26/12/2001 Il Mezzogiorno
di pioggia
Funesto a chi pedala parrebbe il dì Natale.
S’aspettano ciclisti venire d’ogni dove
e invece c’è chi dorme, chi ingrassa, chi sta male
e chi sfogliando un fiore dice: “Piove, non
piove..”
Il campanile scocca
le otto e ventinove.
“Siam soliti partir se il clima è molto peggio,”
sentenzia Caparrini “non starò digiuno!”
Ecco Bagnoli Elle con bici da passeggio,
Chiarugi, Tempestini, Pagni e più nessuno.
Il campanile scocca
le otto e quarantuno.
Col cielo grigio e nero vestito è Tempestini.
Può diventar la via ben presto un acquedotto
così Bagnoli svicola in via dei Cappuccini
mentre Chiarugi incuba in un denso fagotto.
Il campanile scocca
le otto e quarantotto.
Chiarugi, si diceva, che pare donna afgana,
confabula con Pagni come due seri medici.
“Se indossi il cappellin la pioggia sta lontana.
Ti prego non lo toglier, o Caparrini, credici!”
Il campanile scocca
circa le nove e tredici.
Si va fin a Certaldo con riti e con scongiuri.
Asciugan pur le strade quest’augurali preci
e sol le biciclette s’ornan di schizzi impuri.
“Stolto fui” dice Pagni “che ripulir la
feci.”
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
Poi spicca addirittura sopra gli asfalti intonsi
un prodigioso lembo d’orizzonti lucenti
mentre il lento quartetto lambisce Poggibonsi
commiserando in coro l’assenza degli assenti.
Il campanile scocca
circa le dieci e venti.
Consolati Caparrin del tuo pellegrinare!
Là c’è San Gimignano ornata di trofei.
Al bar della Cisterna potremo riposare
ché troppo stanchi siamo e troppo stanco sei.
Il campanile scocca
le undici e zero sei.
“Oste della cisterna, non ci guardar dal vetro.
Esci, ché siam clienti e non stiamo più in piè!”
“Esco, ma state attenti che il cielo si fa tetro,
nero lo troverete come i vostri caffè.”
Il campanile scocca
le undici e ventitre.
Malgrado i buoni auspici Caparrini si toglie
il cappellino giallo d’assai vetusta foggia.
Ad Empoli ritornan tre infradiciate spoglie
ma Chiarugi a Castello asciuttamente alloggia.
Il campanile scocca
Mezzogiorno di pioggia.
16/12/2001 Deliri
Delirare significa uscire dal solco (lira in
latino) e in questa accezione etimologica oggi abbiamo assistito ad un’ora di
delirio dell’Empolitour. Tutti la conoscono come squadra razionale, retta da
un presidente, che non guarda mai le stelle quando spinge l’aratro per non
deviare dalla linea di base, e da un vicepresidente responsabile tecnico che
soppesa sempre le granaglie dei suoi magri allenamenti per timore di overdose.
Eppure il vento soffia ancora e invece di raffreddare
le idee, scompiglia la mente spruzzando via la torbida schiuma
dell’inibizione. Rampollano così pensieri selvatici che risalgono fino alle
sorgenti del ciclismo dove dormono ancora le strade sterrate, affascinanti perché
ispirano a guardarle ed a sentirle sfrigolare sotto le ruote troppo fini, un
sentimento antico di nivea verginità. Quando poi entrano in una piccola
porzione di bosco, sfiorano ameni casolari e minuscoli castelli, o si
restringono fra muriccioli incolti, allora subentra nel petto, insieme alla
polvere, qualcosa d’immateriale che avvolge il cuore e lo rallenta, quasi a
voler dare al tempo un delicato colpo di freno.
Basta un poco di questo magico pulviscolo e la
tristezza va giù; nel delirio si perdono di vista i nessi logici, i pensieri
stagnanti e malinconici, le brutture del mondo e dell’anima, i desideri
inappagati e le disillusioni. Sono strani chilometri di regressione nel tempo e
nello spirito che incidono parole nuove sui monoliti della normalità e
raschiano via dalle nostre armature qualche scaglia di granito, poche per aprire
l’anima al calore della felicità assoluta, ma abbastanza per concederle
almeno un sollievo temporaneo che può chiamarsi sorriso, che può vestirsi di
parole o di sguardi simpatici, che può asciugare i sudori profondi e
invisibili, pur lasciando ben visibili quelli superficiali e salini. Perché
queste strade, tanto poetiche, si dimostrano, ad una disamina meno
introspettiva, una successione martoriante di rampe con due cifre fisse di
pendenza e con una ruvidità che tanto solleva l’anima, quanto abbatte con
vibrante irregolarità la spedita abitudine di questi teneri mezzi a pedali, che
in ambienti così inospitali fanno la figura dei tacchi a spillo sugli scogli o
del vestito da sera al mercato del pesce.
Così va il mondo e l’Empolitour: una deviazione a
destra dal solco della Cassia, per una filastrocca di paesi dei puffi, Cinciano,
Tignano, Spicciano, ha potuto mutare l’umore della mattinata, lanciata verso i
soliti temi del vento, del freddo delle salite use e fruste, della pace dei
sensi agonistici, delle boutique di dolci rigonfi di mollizia. Lo sapevano tutti
che una strada incognita proposta dal cattivo consigliere Chiarugi, è un
preludio certo a strappacci e/o sterrato, eppure hanno voluto ugualmente
delirare dietro di lui e farsi inghiottire nel vortice della fantasia, quasi a
desiderare, senza lasciarlo troppo intendere, un sorso di alcolica ebbrezza
dell’ignoto invece della solita acqua fresca da borraccia, che stavolta hanno
voluto metaforicamente versare per terra prima di cominciare la salita. È
giusto quindi che si siano ritrovati tutti e sette in fila per uno, a spingere
appiedati le bici inadeguate fra i sassi puntuti, lungo un diciottopercento di
rampa sconnessa, mentre sul culmine li attendeva sciolto un bel cagnone
abbaiante, sulla cui mansuetudine nessuno avrebbe potuto lì per lì
scommettere. La sua padrona, dalla finestra di un’abitazione rurale simile a
fortilizio medievale, ha così potuto passare in rassegna gli umori nascosti
negli attoniti volti di quegli inaspettati visitatori.
Ha visto sfilare la Bertelli gaia e vermiglia mentre
gridava parole di patteggiamento al cane, poi Nucci con ruote novelle e
luccicanti degnamente incignate, Chiarugi con l’espressione di simulata
mortificazione sopra un nocciolo di perfida soddisfazione, Pelagotti che lo
guardava con un non so che di bieco divertimento, Caparrini che tentava di
rassicurare sull’irripetibile eccezionalità dell’evento i due neofiti
Baricci e Giunti i quali, ingobbiti ed ansimanti in un ambiente tanto nuovo ed
ostile, riuscivano a salvare l’onore senza attribuire epiteti inclementi al
fautore dell’itinerario, capace di scandire in tempo reale gli alti numeri del
suo invidiatissimo pendenzimetro nel concerto delle altrui sofferenze.
Tutte le strade, lisce o rugose che siano, portano
ovviamente ad un bar, nella fattispecie un atelier di paste
ipercolesterolemizzanti di Tavarnelle che riconduceva il cammino sulla retta
consuetudine. Il delirio poi svanisce sulla via del congedo, percossa dai soliti
venti ed eventi del sentimento quotidiano, quelli che ti aspettano immutati
dietro la curva, quelli che percepisci solo se ti soffiano in faccia e che
diventano inavvertiti, quasi un atto dovuto, se cambiano direzione. C’è chi
pedala sugli asfalti levigati col vento alle spalle e professa comunque la
propria fatica, e c’è chi farnetica sulle strade ruvide e si compiace della
propria abilità, senza capire che sui sentieri difficili e secondari non troverà
nessuno ad accompagnarlo, mentre la via maestra della normale felicità è
larga, bitumata e molto trafficata. Beati coloro che non hanno bisogno di
delirare per essere felici, perché di essi è il regno della normalità.
09/12/2001 Nel
vento e nell’anima
Raffiche di tramontana vanno a scavare profondi pertugi nei corpi imbacuccati e strappano via brandelli d’anima che s’incastrano tra i raggi, come sacchetti vuoti lanciati al rifornimento durante una gara, oppure sorvolano i caschi per terminare appesi fra i rami stecchiti dei platani marcati di rosso e di bianco lungo la strada maestra.
I ciclisti di oggi hanno anime dure e protette dentro
le livree invernali, ma per molto tempo chiudono le parole a chiave
dall’interno, quasi a voler coprire i buchi vuoti che restano nell’anima
dopo ogni ventata. Confrontano questo respiro gelido e affannoso dell’aria con
gli aliti tiepidi e timidi che nascono dai cuori e che nei cuori vorrebbero
serbare per riscaldarli. Nascondono gambe diverse sotto fasciature spesse di
tessuti pregiati che regalano a tutte le cosce una specie di glabra obesità e
rendono equanime alla vista superficiale la tonicità dei polpacci, mai così
uguali, mai così vicini.
È difficile vedere questi frammenti d’anima che
sprizzano via dopo ogni sferzata del cielo terso, ma si capisce che i ciclisti
ne avvertono la privazione dai loro volti che improvvisamente perdono il sorriso
e si colorano ora di rosso, ora di bianco, come le placche rifrangenti degli
alberi. Il vento a tratti illude, poi senza preavviso affonda il colpo mentre il
corpo è ancora caldo e irrorato dalle lacrime di qualche singulto di fatica. Il
vento suona i peli delle guance incolte di Baricci e Boretti, rimbalza sui lombi
esuberanti di Caparrini e Pelagotti, sibila tra i radiosi denti di Tempestini,
affila le ossa scarnificate di Chiarugi e Nucci e penetra nei bronchi arrossati
della Bertelli. È un bel concerto di fiati e catene fra i pensieri ondulati
della terra, chiamati salite, che sono brevi, a volte istantanei, ma diventano
una lunga riflessione alta più di mille metri se si concatenano uno sopra
l’altro. In mezzo a tutte queste vibrazioni spirituali, i desideri muscolari
non spirano minimamente nei petti degli atleti. Almeno in questo quartiere
dell’anima regna un’innaturale bonaccia, soprattutto perché viene a mancare
colui che è addestrato a scatenare sobillazioni e sommosse atmosferiche,
ovvero, è inutile dirlo, il tifone Boldrini. È partito insieme a tutti e dopo
venti chilometri ha deciso, come i venti costanti, di non voltarsi più. Lo
hanno rivisto al giro di boa di San Donato in Poggio dove, senza fermarsi ma con
un senso di apprezzata puntualizzazione e rispetto degli impegni, ha fissato
data e ora precisa della prossima occasione in cui sarà possibile vederlo
partire (sabato a un quarto alle due).
Oggi i ciclisti hanno preso molta tramontana.
Boldrini l’ha invece perduta come fece il cantante Antoine, per il pizzo di
una sottana, forse per quello della giovine sposa. Meglio non indagare nei
penetrali delle altrui intimità, ma tutti hanno l’impressione che Boldrini
necessiti di un provvedimento urgente di formattazione, con successiva ricarica
di un programma gestionale più aggiornato e meno scorbutico. Intanto noi
proseguiamo indefessi nel nostro ciclismo metaforico e metafisico, senza
vertigine e sudore, dove si pedala su un sellino di nuvole che si alzano e si
abbassano ma non portano mai l’affanno della troppa elevazione in cielo o del
frenetico inseguimento dello spazio.
Queste pedalate senza luogo e senza segni
particolari, che in apparenza dovrebbero rimescolarsi nei labirinti della
memoria, ora sappiamo che invece lasciano una traccia unica e indelebile di una
felicità silenziosa che si oppone col medesimo vigore alle intemperie del tempo
e dell’anima. E se la pensate diversamente, c’è sempre qualcuno che vi
aspetta sabato a un quarto alle due.
