagni, Boldrini e Pelagotti ai quali si aggiunge Castiglioni in itinere. Per la prima volta nella stagione la socialità di vestiario è assoluta, si osservano tuttavia alcune varianti generazionali di completino estivo. Nel pensiero di tutti c’è il valico di Fossato o del tabernacolo di Gavigno, una salita che s’innalza dall’alta valle del Bisenzio e che è sistematicamente evitata da tutti i ciclisti locali (evidentemente questo ostracismo non è dovuto ad esperienze dirette in quanto si sa per certo che nessun ciclista pratese sia mai transitato da quelle parti). L’Empolitour invece, dopo due anni d’assenza, torna in quest’oasi di durezza che per quattro chilometri simula alcune porzioni di Mortirolo. Per giungere a tale orgasmo c’è da pagare un fio di 60 chilometri di strade statali infestate da autoveicoli, moto con sidecar, bus a due piani nonché da sciami di bubboni e interrotte da una trentina di semafori prevalentemente rossi con vari svincoli di tangenziali in un ameno paesaggio industriale e metropolitano. Quando a Vernio si esce dalla SS 325 vengono in mente gli ultimi versi della prima cantica della Divina Commedia (“tanto ch’i’ vidi delle cose belle / che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo / e quindi uscimmo a riveder le stelle”). Si esce dall’inferno e ci si avvicina al paradiso attraverso un purgatorio di qualche chilometro di falsopiano. Appena Caparrini dà il via alle ostilità, Pagni si lancia all’attacco per tentare almeno di ricevere menzione in questa cronaca ma quando Chiarugi lo raggiunge sembra quello che gli pneumologi chiamano pink puffer (sbuffatore rosa). La strada si fa intensa e induce a procedere a passi tardi e lenti vivendo metro per metro il movimento della ruota anteriore che talora accenna ad impennarsi. Castiglioni si accoda a Chiarugi, Boldrini a Pagni, Pelagotti tenta invano di agganciarsi ai due e Bagnoli trova energie insperate per tenere lontano Caparrini che incede alla minima velocità d’equilibrio distribuendo parsimoniosamente lo sforzo lungo un percorso che conosce ormai nei dettagli. L’atmosfera idilliaca è interrotta bruscamente da un’inopportuna discesa e quando si torna a salire la strada non ferisce più come prima e tutti possono così arrivare al tabernacolo in condizioni di apparente baldanza. I ragazzi, Pelagotti e Boldrini, ancora vergini di grandi montagne, percepiscono con soddisfazione di aver superato il più duro ostacolo della loro vita ciclistica mentre Caparrini registra in maniera più sobria l’ennesima limatura di un record assoluto di scalata. La strada lungo la Limentra inferiore separa i ciclisti da una sosta-Pagni che ai più appare meritata ma che deve essere conquistata vincendo una successione di strappi fra Acqua e Acquerino in un bacino idrico che, a giudicare dalla toponomastica e dalle numerose fontane incontrate, sembra assai florido. Ma più che la sete poté la fame. Pagni arriva ipoglicemico al troteificio* dell’Acquerino e, dopo aver trattato in malo modo un venditore di croccanti che non disponeva di panini, si catapulta nel bar dove, con gli occhi persi nel vuoto, divora le tradizionali quattro fette di pane ridondanti di prosciutto e pecorino stavolta rinforzate da un untuoso carciofino. Ogni boccone si disintegra sotto l’impeto di una fame che pare atavica. Difficilmente sarà riuscito a percepire il sapore di quel cibo che inghiotte in uno stato di trance, cibo che anche altri meno platealmente affamati mostrano di gradire concedendosi doppie razioni come lo spartano Chiarugi che consuma due gelati Algida. La discesa verso Pistoia esalta gli amanti degli interminati spazi e la profondissima quiete mentre l’attraversamento della città è come di regola farraginoso con una serie di contorti giri-pesca, violazioni del codice della strada e richiesta di informazioni ad individui inaffidabili prima d’imboccare la strada per S.Baronto. Qui può dirsi virtualmente conclusa la tappa coi volti madidi e appagati dei corridori e la solita fuga dell’automatizzato Boldrini.