02/12/2001 Sorpassi a Ruota
libera
“Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e
senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d'un bigio ceruleo, che, giù giù
verso l'oriente, s'andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù,
all'orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra
l'azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d'una striscia quasi di
fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno,
altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s'andavan
lumeggiando di mille colori senza nome…”
Manzoni ci perdoni se gli copiamo un’alba, ma era
proprio così quella di oggi. Non tutti i ciclisti forse l’hanno veduta, perché
alle 8.30 i colori prendono già un nome proprio, oltre al bianco e al blu delle
divise sociali. Ignari del cromatismo perduto, in dodici hanno volto le spalle
alla striscia quasi di fuoco puntando le ruote verso Ruota dove soffiavano gli
alisei di una sfida annunciata. C’era bisogno di un’introduzione lirica
perché ora si dovrà decadere nell’ineluttabile pragmatismo della cronaca di
dispute intestine, dove la poesia sarà stritolata nelle fauci narrative di
Boldrini. La salita di Ruota gli aveva gonfiato di speranza le carni massicce.
Nella sua anima artificiale molti compagni avevano attizzato l’ardore sopito
nella fredda realtà delle recenti battute d’arresto, Caparrini primus
inter pares, perché, da buon presidente, egli ama rinfocolare le braci
agonistiche dei suoi atleti, per riscaldarsi sulle fiamme altrui, dalla sua
agiata posizione di pedalatore contemplativo. È come se avesse bisogno
continuamente di aggiornare il registro delle gerarchie scalatorie con qualche
compito in classe, come questa salita ricreazionale, vile compromesso tra
desiderio d’elevazione montana ed adeguamento agli usi e costumi dei ciclisti
di razza che in questo periodo
consigliano strade piane e rapporto fisso.
Boldrini, insomma, memore della supremazia perpetrata
domenica scorsa ai danni delle seconde schiere, si propone di risventolare la
stessa vittrice bandiera anche coi rientranti Chiarugi e Nucci
che effettivamente lasciavano trasparire i lamenti d’una sfrenata
attività podistica. A San Gimignano aveva staccato di venti metri un Pelagotti
sovrappeso e fuori forma, ed ora bramava, sulla scorta di chissà quale
paralogismo interiore, di castigare i due gerarchi filiformi ed allenati. His
fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, Boldrini parte spavaldo senza
precauzioni. Tanto si sente forte che non ingurgita nemmeno la sua abituale
razione diluita di polveri piriche e perciò piscia una sola volta sulle sponde
del Canal Rogio, all’ombra del Monte Serra dove s’annida la salita di Ruota.
Qui si decide di dare all’evento una nota inusitata
di spettacolarità, la partenza a handicap dei bravi, come Pantani ad Oropa. I
tre principali contendenti si fermano e concedono alle truppe di abituale
retroguardia, capitanate da Pelagotti ed illuminate dalla Bertelli, un vantaggio
di svariati minuti. Pagni, che non capisce al volo le regole del gioco, si ferma
pure lui con Nucci e Chiarugi e ne approfitta per immortalare la scrosciante
minzione di Boldrini. Con questo scatto fotografico Pagni compromette la
possibilità di scatti ciclistici, posto in mezzo alla palpabile tensione della
tenzone. Il trio infatti lo semina secondo logica, quando la strada acquisisce
un sapore amarognolo e le bici s’inclinano sempre di più. I tre sguardi
s’incrociano furtivamente: Chiarugi coglie in un sol tempo l’indugio di
Nucci e il fiatone di Boldrini e si libera di loro nell’inviluppo serpiginoso
della salita. La sua rincorsa solitaria diventa ora una telecamera sul gruppo
fuggiasco e sparpagliato. Vede per primi Boretti e Baricci che hanno in comune,
oltre all’assonanza dei cognomi, anche un’andatura che mette a dura prova la
discriminazione fisica fra stato di quiete e di moto. Sul tornante successivo,
stranamente umido come se fosse piovuto, entra nel passo pacato e conversevole
di Caparrini e Giunti e nota che il presidente è irresponsabilmente privo della
inseparabile fascia-turbante frontale che protegge la strada dalle sue
inondazioni. Dietro ad ogni curva c’è un ciclista nuovo, questa volta tocca
al bikers Busoni che gli porge una mano come segno di saluto ed invito al traino
all’americana. Questo giochino dei sorpassi sta diventando proprio divertente.
L’odore di Boldrini è ormai lontano, anche Nucci lo sta rifuggendo. Ecco la
Bertelli, che vista da tergo invoglia all’accellerazione. Giusto premio per il
sorpasso e la supremazia, un fuggevole pizzicotto ad una sua glutea asperità.
Dovrebbe mancare solo Pelagotti e c’è una sagoma ondeggiante alle porte del
paese. La raggiunge e scopre invece che è Tempestini di cui aveva perso il
conto e che non ci sta a farsi riprendere, svicolando fra un quadruplice filare
di fedeli uscenti da messa.
Sulla piazzetta d’arrivo sta Pelagotti con aria
beata e canzonatoria. Rivendica il suo primato come sacrosanto, handicap o non
handicap ed ha ragione, perché se i forti avevano l’handicap del tempo lui
aveva quello della massa, e siamo pari. Con questa fuga le sue quotazioni sono
cresciute inopinatamente insieme al suo peso. Dal grosso degli 85 chili guarda
con commiserazione Chiarugi, 13 gradini più sotto, sventolando il minuto di
distacco inflittogli. Chiarugi da par suo lo squadra: con l’abbigliamento
invernale è difficile capire dove in Pelagotti finisca l’imbottitura
artificiale e cominci quella naturale. In mezzo a questo scambio di cortesi
osservazioni arrivano tutti gli altri, anche Boldrini piuttosto scornato. A
Ruota sognava di fare la ruota come un pavone ed è stato spennato. Così
implume fa quasi tenerezza, viene voglia di consolarlo e Dio perdona tante cose
per un’opera di misericordia. Con le bici appoggiate al muro siamo tutti più
buoni e si ridiventa un’unica anima che si stringe dentro le anguste mura del
bar centrale ed unico di Ruota scolpito a misura del suo paese, con le crepe
istoriate di fiori e coccinelle e due bacheche piene di immagini e poesie ed un
curioso annuncio immobiliare con richiesta esplicita su carta a quadretti di una
casa in affitto a nero.
Tre foto ecumeniche per suggellare il tempo e lo spazio vissuto in questo paese che sale, minuti di raccoglimento che precedono un ritorno a ritmo nevrotico nel territorio lavorativo di donne nere e silvane. L’Empolitour può redimere. Verrà il giorno in cui queste ragazze, ispirate da tanti bei ciclisti visti sfrecciare con eleganza e portamento, si libereranno dalla schiavitù e con le loro prosperose cosce pedaleranno fino a Ruota per ammirare la foto dell’Empolitour esposta tra i cimeli del bar centrale ed unico.
P.S.
Oltre
alla bellissima descrizione dell’alba al risveglio di Renzo sulle rive
dell’Adda, ci sono altre due citazioni nascoste, tratte da I Promessi Sposi.
Chi riesce ad individuarle, specificando gli episodi cui si riferiscono, riceverà
in omaggio una ruota con rapporto fisso 44x18 offerta dalla ditta Brando.
25/11/2001 La
fata ignorante
Gli uccellini nel vento non si fanno mai male, hanno ali forti e zampette delicate che usano per posarsi, mai per correre. Quelli che corrono sono galline o pinguini. Così i ciclisti, tanto gentili e pieni di grazia quando s’involano nell’apparente dualità della loro anima muscolare e ferrigna, tanto goffi e indolenziti quando cercano di esprimersi come unità propulsiva a contatto con la Madre Terra. Ciclismo e podismo come Scilla e Cariddi, si guardano dalla loro comune matrice aerobica ma non si toccano, anche per questioni di castità.
Accadeva così anche nell’Empolitour, dove la corsa sembrava una virtù riservata all’eclettico Chiarugi, capace di saltare disinvoltamente da una sponda all’altra, o a qualche figura dell’antica mitologia, come Pagni alla maratona di Venezia, o a qualche atleta usa-e-getta, come Castiglioni alla maratona di Firenze. In tempi più recenti Nucci aveva tentato di recuperare il terreno poco calcato, riuscendo a collocarsi nelle classifiche di alcune gare paesane fra gli infortunati e le donne veterane, mentre Caparrini continuava ad incamerare rotazioni bisettimanali sul tartan dello stadio Castellani trapunto di stelle. Ma questo, tiene a precisare il presidente, non è podismo bensì atletica, un tipo di corsa nobiliare ed elitaria che si caratterizza per l’assenza di fango sulle scarpe e di cani mordaci sciolti, non certo per la velocità giacché, a giudicare dai tempi dichiarati, Caparrini troverebbe collocazione di merito fra le donne veterane non obese e le obese.
Ma tutti aspettavano l’esordio della fata ignorante. La Bertelli ignorava il piacere dell’impatto e dell’impeto sul suolo, i suoi piedini fatati la tenevano in simbiosi con gli ingranaggi della sua anima d’alluminio che la cullava in voli angelici contro il vento; i suoi glutei statuari, modellati per trasmettere alla sella una potenza mascolina, quando erano abbandonati alla gravità sembravano regredire, pur senza perdere alcunché in seduzione, ad uno scomodo ruolo di pesanti zavorre, col risultato che ogni passo era vissuto con molto stile ma anche con molta doglia. Poi gli esempi più o meno virtuosi dei suoi compagni di pedale solleticarono forse in lei una cert’uggia. La terra la chiamò e la sventurata rispose.
Chiarugi la vide indossare le sue prime scarpette gommose e poi tentò di instradarla all’arte di cui si sentiva esperto, ma si accorse ben presto che fra lei, lui e la corsa c’era sempre un dentista, una ginecologa, una zia da accompagnare alla COOP, un falegname, la dottrina del figlioletto, la tettonica a zolle, il principio di esclusione di Pauli o la ricerca dei neutrini solari. Eppure corre. L’hanno vista da sola o in cattiva compagnia zampettare allegramente col busto un po’ proteso in avanti per bilanciare il contrappeso delle seducenti zavorre. Ed oggi si è presentata alla partenza della mezzamaratona di Firenze con Chiarugi, Nucci ed un oceano di paia di gambe. Per Chiarugi era l’unica occasione di vederla correre e così, dopo aver tagliato il traguardo, si è messo a risalire la corrente. Ha prima scorto Nucci scarnificato dopo una gara di sorpassi, dati all’inizio e ricevuti alla fine. Ha corso dentro un sacco di nailon contro una fiumana sempre più impetuosa, gli sono venute incontro tutte le generazioni podistiche, tutte le tipologie femminili e poi finalmente ha raggiunto la Bertelli, scortandola nel suo incedere ovattato e flemmatico.
La fata ora non ignora. Ha conosciuto il piacere della terra, ha scoperto che la corsa non toglie fiato per le relazioni sociali, ha regalato il suo charme itinerante a donne, uomini e cantanti. È arrivata sotto l’arco di trionfo gonfiabile di Piazza Santa Croce grondando dai capelli un sudore imperlato di felicità. La ricerca della felicità passa anche per cieli inaspettati ed ora quello podistico ha acquistato una stellina, lenta ma luminosa, senza togliere brillantezza al firmamento ciclistico.
Tutto questo è molto bello. Ma Boldrini dov’era? Non possiamo concludere un racconto senza nominarlo. A San Gimignano è stato capace di giustiziare un plotoncino di sei innocenti capeggiato dal volitivo ma ancora inconcludente Pelagotti. Quando Boldrini si è accorto di essere circondato da avversari teneri, si è scrollato di dosso tutta l’indolenza dei giorni addietro e li ha crudelmente consumati uno per uno. Ora si mormora che anche lui si sia lanciato coi suoi coscioni transgenici sul set del podismo. “Ahi dura terra, perché non t’apristi?”
18/11/2001 Dopo la presa di Giro
Piovigginando sale, nonostante tutto, la voglia di
pedalare, anche se gli irti colli sono un bonario Palaia e un tollerabile San
Vivaldo da Iano ed anche se negli aliti dei tredici ciclisti c’è poco odore
di competizione e molto di contemplazione. È una sana miscela per formare un
mattino di pura esercitazione accademica, dove la natura taciturna di questi
luoghi imprime nelle gambe già predisposte all’ozio un irresistibile afflato
di silenzio e requie. Ma il Tour è vicinissimo e il Giro è incombente.