 

 

* È questo uno dei luoghi storici di ristoro dell’Empolitour che spesso diventano pretesto di percorso. Si caratterizza per una vasca piena di trote che il cliente può consumare crude dopo averle pescate con canna di bambù fornita dall’azienda. Sulla parete della vasca è possibile notare una lapide su cui è scritto a lettere metalliche LAGHETTO TROTE ed è una precisazione non del tutto pleonastica poiché la densità di pesce è tale da non permettere di capire se fra una trota e l’altra ci sia anche l’acqua.

 

 

25/06/2000 I sopravvissuti dell'Abetone

 

A causa di una partecipazione statisticamente insignificante la settima edizione della Gran Fondo dell’Abetone forse non sarà ricordata negli annali dell’Empolitour ma se non altro il rispetto della tradizione è salvo. Poche erano le adesioni ed ancor meno i partenti che si riducono a Caparrini, Chiarugi e Pelagotti con l’aggregazione temporanea dei minimalisti Boretti e Tempestini autori di una frazione di percorso fino al passo del Trebbio. Poiché le storie di ciclismo sono soprattutto storie di umanità, quando gli uomini scarseggiano, gli eventi difficilmente possono assumere risvolti romanzeschi anche se riguardano un’esperienza, a dire il vero un po’ frusta, di duecento chilometri di pedalate su e giù per tre colli. L’assenza per agonismo o ingessatura degli elementi più estrosi e teatrali della società non facilita il compito del narratore costretto ad attingere dal pozzo dei dettagli futili. Con questa premessa è ovvio che la manifestazione già in partenza si sia svolta in tono un po’ dimesso e grigio come il cielo che dava adito a previsioni acquatiche. Il ritmo delle pedalate rifletteva la vivacità del clima nonostante qualche sollecitazione dei minimalisti e di Pelagotti che appariva fin dall’inizio piuttosto arzillo. Quando ad un certo punto un carabiniere ferma il plotone e lo costringe all’esibizione dei documenti, molti temono una multa per difetto di velocità ma è soltanto un provvedimento dovuto al disinteresse per il rosso. Sulla salita del Trebbio i riduttori di percorso si permettono qualche licenza ciclistica. Boretti osa il cinquantatré per mezza salita e sale la seconda metà col passo dello scalatore del Fedaia. Tempestini tenta l’ardimento della fuga solitaria risvegliando l’orgoglio di Chiarugi e Pelagotti che lo staccano dopo averlo fatto rosolare a piccola fiamma. I tre granfondisti proseguono verso l’Abetone in abbigliamento quasi gemellare e in quasi sintonia di movimento (un terzo del gruppo si stacca sull’Astracaccio e sul Popiglio). Quando inizia la salita i ciclisti si mescolano con le retrovie dei podisti della Pistoia-Abetone, dove il termine podista va inteso come colui che avanza col solo uso dei piedi non come colui che corre. Pelagotti ha un avvio forsennato. Chiarugi segue un non meno invasato Caparrini ed accumula quasi un minuto di ritardo in quattro chilometri. Pelagotti insiste con baldanza dimostrando che i tempi delle sue famose crisi parossistiche sono ormai un ricordo remoto e Chiarugi è costretto ad una progressione inaudita per riacciuffarlo e patteggiare con lui un arrivo appaiato. Come è ormai consuetudine in questa stagione, Caparrini arriva prima del previsto limando, ma sarebbe meglio dire amputando, di dieci minuti il record assoluto di scalata. Il principio d’inviolabilità delle tradizioni dell’Empolitour impone una sosta gaudente presso la Casina Rossa anche in mancanza dei gaudenti abituali. Una rapida quanto costosa porzione di tagliatelle con funghi ed una altrettanto pregiata fetta di torta colmano di immeritati lipidi e glicidi i tre ciclisti per la semitappa del ritorno. L’ipernutrizione deprime Chiarugi ed esalta Pelagotti che diventa incontenibile e tende a staccare anche in pianura i compagni stanchi o satolli. Nel finale i sellini cominciano a fornire sensazioni di ferri arroventati ma un Cerretino bevuto anche da Caparrini a 25 Km/h non consente di usare nemmeno questa volta la parola crisi.