Quell’inverecondo itinerario da crociera terrestre che la Gazzetta ha
presentato or ora, non lascia adito a commenti. Penna non scrive, cuore non
duole. Evitiamo, per decoro linguistico, lo sfogo di Fantozzi contro La
Corazzata Potemkin e cerchiamo di costruire almeno per l’Empolitour un
Giro che emerga dalle macerie della fantasia di questi emeriti organizzatori di
tappe. Se le strade ci deludono bisogna investire le nostre speranze sugli
uomini e tastare il polso fin da ora ai potenziali partecipanti. La tappa di
oggi, pur nella sua aurea mediocrità, ha comunque offerto alcuni spunti umani
interessanti in proiezione futura. Vediamo in ordine alfabetico l’andamento
delle loro quotazioni borsistiche.
Bagnoli L.
Sta
pedalando con paurosa regolarità. Tutte le sue soglie decisionali idrometriche
si sono miracolosamente alzate fino a tollerare cieli plumbei ed asfalti
umidicci. Di questo passo tornerà a partecipare anche al Tour.
Baricci.
È
l’ospite pelagottiano che sta acquistando assiduità, allenamento e forse
anche una divisa sociale. Oggi ha pure subito la prima intervista della Bertelli,
una specie di rito iniziatico per tutti gli esordenti maschi nel gruppo.
Bertelli.
Dopo
alcuni miserandi allenamenti podistici, per altro in complicità con un
praticante di dubbia competenza, si pensava di vederla sparire dalle grazie
delle due ruote. Invece a Iano è andata in fuga staccando financo Boldrini.
Boldrini.
Sta
regredendo pian pianino verso uno stadio larvale. È abulico, indolente,
areattivo. La mano deficitaria che ogni tanto lascia ciondolare dal manubrio,
non può giustificare questo tracollo. Ci serve subito uno psicologo
specializzato in ciclisti artificiali e transgenici.
Boretti.
Dentro
un fagotto di indumenti invernali traspare la sua naturale facies cadaverica e,
per la sua naturale imprevedibilità, siccome tutti aspettavano i suoi attacchi
paradossali, è sempre rimasto bel bello nel ventre del gruppo.
Caparrini.
Dopo
qualche inconscio colpo di testa nelle precedenti settimane, è tornato al ruolo
abituale di moderatore e chiudipista. Il rischio di miglioramento atletico pare
proprio scongiurato.
Chiarugi.
Gli
basta anche una salita senza sale per fare selezione. È d’uopo la classica
domanda relativistica: è lui che evolve o gli altri che involvono?
Giunti.
Si è
visto solo per metà percorso ma ha comunque offerto un’altra prova di
perseveranza che prima o poi frutterà qualche ricompensa in termini atletici.
Nucci.
I
sofisti erano in grado di enunciare la rigorosa dimostrazione di una tesi e
subito dopo quella della sua antitesi. Chiarugi dimostra che il podismo fa bene
al ciclismo, Nucci l’esatto contrario.
Pagni.
Dimostra
che la vela fa bene al ciclismo e già questo assai ci turba. In salita tiene le
ruote dell’indiavolata Bertelli e va a staccare anche lui la larva Boldrini.
Poi mangia un etto di lardo di Colonnata e stacca tutti. Da oggi il ciclismo
cessa di essere una scienza esatta.
Pelagotti.
Non
può cavarsela con un colpetto di mano sul Palaia. Lo volevamo vedere a Iano con
Bertelli, Nucci, Chiarugi e Pagni che a turno fuggivano dalle grinfie di
Boldrini. Cerca di risollevarsi dal grigiore con una pasta ridondante di
cioccolato, ma è troppo tardi.
Pucci.
I
suoi regolari tentativi di cadere in crisi esplosive continuano ad avere
successo. La sofferenza non lo abbatte. Flector sed non frangor. Avanti
così, che la prossima esplosione può essere quella della maturazione atletica.
Tempestini.
Non
si sa cosa abbia sciolto nel caffè di San Vivaldo o di cosa fosse impregnato lo
stuzzicadenti. Dopo 60 anonimi chilometri è rimontato in bici con uno strano
sorriso sardonico ed è fuggito insieme a Pagni, che pareva non meno brillo di
lui.
Il presidente cominci a coltivare con cura questo
nocciolo di candidati per le grandi corse a tappe. Mancano 25 settimane al Giro
e, come lui ama ripetere, alla media di 25, un’ora; alla media di 50,
mezz’ora; alla media di 100, un quarto d’ora.
04/11/2001 Chianti col
botto
Gemmea
l’aria, il sole così chiaro
che
tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e
del prunalbo l’odorino amaro
senti
nel cuore…
Ma
secco è il pruno, e le stecchite piante
di
nere trame segnano il sereno,
e
vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra
il terreno.
Silenzio,
intorno: solo, alle ventate,
odi
lontano, da giardini ed orti,
di
foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda
dei morti.
È bene lasciar descrivere ad un vero poeta il
contorno climatico di questo sospirato Giro del Chianti, sia perché Pascoli con
questo Novembre sembrava lì, in Via Baccio da Montelupo a guardare ed
annusare il cielo, sia perché il vile narratore sociale, dopo gli eroicomici
accadimenti di Ognissanti, si trova in riserva d’ispirazione ed ha bisogno
anche lui di qualche spinta.
Quest’aria estiva è davvero fredda ma non ci sono
morti; l’andatura del gruppo, a dire il vero, sa ogni tanto di funerale ma
mediamente si mantiene decorosa per quest’Empolitour di fine stagione ed anche
i due disattenti che cadono per difetto di velocità si rialzano frastornati ma
con prognosi non infausta.
Si può inquadrare la schiera dei partenti nel tema
della previdenza, sentimento sociale quanto mai vario. Previdenti sono:
1)
Caparrini che reca in mano un mazzolin di rose e di brugole, compresa
quella di numero trascendente, acquistata, contro il volere di Brando, a 1850
lire presso il museo internazionale di pesi e misure di Sevres, dove è
conservato anche il metro di platino-iridio.
2)
Bagnoli che sembra aver messo la testa a posto e, dopo la quinta uscita
festiva consecutiva (record assoluto di perseveranza) si salva con grazia dalla
rievocazione annuale della crisi illuminata sulla salita di Radda.
3)
Boretti che si veste con quattro piani di tessuto e butta via
l’indumento più esterno ad ogni incremento di due gradi di temperatura.
4)
Nucci che, quando decide di ruzzolare per terra si toglie il casco, e può
così sperimentare il coefficiente di abrasività sull’asfalto del proprio
cuoio capelluto.
5)
Chiarugi che si toglie dalla ruota di Nucci prima che egli si tolga il
casco.
Imprevidenti sono:
1)
Bertelli che si ritrova alla ruota di Nucci quando il previdente decide
di portare il casco dalla testa al manubrio e poi si ritrova seduta sul ciglio
della strada in piena amnesia retrograda.
2)
Tempestini che porta la cilingomma ma non lo walkman per sintonizzarsi
sui 103,3 Mhz di Isoradio ed evitare i caselli autostradali più intasati quando
decide di tagliare il percorso con Boretti.
3)
Giunti che non porta la chitarra che sarebbe stata utile nei numerosi
momenti di rallentamento e silenzio.
In una categoria a parte, e più precisamente in quella delle fave, si colloca Boldrini che a Castellina, prima che gli altri si raccolgano in sosta-Pagni, guarda e passa senza nemmeno salutare.
Poche immagini brillano nella memoria di quest’aria che profuma di diamante. La salita di Panzano torna alla ribalta come teatro di piccola drammaticità. Il tuffo di Nucci sull’asfalto e quel bollino rosso escoriato impresso come un monito sulla sua zucca, tolgono molte voglie di attaccare e parlare. Fosse almeno servito a rinsavire il previdente granfondista sociale. Invece nell’avvicinamento a Castellina lo vediamo ancora ripetere l’usanza, lasciando indossare il casco al proprio manubrio. Per contro, Boldrini, che resta pur sempre una fava transgenica, quando lo porta non se lo leva mai.
L’urto sembra aver scosso la Bertelli nelle impenetrabili profondità viscerali. La fatina soffre di ferite invisibili nelle fibre dell’anima e si abbandona in un rallentamento inosservato dai più. Soltanto Chiarugi si accorge del suo stato e la veglia con premuroso occhio clinico, comparando sulla salita di Radda questa sua piccola crisi con l’ingolfamento calcolato in cui Bagnoli si lasciò cadere l’anno prima. Oggi il responsabile tecnico è svincolato dagli obblighi di crisi e naviga sulle onde del gruppo, dove Caparrini è quello più tempestoso e si agita per rimanere saldo sulla scia di Boldrini nei panni di istigatore. Il presidente sta combattendo con un miglioramento atletico che lo disorienta perché non previsto dai raffronti tra le tabelline pitagoriche stagionali. Ogni tanto si dimentica di essere prudente e temperato e lascia trapelare qualche momento di debolezza come uno scatto in salita, un tirata veemente in pianura e addirittura un breve saggio di discesismo giù da Castellina, dove le sue braccia orgogliosamente ignude fendono le curve e l’aria fresca davanti ad un diligente e sottomesso plotoncino. Mentre Onda Verde segnala code fra Barberino e Roncobilaccio per la presenza di due ciclisti Empolitour affiancati in galleria, la stessa scorta angelica che giovedì lo aveva trascinato verso gli onori della letteratura, ora si ripara all’ombra della sua schiena curva e pendolante lungo la statale del ritorno. E per arrivare a casa occorrono i profondi pensieri del ciclista e i suoi occhi fissi sulla strada che se ne va sotto di lui, occorre un ultima spinta poetica per arrivare alla meta.
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch’io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest’impeto d’ala.
ma grata è l’ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo… Già cala
la notte: io ritorno.
(Pascoli, La bicicletta).
01/11/2001 La gru
“Assai bene potete, messer, vedere, che iersera vi
dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi
riguardate a quelle che colà stanno.” (Chichibio e la gru. Decameron: sesta
giornata, novella quarta).
Primo novembre, Tutti i Santi. Tutti santi i ciclisti
che oggi hanno dato libero sfogo ad un repertorio di purissime virtù teologali
per sostenere con l’anima e la spinta lo sventurato Caparrini. Entra con
merito nella letteratura comico-giocosa il presidente più buono e amato di
tutta la federazione che, nonostante una vita ciclistica illuminata da prudenza,
giustizia, fortezza e temperanza, quando pedala diventa il bersaglio mobile
della malasorte meccanica. Ma entrano con merito nel calendario liturgico i
seguenti nomi: Santa Beatrice Bertelli da Spicchio, San Claudio Giunti da
Marcignana, San Lorenzo Bagnoli da Avane, San Paolo Chiarugi da Castello e San
Roberto Nucci da Empoli, mentre Belzebù, se il peccatore non lo spaventa, è
chiamato ad accogliere col forcone sguainato l’abominevole Boldrini che per
mezzo di questa storia subirà una pubblica ed esemplare esecrazione.
Era cominciata come una storia comune, un giro del
Chianti recuperato in una temperata pioviggine, con le adesioni straordinarie
del bionico Trasacco e dell’ospite socializzato Bitossi che, nelle rare
occasioni in cui sente odore di ciclismo vero, si aggrega con premura
all’Empolitour. Completavano i quadri due annunciati riduttori di percorso,
Boretti e Tempestini i quali, forse presaghi di perdere l’opportunità di un
cammino di redenzione, cercavano di rendersi visibili sulla terra vivacizzando
la velocità e la fantasia espressiva. Per inciso, i due babbei abbandoneranno
la compagnia nel momento di maggior pathos per fregiarsi di un’impresa che
ancora mancava nel carnet di strade ed esperienze bislacche dell’Empolitour:
perdersi al casello di Firenze Sud e pedalare quattro chilometri contromano in
autostrada. Una prece.
L’andatura tendeva a raggomitolarsi ad ogni soffio
di pensiero, dilatazioni e compressioni del plotone nelle trame del garrulo
trastullo dove ovviamente non mancava l’eccellenza della caposcuola Bertelli,
ma dove estraneo pareva Boldrini, avvolto in un moto riflessivo ed un corruccio
più truce del solito. Ma questo è solo un banale preludio ad uso della concinnitas
narrativa. L’epica comincia da Mercatale.
Caparrini è tranquillo e si specchia in una
coscienza limpida e fiduciosa, come fa sempre quando il giorno prima riprende la
bici manu tenuta dal meccanico quasi-personale Brando. La solita concinnitas
non consente di divagare su questo personaggio che sarebbe meritevole di
un’intera monografia. Basti sapere che Brando è un artigiano romantico, forse
anche dotato di un atavico know-how, e che sopperisce alla carenza di materiale
tecnologicamente adeguato in due modi:
1)
Negando che tale materiale esista o che sia usato da qualcuno e, di
fronte all’evidenza dell’esistenza e dell’uso, sostenendo che cotali
utilizzatori non siano da prendere in considerazione per un confronto omogeneo.
2)
Eseguendo interventi tecnici pionieristici oltre il limite convenzionale
di riparabilità.
Due conseguenze tipiche di questa filosofia sono il morbo del raggio rotto e la sindrome della foratura periodica che si manifestano sempre sul cammino di Caparrini, immediatamente dopo un’omologa operazione brandiana di apparente restitutio ad integrum. In realtà l’organo sottoposto a revisione è tutto fuori che integro, perché il raggio sostituito sarà sicuramente un pezzo raccattato nella scatola del ferraccio e la camera d’aria avrà acquisito un’ennesima toppa posticcia che, come suole affermare Brando con retorica effettivamente inconfutabile, è l’unico punto dove non si può forare un'altra volta.
Insomma Brando aveva il giorno prima serrato a denti
stretti una pedivella ciondolante del suo quasi-unico cliente con bici da corsa
che così pedalava armato di conforto, con la rassicurata certezza di
funzionamento a tempo indeterminato, perché Caparrini ama illudersi di sentirsi
in buone mani e quando galoppa col cavallo ferrato di fresco, dimentica
inconsciamente l’indole del suo stalliere prediletto. Fatto sta, come si sarà
ormai capito, che la pedivella a Mercatale comincia a tentennare di nuovo e da
qui in poi gli accadimenti si susseguono in maniera incontrollata. Ecco arrivare
le virtù teologali, prima la fede. Fede nel potere risanatore della natura,
credere che l’oggetto, benché scardinato, possa continuare nell’esercizio
della sua funzione rotatoria e magari riassestarsi da solo. Caparrini, che è
ingenuo nel dar fede a Brando, è comunque una persona razionale, benché
incompetente di meccanica ciclistica, e capisce che in quello stato potrà
arrivare sì e no fino a Greve.
Subentra la speranza. Speranza in una chiave a
brugola di opportuno calibro, otto millimetri, come proclama saccentemente
Boldrini che va in fuga a cercarla. Lo ritroviamo in un crocevia di smistamento
ciclisti con una collana tintinnante di brugole, nessuna delle quali però
capace di sposarsi con lo svitato aggancio. È soltanto il primo insuccesso,
nessuno si preoccupa. In fondo è il giorno in cui girano tante anime pie in
visita ai cimiteri ed è normale che in queste occasioni la gente cammini con un
mazzo di fiori nella mano destra ed uno di chiavi a brugola nella sinistra.
Seconda speranza: il distributore di benzina. Un
provvidenziale gestore Agip di Lastra a Signa aveva già salvato Caparrini da un
medesimo infortunio del sabato sera, ma lo sprovveduto collega grevigiano
possiede come massima dotazione strumentale un’arma impropria simile a
cacciavite. Tuttavia qui entra in gioco il vero responsabile tecnico Bagnoli che
si sostituisce all’improvvisato Boldrini, con gran sollievo di tutta la truppa
che canta: “Quel gran genio del mio amico, lui saprebbe cosa fare, lui
saprebbe come aggiustare, con il cacciavite in mano fa miracoli”. La speranza
musicale riposta in Bagnoli sembra però vacillare quando il geniale maestro di
tante riparazioni itineranti, notoriamente compito e competente, comincia a
sferrare sul riottoso perno sonori e rabbiosi colpi col calcio dell’arma
impropria, ritrovandosi di lì a poco con la pedivella disarticolata in mano.
L’ansia di Caparrini a questo punto sopravanza ogni residuo barlume di
razionalità e si tramuta in un’implorante richiesta di soccorso a
chicchessia, ciclisti propri ed impropri, vedove coi fiori e comuni passanti.
Uno di questi inopinatamente offre la terza speranza, rimandata però a Panzano
dove egli disporrebbe di un illimitato campionario di brugole. Cinque chilometri
più in su da scalare con un piede solo, perché nel frattempo la pedivella,
rimessa in posizione a martellate, fa quello che tutti aspettavano da un momento
all’altro e cade fra le ruote e le urla della Bertelli. La fata non può
compiere miracoli ed ha una competenza meccanica pari a quella del presidente ma
può almeno giocare la carta del fascino e con tali e tanti buoni propositi ed
ammiccamenti si avvicina ad un camionista che sta pisciando. Sorpreso da avances
così esplicite, l’uomo perde improvvisamente la favella e nonostante senta
parlare da lei di chiavi, non riesce a soddisfarla fornendole quella della
giusta misura.
Inizia la salita ed inizia pure la terza virtù
teologale, la carità. Una catena di solidarietà s’inerpica sulla collina di
Panzano, che normalmente è dolce e ordinaria ma che diventa aspra e
straordinaria se eseguita spingendo per la groppa il sinistrato Caparrini il
quale, pur contribuendo fattivamente all’opera pedalando con la gamba destra e
simulando con la sinistra lo stesso gesto atletico per una sorta di arco
riflesso, si dimostra in questo frangente quello che dice sempre di essere con
fierezza e cioè un peso medio-massimo piuttosto piombato. Nonostante questa
lampante consapevolezza il nugolo di amici fa a gara per spingerlo e bisogna
organizzare dei turni con cambi regolari per non implodere in un mucchio
selvaggio. All’inizio si parte con la strategia dei due spingitori affiancati
e simmetrici, poi si perfeziona il marchingegno arrivando ad un brevettabile
sistema a trasmissione vettoriale concatenata, in cui, per esempio, Bagnoli
spinge Nucci che spinge Trasacco che spinge Chiarugi che spinge Caparrini. Tutti
si affannano per offrire il proprio contributo di propulsione, incuranti delle
auto incazzate che non riescono a sorpassare questo curioso agglomerato
biancoceleste e degli ignari ciclisti che sfottono il povero Caparrini, non
notando la sua incidentale asimmetria perché paradossalmente, nel pedalare solo
di destro è molto più composto del solito. Tutti spingono e trainano tranne
Boldrini cui cominciano a spuntare le corna.
A Panzano la speranza si rimescola alla carità
quando arriva insieme ad un gentile scooterista il bramato campionario di
brugole, che però non è così illimitato come avrebbe dovuto essere per
salvare in extremis il giro del Chianti. Mentre altri si dedicano al turismo per
bar, monumenti bovini e macellerie folcloristiche, i due tecnici Bagnoli e
Boldrini confabulano di ghiere, filettature, controdadi e controfagotti ed
arrivano alla conclusione che la chiave necessaria è di un numero trascendente
compreso fra 7 e 7,5 ed esprimibile con un multiplo irrazionale di pi greco,
secondo una scala differenziale usata soltanto nei paesi di lingua copta. La
vite a brugola di Caparrini è l’unico esemplare in tutta la componentistica
mondiale e il benzinaio di Lastra a Signa è il fortunato depositario
dell’apposita chiave che conserva gelosamente come un Gronchi rosa.
Al termine di questo dotto conciliabolo di meccanica
razionale si prendono alcune cruciali rinunce:
§
Rinuncia
al giro del Chianti, esentando gli ospiti Bitossi e Trasacco venuti apposta per
quello, ai quali si concede libertà di percorso integrale con menzione sui
documenti ufficiali.
§
Rinuncia
alla ricerca della chiave da collezione per manifesta introvabilità.
§
Rinuncia
ad infierire sul meccanismo d’aggancio della pedivella. Appena essa cadrà di
nuovo per terra, Caparrini la ostenterà come feticcio nella tasca posteriore e
pedalerà definitivamente col passo della gru, con la gamba sinistra piegata
lateralmente e appoggiata sul porta-borraccia.
§
Rinuncia
ad un ciclismo regolare per dedicarsi appieno a quello assistenziale.
Si discute a lungo per un percorso di rientro più
breve possibile e Chiarugi con involontaria perfidia riesce a far passare nella
distrazione generale quello più ricco di ondulazioni e doppie elle (Sicelle,
Tavarnelle, Marcialla). Su e giù per valli e clivi l’angelica scorta si
stringe attorno all’enorme gru ormai rassegnata e rasserenata. Vedere questo
omone che pedala sbilenco con una gamba accavallata, stempera con tinte circensi
la commovente misericordia che spinge avanti quella bici storpia più delle mani
dei compagni. Adesso sarebbe appropriata la lacrima; “e se non piangi, di che
pianger suoli?” Tutti se lo vogliono palleggiare. Chiarugi lo traina anche su
pendenze proibitive per non farlo atterrare, Bagnoli sembra volersi immolare per
sdebitarsi con lui di tutte le veglie ricevute quand’era moribondo, Giunti,
vinta una certa soggezione nei confronti del maestro, si va specializzando nello
spingimento su strada spianante, la Bertelli ha sempre le mani addosso a lui e
quando non ce la fa più si attacca languidamente al suo taschino mentre Nucci,
chissà perché, preferisce dare spintarelle indirette attraverso le terga di
lei. Soltanto un innominabile
stronzolone si nega e fugge via. Siccome sappiamo che Boldrini è un bravo
ragazzo, seppur transgenico, se un giorno si pentirà di ciò potrà patteggiare
la pena con qualche nocchino sulla nuda zucca.
Così alla lieta fine di questa giocosa favola, il
cattivo sparisce e restano i buoni che, dopo tante sudate traversie sono pure
felici, e per non interrompere l’idillio sul più bello, ignorano la Bertelli
che forse aveva trovato a Marcialla una volgare imitazione della pregiata
chiave. Caparrini gioisce per la scampata perdita di allenamento, pur limitato
alla sola metà destra del corpo. I suoi sostenitori si beano nella santità
ricevuta insieme ad uno spasso silenzioso ma genuino. Lontano da tutti, i
riduttori Boretti e Tempestini si congratulano con se stessi per l’originale
idea di pedalare in autostrada, senza ridurre un bel niente ma senza nemmeno
pagare il pedaggio. E Brando? Sta aspettando Caparrini al varco brandendo un
chiave a brugola numero sette e qualcosa, con cui eseguirà il solito intervento
a denti stretti. Alla luce del successo e del divertimento procuratoci in questa
mattinata, lo preghiamo di non stringere troppo.
28/10/2001 L’ora solare
Termina l’ora legale, sollievo tra i socialisti.
Come sette mesi fa questa cronaca rischiava di diventare un faticoso riempimento
di vuoti ciclistici con citazioni e divagazioni sul tempo reale e convenzionale;
del resto l’assenza, come anche il 25 marzo, degli estrosi ipercinetici
consegnava l’Empolitour ad un’epopea di statali trafficate e pianeggianti,
agli ossimori delle salite che non salgono (Peccioli, Palaia, San Miniato), alla
didattica caparriniana sui limiti di velocità e soprattutto alle agute scane di
Boldrini che giustamente, dal suo punto di vista belluino, ambiva a sbranare
qualche pargolo innocente per risanarsi dalle ripetute nerbate delle settimane
precedenti.