 

 

09/07/2000 Ricordi di un Cimone che fu

 

In una torrida domenica di luglio del 1993 l’Empolitour organizza la prima edizione della scalata al monte Cimone in preparazione di un Tour che si prospettava ricco di vette altolocate. Partecipa il 75% della neonata compagine (Caparrini, Chiarugi e Nucci) sfoggiando divise sociali fresche di conio. Il tragitto è definito secondo il palinsesto di Claudio Petrucci allora esploratore e recensore di salite a livello internazionale, fonte d’ispirazione per itinerari inusitati nonché mentore tecnico, naturalistico e cronometrico. La spedizione inizia con una pratica per la quale l’Empolitour mostrava già una consolidata maestria, la scalata di passi in macchina con biciclette esposte. Trattandosi in questo caso del passo della Collina, si può pure soprassedere sui risvolti morali di tale operazione. La tappa ciclistica consisteva in una Porretta-Monte Cimone andata e ritorno, aggredendo il gigante dell’Appennino tosco-emiliano da un versante in parte ignoto anche ai residenti. La salita è infatti costituita da sette tronconi di strada in cui la segnaletica è assente o fuorviante. Occorreva pedalare con una mano sola consultando continuamente la fotocopia della recensione di Petrucci e cercando un compromesso fra senso d’orientamento e senso d’equilibrio giacché da Fanano l’erezione stradale diventava brusca e prolungata. Chiarugi, che in quel tempo era solitario apripista d’ogni salita, riusciva a scorgere per l’ultima volta i volti madidi ed angosciati dei compagni presso l’imbocco della via di Ca’ Frati, termine che nel gergo dell’Empolitour indicherà il Cimone per antonomasia, una sorta di sineddoche topografica pienamente espressiva ed icastica. La stretta rotabile appariva ammantata di catrame misto a cacca bovina ed ovina. Quest’ultimo additivo richiamava sciami di tafani e mosche cavalline che al passaggio dei ciclisti si trasferivano in massa sulla più appetibile, seppur mobile e surriscaldata, materia vivente. Il bivio per Pian del Falco mutava soltanto l’ampiezza della carreggiata non la pendenza né l’integrale soleggiamento né tantomeno la petulante compagnia. Anzi, il passaggio davanti ad una muta di cani latranti chiusa in un recinto permetteva a forze nuove, attratte da obiettivi un po’ meno pelosi, di aggregarsi ai già popolosi sciami itineranti. Dieci chilometri in queste condizioni non scalfiscono il rigore fisico di Chiarugi che si guadagna così la seconda metà della salita, un vero e proprio avvicinamento progressivo all’empireo della ciclabilità. Lassù negli spazi iperurani egli degusta l’ambrosia dell’acqua sorgiva che scroscia dalla fontana Bedini ed attende per più di un’ora il resto della squadra. Vana spes, poiché i due pavidi, invocando la flessibilità dei principi morali di fronte alla crudeltà degli strumenti di tortura, attuano un Cimone interruptus a livello del canile e ritornano a Fanano affrontando senza rimorsi un piatto di lasagne insaporite dal molle condimento della viltà.

Passano gli anni ma l’Empolitour e il Cimone restano. La montagna è già stata più volte violata e l’onta del primo Ca’ Frati da tempo lavata con degno sudore. Gli stessi tre pionieri tornano nel tradizionale e fascinoso agone ciclistico con gambe più smaliziate e con la schiena ormai curva sotto un fardello di salite sperimentate. Ma il Cimone rimane lì, immutabile come le virtù taumaturgiche della fontana Bedini che ha il potere di dissetare anche i non assetati. La cronaca dell’evento, senza questo preliminare amarcord, si sarebbe ridotta a rare note di colore. Manca il pathos della prima edizione e soprattutto mancano l’afa e gli insetti molesti e pure il canile è stato sgombrato. La strada fluisce speditamente sotto le ruote ed una gelida brezzolina che lì per lì rinfranca, fa presagire una discesa malagevole. Chiarugi, forse corroborato da allenamenti bigiornalieri, riesce a rinverdire le antiche schermaglie con Nucci superandolo addirittura in volata mentre Caparrini serba gelosamente le forze per l’imminente Tour giungendo con placida andatura caracollante dopo quasi mezz’ora. La discesa non smentisce le previsioni. Il crioresistente Caparrini ed il previdente Nucci munito di sostitutivo devono faticare non poco per mantenere i contatti con Chiarugi avanzante per assideramento a velocità paradossa (velocità discendente inferiore a quella ascendente nel medesimo tratto di strada percorso nei due sensi). Quando arriva a Fanano anche la sua volontà è raffreddata e così cede al cospetto di una variante gastronomica di lasagna, succinta, costosa ma calda ed è costretto a ricorrere addirittura alla capacità termica di una tazzina di caffè per rianimarsi definitivamente. È inutile dire che adesso la sua consolidata leadership del partito degli stoici e spartani, già vacillante dopo l’episodio di corruzione alla Casina Rossa dell’Abetone, è virtualmente decaduta nelle mani della Bertelli che nel frattempo teneva fede alla purezza dell’ideologia soffrendo in rigorosa ascesi climatica e gastronomica alla maratona delle Dolomiti. L’avvicendamento alla carica di segretario potrebbe già avvenire alla partenza per il Tour dove il partito, sfruttando l’assenza del capo della fazione rivale, mira ad ottenere la guida dell’Esecutivo. Grandi manovre sono però attese anche fra gli epicurei che tentano di trascinare nella spedizione l’imprevedibile Boretti dimostratosi al Giro degno seguace dei principi ispirati alla bradicinesia, l’ipochilometraggio e l’iperalimentazione.