Da questo palio di cavalli bolsi e trotterellanti
sono invece usciti due purosangue: l’istigatore Boretti, meteor-man, e
il castigatore Pelagotti, arrow-man. A loro spetta l’epinicio della
domenica, a loro il solenne encomio per l’abnegazione che ha risollevato dal
nulla l’odierna sorte narrativa della squadra. Tutti i partecipanti meritano
una menzione per aver impinguato il gruppo anche in un’occasione così bassa,
ma la prima pagina è interamente dedicata a questi due interpreti di un ruolo
non predestinato dal rigido canovaccio del presidente, due ciclisti che osano
sulle proprie gambe e sulla propria onorabilità, pur consci di una caratura
atletica ancora incompiuta. Prima pagina ovviamente anche a Boldrini, senza il
quale nessuno si muoverebbe dall’ovatta per scatenare affannosi putiferi. Se
non fosse per il suo muso da attacchi, che come una musa ispira i poeti delle
sfide possibili e impossibili, non saremmo qui ad esaltare il discolo Boretti
che non risparmia neanche un metro di tutte le sunnominate futili salite per
catapultarsi verso un destino di morte certa e istantanea; non saremmo qui ad
esaltare l’astuzia della locomotiva Pelagotti che invece di sbuffare acidi
vapori in testa al convoglio, si aggancia al paravento di Boldrini e dopo la
linea d’arrivo della Coppa Sabatini, quando dietro la curva sbuca una subdola
rampetta, lo castiga in stile di esemplare profittatore di scie. “Saronni,
Saronni, Maertens!” Fu il titolo della Gazzetta dopo i mondiali di Praga del
1981 vinti dall’abile succhiaruote belga. “Boldrini, Boldrini, Pelagotti!”
sarà il titolo della nostra ideale Gazzetta, seguito da un pistolotto di Cannavò
sull’istinto genuino di ciclisti che compensano un’evidente divario di
potenza con i lampi di un’irrazionale scaltrezza. Il bilioso sconfitto
rilascerà un’intervista urlata con un’enumerazione accademica di scusanti,
eccezioni, corollari, apologhi, proclami e paralipomeni.
Tutti gli altri seminaristi vivono un normale giorno
di scuola. Il maestro Perboni-Caparrini gongola davanti alla sua classe di fidi
discepoli, Bagnoli L., Giunti, Pucci, Tempestini e l’ospite pelagottiano
(mentre Bagnoli A. è uscito alla prima ora per indisposizione). A tali
involontari scolari cerca di spiegare i saldi principi del pedalare senza ansie
ed affanni, ripetendo ossessivamente concetti e parole-chiave come risparmio,
contenimento, sotto-soglia, moderazione, costanza e parsimonia. Tutti sembrano
prendere diligentemente appunti, ma ogni tanto qualche indisciplinato salta
fuori scattante, parte in libera uscita e viene poi ripreso dal maestro per il
lobo dell’orecchio mentre si contorce come una baccante in preda a rantolante
lena. Caparrini, nonostante questo passo del precettore, arriva terzo a poche
ruote da Boldrini. Si domandano i motivi di questi suoi sacrifici atletici per
il bene e la compattezza della comunità. Il presidente è un altruista puro e
paterno, e questo non si discute, ma in lui alberga anche uno spirito
imprenditoriale. L’unità di gruppo non è solo un valore morale ma anche un
investimento che a lungo andare rende, per esempio in termini di adesioni alla
cena sociale e quindi di voluminosità della cosiddetta cresta (unica forma di
finanziamento consentita dallo statuto). Senza contare il condizionamento
d’immagine che può creare acquirenti interessati a qualche invendibile
articolo dell’elegante Boutique dell’Empolitour.
Torna l’ora solare e l’attuale politica di tagli
alle salite ed ai chilometri prevede una manovra che ha una logica astronomica
originalissima. Siccome l’alba è anticipata di un’ora e la luce mattutina
dura di più, la partenza fra breve sarà ritardata di mezz’ora e per non
generare pericolose simmetrie l’arrivo sarà invece anticipato. Verrà pure il
giorno in cui l’orario di partenza e quello d’arrivo coincideranno, ma fino
ad allora bambini studiate ché un nuovo Tour s’aggira per l’Empolitour.
21/10/2001 L’acqua invece del Chianti
“Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno
in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza…”
Bisogna ritornare al 9 luglio 1996 per incontrare uno
schieramento pedalante dell’Empolitour costituito dai quattro patriarchi
Caparrini, Bagnoli, Nucci e Chiarugi. Allora c’era il Tour ospite a Torino ed
essi con una storica manovra di ripiego sostituirono al colle di Fauniera il
colle di Superga, ovvero duemila metri più sotto, dove non videro passare i
ciclisti ma le anime di quella formazione calcistica imparata a memoria come un
paternostro: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano…
Poi si persero nelle vicende della vita, si
mescolarono alle facce nuove, si diluirono nei folti gruppi e dopo un lustro è
come se si fossero ritrovati, inopinatamente, anche questa volta per un
raffazzonato giro di riserva. La notte aveva portato poco consiglio e molto
bombardamento acquatico sulle velleità di un Giro del Chianti ricco ed
ubertoso. Le nuove generazioni dell’Empolitour si erano lasciate troppo presto
dissuadere e l’eco dei nubifragi aveva cullato i molti pusillanimi in una
prolungata permanenza sotto coltre. Ma le linee telefoniche non dormivano e
lasciavano vibrare la speranza di salvare almeno l’apparenza, nel rispetto del
dovere ciclistico domenicale.
L’impulso che smuove le coscienze dubitose verso
l’aggregazione, nasce da colui che non t’aspetti, da un Bagnoli la cui
ultima uscita sul bagnato risaliva ancora al Tour 1996 sotto l’epocale
procella del Cormet de Roselend. Se l’imbrifugo Bagnoli desidera pedalare su
strade non semplicemente umide, ma inondate con le peggiori impurità della
crosta terrestre, allora c’è sotto qualcosa. È il pensiero comune dei tre
increduli compagni che captano in questo miracoloso rinsavimento un presagio
meteorologico propizio e non vogliono mancare all’irripetibile evento.
Sembra che si guardino per la prima volta dopo cinque
anni, con gli occhi del tempo che ha diradato e scolorito i capelli, ha riempito
o scavato le guance, ha graffiato le ossa dei fidi corsieri ma non ha intaccato
la voglia di pedalare, anche su un percorso che Chiarugi definisce aulicamente
inverecondo, che Caparrini classifica come plusvalenza rispetto alla previsione
di zero chilometri e Nucci una minusvalenza rispetto ai 145 del pattuito
Chianti. Bagnoli si limita a ridacchiare ogni tanto sotto il cappello da cuoco
della Fassa Bortolo, sia perché senza quei 145 chilometri è riuscito a
prorogare un’altra rappresentazione scenica della crisi cartesiana, sia perché
la linda Colnago sembra avere sui lacrimati asfalti un effetto Mosè. Al suo
passaggio l’oceano di sporcizia si apre in due come il Mar Rosso riversandosi
tutto su Caparrini che gli sta sempre accanto ed alla fine, dopo tanto clamore
ed incertezza, un sole beffardo
torna di prepotenza a ristabilire l’asciutto.
Si deve passare dai paesi del sabato sera e Caparrini
sembra sgranare il rosario quando li nomina: San Quirico, ora pro nobis! San
Pancrazio, ora pro nobis! Santa Cristina in Salivolpe, ora pro nobis! San
Casciano, ora pro nobis! È una litania di cunette e dossi, ove invano Nucci e
Chiarugi tentano di trascinare l’altra più paciosa coppia verso il confine
dell’affanno con pedalate impercettibilmente incrementali. Non c’è niente
da fare, niente che smuova Caparrini e Bagnoli dalla normale velocità di
routine. S’intuisce nel profondo silenzio di qualche smorfia che il
responsabile tecnico vorrebbe, ma non può ammetterlo, liberarsi come ai bei
tempi del confortante assillo del presidente che gli snocciola in anteprima
tutte le dettagliate attitudini della strada per sostentarlo. Talvolta Bagnoli
sembra effettivamente volare in un sogno di tanti allenamenti fa, con
accelerazioni repentine che si smorzano nella realtà di una condizione ancora
tremula ma che non gli impediscono d’immaginare un futuro con Boldrini al suo
vano inseguimento.
In questo revival di primordiale uscita invereconda
c’è un palese anacronismo che deriva dall’ossequio ancora una volta
manifestato alla sosta-Pagni, istituto che entrò nella legislazione
dell’Empolitour in epoche successive a quella rivissuta. Allora si soleva
andare piano e poco lontano ma non fermarsi ai bar in maniera preordinata. Oggi,
per rispetto dell’agiografia dell’itinerario, si è pensato bene di
celebrare il rito a Montefiridolfi, che non è un santo ma che possiede un
circolo ANSPI, Associazione Nazionale San Paolo Italia. Ora pro nobis!
14/10/2001 Scontri e scontrini
In una giornata che s’illumina di tanti raggi di
sole e d’acciaio, un gruppo atipico si gode un cielo atipico lungo un percorso
tipico, costruito dietro ordinazione, confezionato su misura per Pagni.
C’erano tutte le premesse, lucean le torri di San Gimignano e profumava lo
zafferano, ma lì c’erano tutti tranne lui. L’arconte eponimo sembrerebbe
sull’orlo dell’abdicazione, ormai il popolo minuto dell’Empolitour lo ha
sovrastato, oserei dire deposto, fino ad esiliarlo sul Mar Ligure ad orzare di
lasco e cazzare rande mentre i suoi rivoltosi sudditi occupavano d’imperio i
tavolini contemplativi di piazza della Cisterna.
Va l’armata in pieno sparpaglio ed assalta la
roccaforte con un pedone alla volta. Bertelli e Chiarugi, antichi oppositori del
regime sostereccio, conquistano con astuzia le prime e più propizie sedie e si
rosolano agli afflati primaverili qualche minuto in più degli altri che
raggiungono le postazioni con una tradizionale e pleonastica manovra di
aggiramento da sud. Così il gruppo diventa finalmente uno di seggio, di lingua
e di cibo, dopo un viaggio fatto d’intervalli e disgregazioni. Nel popoloso
acciottolato arrivano a poco a poco coi loro brillanti sudori anche Nucci,
Boldrini, Pelagotti, Busoni e la squadriglia dei pulcini: i due Bagnoli, un
ospite pelagottiano, Pucci, Giunti e la chioccia Caparrini che incede con aria
pavoneggiante per essere riuscito a preservare l’omogeneità della
retroguardia, oggi quanto mai composita e flemmatica, e perciò atleticamente
incline al giro brevis o interruptus.
In questo periodo il presidente sarebbe in grado di
duettare con la Bertelli in una zona di merito medio-alta, ma neanche la lusinga
di una fascinosa compagnia riesce a distoglierlo dalla sua missione. Per tutti i
moribondi che ha accudito è gia entrato nelle grazie di San Pietro, anche se la
domenica va sempre in bicicletta invece che alla messa. Oculato anche nella
scelta dei percorsi, Caparrini piazza l’unica salita dopo venti chilometri
affinché nessuno abbia il tempo di trovare scuse per scansarla. Sul Mannello di
Montatone offre ai pochi ciclisti pugnaci l’opportunità di scontrarsi, mentre
lui pedala con indolenza diplomatica volgendo continuamente lo sguardo a poppa,
pronto a fermarsi quando nemmeno la sua lentezza tellurica gli consente di
ristagnare beatamente in coda.
E Boldrini? Le sue cosce pneumatiche sono ancora poco
dense e perciò il suo groppone è costretto ad assaggiare un’altra dose di
nodose bastonate. Pelagotti coglie l’attimo e con l’attrattiva di staccare
il ciclista transgenico si sta convincendo pure d’essere allenato. “Sembrava
un giovane puledro che appena liberato il freno mordesse la rotaia con muscoli
d’acciaio, con forza cieca di baleno”. Questi sono gli attacchi della
locomotiva Pelagotti, lirici e altisonanti. Poi d’incanto resta sibilante a
bocca storta mentre Nucci e Chiarugi lo risucchiano senza pena; però non si fa
arpionare da Boldrini che è abbordato pure dal sorprendente Busoni, ciclista di
terra e sassi.
In medio stat virtus et venus,
infatti spunta la Bertelli mentre dopo di lei si materializza Bagnoli L. fra i
vocalizzi di stupore degli attendenti. Il responsabile tecnico, che per avere
numeri d’allenamento confrontabili coi primi dovrebbe misurare le distanze in
ettometri, non stupisce per il piazzamento (si scoprirà molto tempo dopo che è
stato l’unico dei ritardatari a non fermarsi nel bel mezzo della salita per la
riunificazione delle code disperse) ma per la seconda settimana consecutiva di
ottemperanza al percorso integrale. In questa congiuntura di alte pressioni
prolungate e asciutte, non sa più che cosa inventarsi per evitare di pedalare.
Potrebbe anche lui iscriversi ad un corso nautico come Pagni, giacché è
l’unico che suole indossare ancora la maglietta di prima generazione che col
vento a favore tende a gonfiarsi a mo’ di vela maestra (ad onor delle taglie
del sarto sociale Vifra, sulle attuali forme di Bagnoli L. anche tale indumento
sembra aderire anatomicamente).
Siccome la giornata non ha offerto altri spunti
ciclistici, vogliamo concludere analizzando un documento che potrebbe suscitare
morboso interesse negli archeologi dei prossimi millenni. Siamo proprio arrivati
allo scontrino fiscale. Non
è un modo metaforico per dire che se l’Empolitour non si risveglia da questo
ciclismo in fase REM, la nostra vena narrativa toccherà la fase terminale, ma
è per introdurre l’interessante esegesi di questo frammento digitalizzato che
speriamo possa servire almeno ad attizzare l’invidia di Pagni. Esso ci mostra,
oltre all’inequivocabile prova spaziale e temporale dell’atto consumistico,
anche un esemplare elenco di sedici voci d’esborso, suddivise nelle due
tipologie prevalenti di 2000 e 3500 lire (caffè e paste, supponiamo) e
culminanti in un totale di 52000 che le statistiche danno come record assoluto,
ottenuto pur in assenza del pontefice massimo delle soste. Undici bocche
proletarie (dodici meno quella dell’incorruttibile Chiarugi) valgono più
delle nobili fauci dell’untore reale dell’Empolitour. El pueblo unido
jamas serà vencido, pensano insieme gli esagitati consumatori rivolti al
tiranno spodestato che monopolizzava le spese con le sue alimentazioni ad
effetto. C’è però una strana glossa da commentare: quel £9000 in fondo
lista che potrebbe sembrare il frutto di un’ordinazione aristocratica ma che
molto probabilmente si riferisce al succo di frutta della Bertelli. Poiché è
facile scambiarla per una dea quando discinta s’adagia a solatio, il barista
potrebbe averle preparato un distillato d’ambrosia dell’Olimpo, solo così
si spiega il costo. Si spiega un po’ di meno il fatto che la paladina di un
ciclismo austero e sostanziale si sia ridotta così. Ma questa è un’altra
storia.
07/10/2001 A volte ritornano
In un giorno grigio come la strada, umido e caldo
come occhi che non riescono a piangere nell’abbraccio della malinconia, si
rivedono figure che sembravano perdute nelle nebbie della memoria, nomi nudi che
pedalavano sullo sfondo di un passato lungamente atteso.
Quando ritornano non sono mai uguali a prima, i
ciclisti come i luoghi, i giorni come i sentimenti. L’Empolitour, che evita
finalmente la pioggia della domenica, ora si bagna con queste gocce di banalità,
giri di parole facili ed ovvi come i giri sui pedali di questo periodo di blandi
riposi. Per fortuna che arrivano Bagnoli L. e Boldrini, due storie diverse, due
tentativi diversi di emersione dalla staticità.
Sulle riviste specializzate abbondano gli articoli su
tecniche e tabelle di allenamento stilate da autorevoli tecnici, Bagnoli L.
potrebbe invece portare il suo esempio di tabula rasa applicata al
ciclismo. Nel campo dell’undertraining è diventato un opinion
leader. Avendo ormai lasciato ogni speranza di allenamento sui pedali, torna
ogni tanto con l’Empolitour per allenarsi ad andare in crisi. Si badi bene,
non per allenarsi ad evitare la crisi, ma per prepararsi a cadervi in maniera
scientifica, cercando nella crisi la sua più profonda radice etimologica, krisis
nel senso greco di giudizio, decisione, scelta, un crollo che per forza di
inanità atletica sarà assoluto e irreversibile, ma giudizioso, voluto e
preparato. A dire il vero nelle gote paffute di Bagnoli, sulle prime c’è poca
volontà di crisi e molta di percorso ridotto e soltanto l’insistenza di
Caparrini riesce a catechizzarlo dissuadendolo da ogni bivio tentatore.
Sulle salite Caparrini è l’estrema unzione, è il
conforto dei moribondi, vigila angelicamente su Bagnoli, suo precettore tecnico,
e lungo le dolcissime spire del valico di Boscotondo si concentra su una
lentezza innaturale anche per lui, per non abbandonare ai fantasmi della
solitudine il nostalgico interprete di un ciclismo fondato su tanti ricordi,
tanti principi e poche azioni, strenuo difensore del candore della decennale
Colnago e dei pantaloncini con l’elastico in vita. Nella rete di Caparrini da
un po’ di tempo cade anche il neofita Giunti che spia da zelante discepolo le
movenze dell’immane maestro per carpirne i rudimenti di durata e parsimonia.
Nella sua innocenza sostiene però che dimenarsi e sibilare come fa il
presidente in salita è molto più faticoso che pedalare.
Da un capo all’altro del gruppo, da un capo
all’altro del mondo, ecco rispuntare, un po’ meno glabra che pria, la tanto
sospirata chiorba di Boldrini. È sempre stato il più presente tra gli assenti
anche durante il periodo di ciclopenia coniugale, ma ora è di nuovo tra noi con
le sue carni insufflate, orrende come le ricordavamo ma un po’ più gonfie e
flaccide, come gli occhiacci rossi che stentano a rimanere accesi dopo aver
trasvolato sopra a sì tante longitudini. Torna in carne e lingua, e fra i
compagni si stabilisce tacitamente che l’onere dell’ascolto itinerante dei
suoi enciclopedici monologhi neozelandesi spetti all’ultimo arrivato in Via
Baccio da Montelupo, una perifrasi per dire che tocca alla Bertelli. La
maestrina dalla penna rossa non si scompone, lo accoglie magno cum gaudio,
gli dà sfogo per due chilometri e poi alla prima occasione lo scarica al
paziente Giunti che così, in attesa delle rumorose salite con Caparrini, è
costretto a subire una più dura pena d’iniziazione con la stridula loquacità
di Boldrini.
Per fargli capire quanto siano felici di rivederlo, i
compagni maramaldeggiano sulla sua debolezza. Nucci e Chiarugi spingono la loro
perfidia oltre il desiderio d’umiliazione e ingaggiano il bionico Trasacco per
aiutare Pelagotti a partecipare ad un complotto che lo veda fuggitivo, e si sa
che Boldrini, prima di farsi staccare da lui, sarebbe disposto a mettere
all’asta la novella sposa. Boldrini come sempre sembra godere nell’attrarre
gli attacchi. Invece di gongolare in una giustificata posizione di rincalzo,
magari deliziando la fatica dei più cauti con qualche narrazione di esperienze
australi, si lancia in testa con cipiglio a seminare nel gruppo l’ansia
d’inseguimento.
Il problema principale è convincere le gambe di
Pelagotti di essere ciclisticamente valide dopo qualche settimana di riflessioni
ipotoniche e di pasti ipertonici. Sulla salita di Sughera-Tonda la scia e le
spinte di Trasacco sono sufficientemente convincenti e Boldrini vede svanire
dietro ogni curva un’illusione covata nell’ombra dell’inseguimento.
Il valico di Boscotondo è invece teatro di una
rappresentazione alternativa della crisi, in parallelo con quella razionalistica
che Bagnoli sta interpretando a gesti silenziosi in un profondo sonno di
pedalate e in un moto uniformemente decelerato. Boldrini invece vuol essere come
il signore di Lapalisse che un quarto d’ora prima di morire era ancora vivo.
Parte a passo di carica sulla prima rampa e vivacchia in testa mentre il gruppo
da lungi lo scruta, lo commenta e poi gli dedica un impietoso contrattacco.
Sull’abbrivio della Bertelli scatta Pelagotti, stavolta senza mani esterne,
storce la bocca, gonfia il petto e scatena un tumultuoso temporale
cardiovascolare. Boldrini sente il cuore di Pelagotti rimbombare nella valle e
lo insegue. Due avvoltoi, nelle sembianze di Chiarugi e Trasacco, s’incollano
beffardamente alla sua ruota ed assistono con qualche dileggio ad una
metamorfosi colorimetrica del suo volto degna di Fantozzi che ingoia il tordo
alla cena della contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare. Colori di Boldrini:
rosso, rosso pompeiano, viola, blu notte, blu tenebra. Blu tenebra è il colore
della bandiera della resa che Boldrini sventola a due chilometri dalla vetta,
quando si rassegna all’imprendibilità di Pelagotti ed all’incurabilità
della sua crisi che lo rende quasi simile ad un essere umano. Boldrini è un
prodotto genuino, costruito in laboratorio senza conservanti né coloranti e per
questo deve essere consumato preferibilmente entro venti giorni dall’ultimo
allenamento, altrimenti si deteriora. Oggi è andato molto vicino alla sua data
di scadenza, ma non è andato a male e da ora in poi possiamo star sicuri che lo
assaggeremo ogni settimana sempre più fresco e cattivo.
30/09/2001 L’Eroicomica
Prima dell’inizio dell’incontro di rugby fra
Nuova Zelanda e Samoa Occidentali, è stato notato un curioso individuo fra le
fila degli All Blacks che si stavano esibendo nell’haka, la
danza propiziatoria dei maori. Ai rugbisti basta poco per essere brutti,
ma questo li batteva tutti. Pare che l’allenatore Wayne Smith abbia ingaggiato
un turista italiano appena sceso dall’aeroporto di Christchurch nonostante
costui sostenesse di essere un ciclista e di non avere alcuna dimestichezza con
la palla ovale. È bastata però un’occhiata al suo grugno ed ai suoi
prosciutti articolati per convincere il coach che un simile soggetto, addestrato
ai passi di danza ed alle urla rituali durante lo schieramento della squadra,
avrebbe indotto molti avversari a repentina conversione sportiva. Manco a dirlo
la tattica si è rivelata vincente. Gli All Blacks hanno vinto a tavolino
per rifiuto degli sfidanti a scendere in campo. Trevor Leota,
hooker
delle Western Samoa (1,74 m x 128 Kg), ha dichiarato che nella sua isola è
abituato a trattare giornalmente coi cannibali, ma che mai e poi mai si sarebbe
aspettato un uomo dalla facies così truce provenire dai civilizzati lidi
mediterranei.
Ignoriamo il nesso fra quest’atleta che urla e si dimena come un ossesso e le
due settimane di nullità ciclistica che l’assenza di Boldrini ha regalato
all’Empolitour. Avevamo comunque già sperimentato un’interferenza
paranormale del comportamento del ciclista transgenico sugli eventi
meteorologici. Volevamo festeggiare il suo ritorno iperallenando la fascia
medio-bassa della squadra per staccarlo con una fuga di gruppo, ora invece ci
troviamo a piangere lacrime celesti e a maledire Giove Pluvio per la sua
selettiva attività domenicale.