   

24/09/2000 L’alba dell’equinozio  

 Il ritorno dell’autunno offre immagini, suoni e profumi cari ai poeti di tutti i tempi ma l’uomo metropolitano, che al risveglio non può percepire l’iniziale giallore delle foglie, l’aspro odore dei mosti o gli spari crudeli dei cacciatori, deve ricorrere a sensazioni surrogate per accorgersi dello sfumato periodo di transizione fra una stagione e l’altra. Ad Empoli invece è facile riconoscere la prima domenica dopo l’equinozio d’autunno anche senza particolari competenze astronomiche. Basta recarsi in prossimità di Via Baccio da Montelupo ad osservare il passaggio dei ciclisti dell’Empolitour. L’inizio della nuova stagione coincide infatti con le rinnovate esibizioni di variegati presidi corporei termoregolatori atti a rinforzare temporaneamente i completini estivi in una frescura mattutina chiara e serena ma molesta al tepore dei corpi appena desti. Ecco riapparire pertanto i manicotti sdruciti e bucherellati di Nucci, il farsetto maremmano della Bertelli, il k-way a fluorescenza gialla di Tempestini e il sostitutivo di Boretti. Nella purezza delle loro sociali leggerezze compaiono Caparrini, Chiarugi, Boretti e Pelagotti mentre Bagnoli A. pesca dal repertorio delle uniformi asociali una maglia pezzata di teste bovine ridenti, superando con disinvoltura il duro confronto col senso del ridicolo.

La strada porta nell’empireo della Toscana fra San Gimignano e Volterra di cui nessun’abitudine residenziale potrà mai sminuire il fascino. L’animo del gruppo sembra uniformemente votato al cicloturismo e la velocità è di conseguenza quella delle tedesche in mountain bike onuste di bagagli. L’eroe delle bianche polveri, il pluricampione ippocratico e la reiterata Master-queen si cullano al piacevole vento dell’appagamento, Caparrini viaggia al perenne risparmio, Boretti invoca subito pietà e spinte e Boldrini, dopo quella degli antibiotici, gioca in anticipo la carta della debilitante vendemmia da scoprire in caso d’improvvisa défaillance. In bicicletta si può a lungo ammirare il paesaggio con occhi taciti e pensosi o creare rumorosi nuclei di discussione che lentamente tendono a conquistare la carreggiata in larghezza, ma prima o poi subentra in ogni ciclista quella connaturata pulsione ludica, quella propensione al ruzzo che si anima solitamente quando la strada cambia di pendenza. Così un quartetto di pargoli festosi e celeri (Boldrini, Chiarugi, Pelagotti e Tempestini) si scatena sui falsipiani ascendenti di San Gimignano, poi Boldrini, Nucci, Pelagotti e Tempestini osano attacchi in discesa che Chiarugi scruta in lontananza e rintuzza con autorevolezza quando il monte Voltraio annuncia le rampe volterrane intrise d’alabastro. La sua lettura d’attesa è questa volta scolpita su una stele magnificente dedicata a Leopoldo granduca di Toscana che nel 1831 con regie opere e servo sudore realizzò per la popolazione riconoscente le rinomate saline. L’arrivo della Bertelli, con un’abbacinante scollatura sul già conturbante body sociale, lo distoglie dall’intenzione di esaminare un’altra stele monumentale che alcuni utilizzano come paravento urinario. Il tempo di pastura in piazza dei Priori è breve, relativamente a quello che avrebbe potuto spendere Pagni in una piazza storica, assolata e piena di turisti. Lungo la discesa delle balze e la successiva salita di Bosco Tondo i ciclisti sono particelle che si aggregano per affinità di carica. Il desiderio comune di raggruppamento prevale sulle differenti scorte di forza e resistenza, è un modo per fondere in simpatetico silenzio i propri sentimenti con quelli dei compagni in armonia con uno scorcio di mondo che invoglia alla vita. E in uno di questi momenti di idilliaca meditazione s’ode un lieve rumore sibilante come una cicala che frinisce, una cincia che fischia o un’ape che ronza. È la camera d’aria di Caparrini che emette il suo segnale di resa prima d’afflosciarsi definitivamente causando il rassegnato sconcerto dell’ormai abituale foratore. Tutti si stringono attorno al sinistrato che, di fronte a tali ineluttabili macchinazioni del fato, medita il ritiro dalle scene ciclistiche. Bertelli lo scuote e si prodiga nello smembramento della ruota, Boldrini e Pelagotti analizzano puntigliosamente lo smembrato ordigno e Chiarugi studia l’anatomia patologica della gomma forata individuando l’eziologia del danno in un cedimento strutturale del materiale, evidentemente di bassa qualità nonostante le fattizie garanzie del venditore. Tutta questa solidarietà dura il tempo utile a riassemblare la bicicletta ed a superare il valico, poi Caparrini è lasciato solo in balia degli eventi e di Boldrini a causa della foga irrefrenabile dei discesisti ai quali si aggiunge anche il solitamente pavido cronista che al momento in cui scrive ignora il destino cui è andato incontro il presidente da Bosco Tondo in poi.

 

22/10/2000 L’ultimo sole d’autunno

 

Le scie di aeroplani mattutini espandendosi nell’aria diventano nubecole filiformi che fregiano come gesso su una lavagna adamantina un cielo altrimenti limpido e omogeneo. È il degno e tradizionale scenario autunnale che accompagna dieci ciclisti nella cosiddetta classica di chiusura fra le colline del Chianti. In realtà nell’Empolitour, secondo un principio che somiglia a quello di Lavoisier, nulla si apre, nulla si chiude, tutto si ripete. L’attività sociale è infatti annoverabile fra i fenomeni periodici più regolari del sistema solare, come la rotazione dei pianeti sul proprio asse o la rivoluzione degli stessi attorno al sole. È pur vero che, come scrisse Eraclito, tutto scorre e non ci si bagna mai nello stesso fiume, ma se l’uomo è stato capace di deviare anche imponenti corsi d’acqua, nessuno in un decennio è riuscito a modificare un sol metro di questo percorso ormai destinato a lunga conservazione.

Forse tutti non sanno che il giro del Chianti ha origini nel paleociclismo dell’era pre-Empolitour, quando nel 1988 Nucci era scalatore del rango delle tedesche zavorrate e Chiarugi mangiava e beveva come un normale mammifero. Allora si affrontavano il San Giovanni all’inizio e il San Gimignano alla fine, salite che alla luce di un altro principio consolidato, quello di spianamento, furono subito cassate nella prima edizione datata 1993. Erano i tempi in cui esisteva ancora il ciclista estinto Santini, capace di scatenare la bagarre sulla salita di Radda e di esibirsi in duetto con Lambruschini sull’aria di “Tre settimane da raccontare” scendendo a passo di pennichella da Castellina a Poggibonsi, un passo imposto da una sosta ipercalorica al Bar Italia a base di lasagna precotta, panino bisunto e coca cola. La somma di cotanti flemmatici uffici portava a concludere il giro in circa otto ore lorde. Vennero poi edizioni più ipercinetiche e ipocaloriche, come la presente e viva, giunte a compimento in poco più di cinque ore al netto di pedalata.

È dunque un copione già recitato, ma ci sono film o opere teatrali che per il loro pregiato valore artistico si possono rivedere un numero illimitato di volte anche se la trama è nota, e quest’anno la commedia si è svolta in sei atti con dieci attori.

Atto Primo.                     Caparrini attende al varco nove proseliti: il mattiniero Chiarugi, l’elegante Bagnoli A., il debilitato Nucci, il redivivo Bagnoli L., l’autunnale Tempestini, l’estivo Boldrini, l’imbacuccato Boretti, il depilato Pelagotti e la ritardataria Bertelli. L’ombrosa frescura della Val di Pesa si stempera al ritmo di danza lenta delle gambe e di vivace articolazione delle lingue.