Un tempo potevamo almeno contare su un trio che non conosceva strade impedalabili o cieli dissuasivi. Quando l’Empolitour rimaneva in pantofole si esaltavano le vicissitudini acquatiche di Bertelli, Chiarugi e Nucci, ma oggi la maledizione di Boldrini ha intaccato anche questo baluardo d’integrità pedalatoria. Erano pronti per l’Eroica di Gaiole in Chianti, avevano dissotterrato le bici di guerra, i cancelli in odor di rottamazione, per affrontare questa corsa di anacronistica bellezza, ove lo sterrato rievoca sofferenze ancestrali, poesie represse nella confortevole fluidità della tecnologia moderna che non impedisce la fatica, perché le gambe della specie umana in un secolo sono immutate, ma impedisce il brutale disagio, quel nocumento corporale che rendeva immortali i campioni di un tempo. L’Eroica ha tenuto fede al suo nome. È stato un lavacro dell’umanità ciclistica. Si sono viste biciclette d’epoca, maglie d’epoca, baffi d’epoca e bestemmie d’epoca. Il diluvio non ha impedito a Chiarugi e Nucci di partire, mentre l’anatema di Boldrini si è inizialmente abbattuto sul piede di una zia della Bertelli, costringendo al riposo assistenziale la novella Alfonsina Strada. (Nella foto la Bertelli in allenamento per l’Eroica).
Abbigliamento di Nucci: maglia di lana caprina infeltrita biancoceleste tendente al grigio sudicio, pantaloncini ciondolanti e artigianalmente raffazzonati con toppa posticcia paraculo, incerato di plastica massiccia e trasparente a foggia di piviale da sacerdote in processione, occhiali anabbaglianti modello Filini con lenti extra-large, borraccia termica di Brando che, a fronte di una tara di 1,8 kg, può contenere 10 cc di liquido non bevibile ma facilmente riversabile fra il mento e la scollatura durante gli infruttuosi tentativi di esigerlo in bocca.
Abbigliamento di Chiarugi: maglia Empolitour di prima
generazione a copertura femorale con sottofunzioni di paracadute e trinchetto da
veliero, scarpe nere di serie negli istituti di anatomia patologica come
calzature ornamentali per cadaveri anonimi, bici Ceccherini a tre moltipliche e
sette pignoni per un totale di ventuno rapporti teorici e tre funzionanti
(52x13, 42x13, 42x21). Stona il modernismo del casco e della mantellina ma in
giro si vedono anche freni occultati, pedali a sgancio e cambi sul manubrio.
Molti pensano ad una gara vera e si sbudellano fin dall’avvio per un
piazzamento che non sarà mai premiato mentre i ciclisti di folclore, che sanno
di essere vincitori per la sola esposizione dei vetusti addobbi, si godono i
sassi e gli acquazzoni con la minima ansietà.
Nucci, pur consono all’antiquariato richiesto,
freme per rimanere con gli pseudo-primi e così facendo perde non solo le loro
ruote ma anche il lume degli occhi e il senso d’orientamento. Smarrisce la
diritta via dopo trenta chilometri e si ritrova a vagolare per lande
inesplorate. Pare che sia ancora disperso per le vie di Lecchi dove una vecchia
gloria lo ha rivestito con indumenti asciutti. Si pregano le autorità locali di
riportarcelo indietro senza fretta.
Tutto il peso della narrazione grava perciò su
Chiarugi da cui abbiamo raccolto una testimonianza in prima persona che i
lettori potranno confrontare con un’analoga esperienza della Bertelli
nella precedente edizione della corsa.
« In principio la legge morale era dentro di me e il cielo stellato sopra di me. Poi l’Empolitour mi traviò. Possa questa schiena percossa e indolenzita dalle rugosità della Madre Terra chinarsi al Massimo Fattore e possano queste dita che hanno stretto un’anima ferrea tribolante riaversi dal torpore mortifero e spingere questo bianco aratro su questo bianco prato per seminarvi il nero seme della confessione. Mi pento e mi dolgo perché ho peccato, ho tagliato, accorciato il percorso lungo. Ho vilmente anteposto l’istinto di sopravvivenza alla sublime abnegazione che dovrebbe contraddistinguere un ciclista virtuoso. Dopo 95 chilometri, di cui 60 sterrati e 80 annacquati, dopo 5 forature, abbandonato da Dio e dagli uomini, esaurita ogni baldanza atletica ed ogni camera d’aria di scorta, posto tra due frecce, una rossa che indicava il percorso di gara in una sassosa via per Monteaperti ed una azzurra che blandiva la mia anima ferita con un “GAIOLE 18” rivolto verso un liscio asfalto, ho scelto con pochi indugi questa seconda proditoria soluzione. Meglio così. Se fossi andato a Monteaperti, l’Arbia si sarebbe nuovamente colorata in rosso con le mie lacrime e il suo letto limaccioso avrebbe accolto le misere spoglie della Ceccherini, giù scaraventata dal primo ponte utile. Quando all’ottantacinquesimo chilometro la ruota posteriore s’è afflosciata per la quinta e definitiva volta, mi trovavo fuori da ogni consorzio umano e finalmente ero sollevato dalla rituale incombenza di smontaggio della ruota, sostituzione della camera d’aria, ricomposizione del fascione coi denti (la sensibilità dei polpastrelli era già perduta dopo la seconda foratura) e inane pompaggio per ormai stabile incapacità di stringere in mano alcunché. Allora in rapida successione mi sono balenate alcune ipotesi di lavoro:
·
Aspettare sul ciglio
della strada un fantomatico carro-scopa. La scarto subito per non mettere il mio
destino in balia di un entità teorica, un refugium peccatorum mai
menzionato dagli organizzatori.
·
Memore del
diario-Bertelli, gonfiare periodicamente la camera d’aria più stabile.
Guadagno con questa tattica un chilometro con sette ansimati pompaggi e poi
l’accantono.
·
Stendersi in mezzo alla
strada fingendomi morto. È l’unica forma di autostop che può ambire a tenui
speranze di successo. La putrida fanghiglia che mi riveste può garantirmi
l’accoglienza senza frode forse su un carro bestiame o su un trattore con le
bigonce. Comunque in mezz’ora passa soltanto un’auto tedesca che accelera
schifata.
·
Gridare aiuto,
naturalmente solo per sfogarsi perché nessuno potrebbe udirmi, forse qualche
ciclista attardato. La solidarietà fra ciclisti è un valore sacro. Durante la
terza foratura uno mi ha chiesto gentilmente se avevo bisogno di una mano mentre
mi sfrecciava davanti senza aspettare risposta.
·
Seppellire la Ceccherini
e le scarpe da morto e terminare la gara come Abebe Bikila. Non dimentichiamoci,
mi sono detto, che sono anch’io un maratoneta. Poi però ho qualche remora
sulla fine ingloriosa dell’eroico cancello, amico di cinque Tour e tre Giri, e
su quella dei calzini sociali dell’Atletica Vinci, inadatti alla corsa su
sterrato.
·
Viaggiare con la gomma a
terra. È la soluzione finale, la più banale ma decisiva.
Il cerchione mi pare contrariato ma non gli do ascolto. Tiro innanzi svirgolando e sgusciando sulla sdrucciolevole statale ed eseguo mentalmente qualche calcolo di cinematica che mi ha insegnato il presidente Caparrini: “Gaiole 18. Alla media di 18: un’ora. Alla media di 9: due ore. Alla media di 4,5: quattro ore”. Sono le 14 ed anche la tabella di marcia più pessimistica mi garantisce il conforto della luce. Mi sento salvo. Immagino le scene di giubilo che mi riserveranno quando taglierò il traguardo come Olano al mondiale del 1995. Sono comunque un eroico sopravvissuto ai sinistri della terra anche se ho barato.
A
Gaiole dopo un’ora e venti di martellate sui lombi, mi accorgo che esiste un
divario concettuale fra immaginazione e realtà. Nessuno percepisce la mia
presenza. Il traguardo è sbarrato e bisogna mescolarsi in una parata di
mestieranti d’epoca, fra un carbonaio, uno scalpellino ed un castrino, perché
un giudice d’epoca mi chieda se ho fatto il lungo o il corto. Siccome tertium
non datur, dico lungo in barba alla complicata verità storica.
Miserere
di me. Mi appello alla vostra clemenza e, poiché so che non mancherà,
confesso anche un altro peccato. Quando ho forato per la terza volta, a distanza
di trecento metri dalla seconda, la camera d’aria si è piroettata per moto non
proprio sul ramo più alto di un faggio. Sarò fulminato dalle ninfe dei boschi
e dalla Bertelli ma prometto di tornare un giorno a Vagliagli per recuperarla.
Non
v’inganni questo racconto tragicomico. Ora che posso parlare con la mente
lucida e la schiena risanata, sono convinto che l’Eroica è una gara da
salvare, da onorare con decuplicate presenze alla luce dei 14 arrivati nel
percorso lungo. Anche in questo svolgimento apocalittico si conservano ricordi
piacevoli. Come la prima foratura avvenuta davanti al ristoro d’epoca dove due
ragazze d’epoca tentavano vanamente di ripararsi dalla ferocia del temporale
d’epoca. Offrivano acqua e vino d’epoca in bicchieri di vetro, nonché zuppa
e pan bagnato. Non c’era bisogno neanche d’annacquare il vino. Ho
riassestato la bici untuosa e fangosa ed avevo le mani linde, e dopo aver bevuto
un bicchiere d’acqua mi sono accorto che era ancora pieno. Poi è arrivato un
emulatore di Boldrini che ha eseguito una palese pisciata d’epoca fra il
sottoscritto e le suddette ragazze.
Alcuni
consigli finali per chi voglia partecipare alla prossima edizione.
·
Usare bici ed abiti
preistorici ma non indulgere nello spessore dei fascioni. Meglio ancora le ruote
piene.
·
Portarsi dietro senza
farli vedere un telefonino ed una pompetta ad aria compressa con molteplici
bombolette. I credenti anche un santino di Padre Pio.
·
Portarsi dietro un
parente grasso e anziano da mostrare alla partenza e all’arrivo perché sarà
premiato con un cesto alimentare.
·
Non illudersi troppo che
pioggia, polvere, fango e fatica saranno lavati via da una calda abluzione. Il
vangelo dell’Eroica dice che gli ultimi saranno i primi ma faranno la
doccia diaccia.
·
Non dare retta ai
consigli dei reduci perché in fondo il bello della corsa è proprio
l’improvvisata disavventura. »
16/09/2001 Il
narrator furioso
La donna, i cavalier, le bici e i fiori
canto nel santo giorno in cui Boldrini
ammogliato volò verso i Maori,
lasciando senz’assilli ai lor destini
ciclisti agiati come gran signori,
placidi e lenti come Caparrini.
Tanto sollievo orsù sia festeggiato
con un giulivo assaggio di sterrato.
Questo proporre arditamente volle
Chiarugi per nostalgico tragitto
che non celava un muro o un erto colle,
ma in mezzo al gruppo rumoroso e fitto
un pregiudizio sordido ribolle
e il gran rifiuto pare bell’e scritto.
La delicata gomma delle ruote
sassose strade tollerar non puote.
Non son graditi troppo fatui voli,
in questo dì la fantasia non suoni
oggi che abbiam l’onor di due Bagnoli,
di Tempestin, Boretti e Castiglioni,
di Pelagotti e Giunti, e tre son soli
che l’estro non sommettono ai fascioni.
Perciò questo sterrato se lo ciucci
Chiarugi insieme alla Bertelli e il Nucci.
Caparrini zelante rassicura
i pavidi che non ci sarà ghiaia
mentre l’aria di nubi si fa scura
e sulle dolci svolte di Palaia
sale Bertelli in massima premura,
che Pelagotti solo in cima appaia.
Le gambe e il cor d’Angelica son forti
e tutti dietro con i fiati corti.
Risalgon dopo mesi sulle selle
e già sono presaghi di sconquassi
il Castiglioni ed il Bagnoli Elle.
L’acqua dal cielo e dalla terra i sassi
dure minacce son per l’alma imbelle
che dirottar li fa su brevi passi.
Or che la coppia dei più stucchi manca
pedalare si può su strada bianca.
Boretti con bandana degli Aztechi
però d’osar è l’unico convinto
mentre gli sguardi altrui tacciono biechi.
Così sul pian di polvere dipinto
non è che in gruppo fantasia si sprechi
e con l’Azteco e il Trio nessun è quinto.