Atto Secondo.             Il primo raggio di sole penetra come un riflettore fra la cornice frondosa del Chiesanuova ed illumina l’area lisa dei famosi pantaloncini voyeuristici della Bertelli. Anche questa è un’immagine spesso proiettata e mai monotona forse perché esemplifica una caratteristica essenziale della seduzione, basata più sulle trasparenze che sulle nudità, più su ciò che s’intravede che su ciò che palesemente si vede. La platea maschile di fronte al prodigio di un culo femminile che sublima la sua scultorea anatomia in un dinamismo perfettamente sincronizzato, ha reazioni consone all’indole di ciascuno. Si va dagli apprezzamenti verbali ripetuti di Bagnoli A. e Pelagotti alle contemplazioni prolungate ma silenziose (Chiarugi) o alle sbirciatine fugaci e talora ammiccanti (Tempestini) fino ad apparenti espressioni d’indifferenza (Caparrini). Dal canto suo l’avvenente esibitrice preferisce anteporre l’intima comodità dello sfibrato indumento al convenzionale senso del pudore che da sempre vieta il pubblico godimento dell’arte insita in certe innocenti parti del corpo.

Atto Terzo.                     Vi sono molti modi di andare in crisi e Bagnoli L. sceglie quello più razionale. Sa che con 30 chilometri mensili di allenamento non può percorrerne indenne 150 e decide all’improvviso di eclissarsi con discrezione cercando di passare inosservato. Si lascia così pervadere da un rilassato decadimento sulla salitella di Radda ed osserva privo di turbamento il gruppo che fugge pur senza accelerare. La forza della memoria atletica lo sospinge e lo preserva dalla resa. Non si nota in lui il tipico cedimento strutturale dei corridori in crisi, sale piano ma con signorilità senza movimenti coreici del corpo o respirazione rantolante. Mantiene quella compostezza e quella stessa velocità inferiore ai 10 Km/h che fu di Bugno sul Fedaia o sul Mortirolo. Chiarugi, che tenta di stargli vicino, lo stacca ad ogni attimo di distrazione coi soli movimenti involontari delle gambe.

Atto Quarto.                 Continuano le sommesse soste-Pagni senza Pagni (corre però voce che l’esimio epicureo sia tornato inaspettatamente in gruppo con un amico bradicinetico a cui conferire l’imbarazzante ruolo di ultimo atteso sulle salite). I suoi diadochi profondono un lodevole impegno per inseguire le gesta del condottiero magno, ma si vede subito che mancano di quell’innato senso della consumazione ispirata, di quel repertorio di colpi ad effetto che è difficile acquisire col solo allenamento. I vassoi del Bar Italia restano tristemente leggeri e il pezzo più apprezzato è un esile panino a forma di savoiardo denominato donzella. L’egro fanciullo Nucci denuda le sue scarne membra soltanto a richiesta ma qui il maestro avrebbe sicuramente estratto qualche untuoso flacone per catturare sulla pelle in via di scolorimento questi ultimi riflessi d’estate.

Atto Quinto.                  Quando inizia la lunga e pedalabile discesa verso Poggibonsi, Caparrini proclama come sempre i suoi intenti contemplativi e come sempre in pochi gli danno retta. Fred Buongusto è ormai un lontano ricordo e la Bertelli quando sente la bici scivolare via di moto proprio, dimentica le doti canore per indossare l’armatura della donna proiettile. Il suo impeto propulsivo sprona una folta schiera di seguaci che asseconda la forza di gravità con un frenetico susseguirsi di pedalate lungo le convolute traiettorie della strada. È un’occasione per giocare agli scatti e alle rischiose virate, e alla fine la spunta Pelagotti divenuto più aerodinamico dopo il trattamento di diserbatura delle gambe.

Atto Sesto.                      Da Poggibonsi ad Empoli mancano ancora poche immagini: Bagnoli A. a braccia conserte, Bagnoli L. di vigore rinverdito, Bertelli su un sellino di spine, Boldrini con aria depressa, Boretti col sudore negli occhi, Caparrini cogli occhi sull’orologio, Chiarugi cogli occhi assenti, Nucci cogli occhi risvegliati, Pelagotti cogli occhi appagati e Tempestini cogli occhi sulla ruota a tirare. L’usitata conclusione dell’opera è tutta in questo treno silenzioso di biciclette che va veloce verso il ritorno, tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore.

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