In cinque pigliano la via più destra
per sorseggiar la solita minestra.
Quella ruvida via solcan sottili
otto ruote con garbo e con prestanza
per raggiunger più in alto i cinque vili.
Tremula e sola la quadriglia avanza
spedita sopra sassolin gentili
che sprigionano tenera fragranza.
Con fiacca intanto guida Pelagotti
l’agiata schiera a sgranocchiar biscotti.
Portan le strade tutte a San Vivaldo,
le polverose incontrano le lisce
nel sudore di caschi e il caffè caldo.
Fame comune i due plotoni unisce
ma c’è chi sta sulla parchezza saldo
e chi pesanti viveri ghermisce.
Nucci tritura senza mai scomporsi
pane, prosciutto e cacio con tre morsi.
I petali di zinnia rossa accesa
che adornano d’Angelica il destriero
si sfrondano nel vento di discesa
e il gruppo sazio progredisce fiero
come grasse massaie con la spesa
a ritmo rilassato e salottiero.
Mentre pedala il fior della Bertelli
cinguettan molti in gara con gli uccelli
Passando fresche nubi sui saluti
c’è chi ripensa al bivio dello scorno
al flaccido concorso di rifiuti.
Meritereste un bel Boldrini al giorno
che vi faccia rigare dritti e muti!
Volete pensar dunque al suo ritorno?
L’Empolitour che si divide ai bivi
rimpiange già chi vagherà tra i kivi.
09/09/2001 Il deterrente
Tutti lo vogliono conoscere, studiare, toccare. La
sua fama si è sparsa in tutta la rete mondiale e lo ha reso in breve tempo un
pregiato oggetto di culto ciclistico. Sulla natura e sulle implicazioni etiche
di questo anomalo fenomeno biologico sono stati scritti alcuni saggi da parte di
autorevoli scienziati (Watson J., Phenotypic characterization and ontogeny of
a monstrous transgenic cyclist named Boldrini. Nature, 2000; 491-505.
Pauling L., Ethic and athletic consequences of laboratory recombinant DNA
research in a non-human cyclist with an aberrant hypertrophy of the lower limbs.
Science, 2001; 238-252).
Il webmaster sociale è ogni giorno subissato di
e-mail. Viviamo in una rovente atmosfera da ciclomercato con pericolosa
circolazione di voci incontrollate e lunghissime cifre. Ma qui lo ribadiamo una
volta per tutte: Boldrini è nostro. L’Empolitour ha depositato nel 2000 un
brevetto europeo che scadrà nel 2020. Fino ad allora le laboriose alchimie che
hanno permesso di creare in laboratorio questo OGM (Organismo Geneticamente
Modificato) sono protette dal segreto industriale. Boldrini non è clonabile
senza l’autorizzazione dell’Empolitour che ne gestisce anche i diritti
d’immagine. Una cooperativa agricola del Polesine ha chiesto di poter
utilizzare una sua gigantografia per salvaguardare i raccolti da locuste, talpe
ed uccelli migratori senza l’uso di pesticidi. Il sindaco di Pisa vorrebbe
erigere una statua bronzea di Boldrini al posto di quella di Vittorio Emanuele
II per scongiurare gli assalti degli storni che ogni anno in questo periodo
bombardano l’omonima piazza con olezzanti proiettili. Da un po’ di tempo i
bambini disappetenti hanno un nuovo nemico dopo l’orco, il lupo e l’uomo
nero. Molte mamme hanno infatti preso l’abitudine ad invogliarli al boccone
con frasi del tipo: “Se non mangi la pappa chiamo Boldrini”, brandendo
davanti ai più refrattari anche una foto del sinistro soggetto, di cui sono
disponibili alcune terrifiche icone nel nostro sito web.
Boldrini è un deterrente di prima grandezza. Come
arma biologica farebbe gola a molte potenze straniere ma l’Empolitour lo tiene
ben stretto nei suoi ranghi, consapevole che non esiste altro ciclista capace di
fungere da tiratore, istigatore allenante agli attacchi, fine dicitore e guardia
del corpo. Oggi, per esempio, ha salvato da ferale aggressione la squadra,
composta anche da Bertelli, Caparrini, Chiarugi e Nucci, che placidamente
pedalava in tripla fila sulla stretta strada per Strada. Un automobilista
frettoloso, che nell’inibizione del sorpasso ha prima sgommato a trombe levate
e poi inchiodato con intenti rissatori in risposta ai gesti d’ingiuriosa sfida
del gracile Nucci, quando dallo specchietto retrovisore ha messo a fuoco un
grugno ed una zucca finemente pelosi, non ha fatto in tempo a decifrare
quell’immagine con le sue conoscenze dei bestiari medievali che subito il
piede destro si è piantato sull’acceleratore con una contrazione istintiva e
per lui provvidenziale. E dire che Boldrini è animale di specchiate virtù,
mansueto, dolce, affabile, un esempio per tutti di ciclismo non violento. In
vita sua non ha mai fatto a botte perché evidentemente i suoi occhi chirghisi
sono istantaneamente dissuasivi, ogni sguardo è un cazzotto mancato.
Ma quanto ci costa questa amichevole protezione?
Boldrini non è legato da contratti, è unigenito figlio dell’Empolitour che
lo ha forgiato da materia ciclistica informe e lo ha allevato come una renna da
slitta, per tirare in pianura. All’inizio era molto solerte e zelante in
questo ufficio tanto da perdere sovente per strada l’intera carovana trainata.
Aveva un programma genetico che rispettava alla lettera ma poi, come il
calcolatore Hal, a cominciato a fare le bizze ed a ribellarsi alla volontà
umana quando a capito che i padroni potevano essere staccati anche in salita. I
compagni lo hanno a lungo sfruttato gratuitamente ma ora stanno pagando gli
arretrati con un dilazionato martirio. Un’altra rata è stata versata in
questo giorno che pareva nato nel segno della pace dei muscoli. L’incontro a
Montelupo con Lambruschini era un auspicio di bradicinesia, troppo presto però
dissolto nella volontà riduzionista del multilustre filosofo.
Qualche vagito di pioggia e l’imprevista salita
chiarugiana di San Lorenzo a Colline non hanno distratto Boldrini dalla sua
cieca determinazione di rivalsa nei confronti di Nucci e Chiarugi che lo hanno
sobillato quand’era ancora imberbe ed ora scontano a suon di molesti vocalizzi
ogni sua prestazione scalatoria. Perché Boldrini raglia di dolore se è
staccato ed ulula di gioia se stacca, e non si può fingere una preordinata
remissività perché comunque avrebbe da gracchiare per l’impegno non profuso
che per lui equivale sempre ad un’inferiorità volutamente inespressa. In
conclusione, alla fine di qualsivoglia salita Boldrini stride senza tregua e ciò
ben sa la Bertelli che ultimamente percepisce tali monologhi come un ronzio di
zanzara nell’orecchio o una grattata d’unghia affilata sulla lavagna. Meglio
domandarsi se “Il Bacio” sia una villa dal nome piano o sdrucciolo (un
accento che ha in palio posta irripetibile) ed attendere con Caparrini e Nucci
che Boldrini si sfoghi con quel sant’uomo di Chiarugi, il quale un po’
tollera ma poi esplode in uno scatto esagitato fino ad Impruneta.
La salita di Luiano, anch’essa imprevista e
inedita, evita un sicuro passo di guerra sui Falciani ma per dissetare
l’arsura agonistica di Boldrini bisogna aizzargli contro un agile ciclista
eterodosso che, per la solita sindrome del veltro, desta dalla cuccia anche
Nucci mentre Bertelli, Caparrini e Chiarugi gustano a piccoli morsi quella che
si rivela una delle salite più pianeggianti della provincia. San Casciano offre
un lavacro tempestoso che si sventaglia sui ciclisti dilavandoli integralmente.
Gocce simili a ghiaia rimbalzano sulla cotenna senza casco di Boldrini che sotto
l’acqua pare un micio spaurito. Ce lo ricorderemo così, in uno dei suoi rari
silenzi di debolezza che riescono ad ammorbidire anche la sua scorza metallica,
prima di lasciarlo convolare in pace. Infatti l’Empolitour concede ad una pia
donna l’usufrutto della sua creatura nonostante le urla e le automutilazioni
di ammiratrici disperate, con la speranza di riaverlo indietro più docile e
servizievole. Ma intanto come farà il narratore senza di lui?
02/09/2001 Il primo giorno di scuola
Sulla soglia di sede sociale il professor Caparrini
fa l’appello col registro in mano.
“Bagnoli A.!”
“Presente!”
“Bagnoli L.!”
“Assente!”
“Chiarugi!”
“Presente!”
Si aspetta una classe numerosa dopo le vacanze.
“Bagnoli, domenica prossima porta la
giustificazione per codesto grembiule asociale. Pucci, redivivo!”
“Presente!”
“Domenica porta il certificato medico, ma non
firmato da Pagni che è compiacente. A proposito. Pagni!”
“Assente!”
“Ricreazione più corta. Tempestini!”
“Pl..r..u..esente!”
“E sputa la cilingomma!”
Arriva un nuovissimo allievo con la barba.
“Giunti!”
“Presente!”
Ed uno vecchissimo, lui con le gote lanose per
incuria.
“Nucci!”
“Presente!
Entrata trionfale: ritorna a scuola coi vecchi
compagni il ragazzo della Via Gluck, partito a cercare lavoro e fortuna nel
mondo della competitività.
“Magnani!”
“Presente!”
La sveglia non ha trillato invano.
“Pelagotti!”
“Presente!”
Ecco anche il Franti dell’Empolitour.
“Boldrini!”
“Presente!”
La campanella è suonata da cinque minuti. Manca solo
la maestrina dalla penna rossa, ma lei, l’alunna delle Grazie, sa calcolare
bene i ritardi per arrivare ultima ed essere ammirata da tutti.
“Bertelli!”
“Presente!”
In Via Baccio da Montelupo la gente torna a
risvegliarsi al rumorio di un piccolo mercato domenicale. Un sole fresco bacia
la zucca di Boldrini non rasata di fresco. Chiarugi lo imita con auspicio di
pace. Ora si può partire per un nuovo anno scolastico.
La classe è piena di ripetenti che da anni studiano
sempre sulle stesse strade senza stufarsi. La prima lezione, di stile piano e
quindi di facile assimilazione, verte su San Vivaldo. Il professore l’ha
propinata settimanalmente ai suoi alunni sabbatici da settembre scorso a giugno.
Oggi è eletta a tappa domenicale per facilitare l’attenzione dei ritardati
d’allenamento e dei ciclisti più pii che desiderano pellegrinare nella
Gerusalemme della Valdelsa.
S’intuisce fin dalle prime pedalate che molti
avrebbero bisogno dell’insegnante di sostegno. Lo stesso Boldrini, abituato ai
primi banchi, fatica a rintuzzare sul Gelli le accelerazioni di Magnani e
Pelagotti che sono i primi ad essere chiamati alla lavagna e paiono piuttosto
preparati. Caparrini nel frattempo impartisce qualche lezione privata in ultima
fila a Pucci e Giunti, gli unici non ripetenti e quindi bisognosi di uno studio
più meticoloso.
Il primo giorno di scuola solitamente serve per
socializzare, raccontare l’estate passata e progettare gli intenti futuri. Qui
invece si va subito alle interrogazioni a tappeto.
“Parlatemi della salita da Certaldo a Poggio all’Aglione.”
“Quale salita?” risponde Chiarugi.
Boldrini, trepido e insicuro, chiede di poter uscire
per andare in bagno, dove tira fuori, oltre al necessario strumento
d’irrigazione davanti ad un’edicola piena di clienti, anche un Bignami e
qualche appunto nascosto che consulta furtivamente. Così facendo prende fiducia
e comincia a recuperare terreno sui compagni che ovviamente non lo avevano
aspettato e stavano già esponendo le loro interpretazioni della cosiddetta
salita. Magnani, Nucci, Pelagotti e Tempestini dimostrano una spedita loquela già
sulla prima domanda, la diritta rampa di Badia a Cerreto. Chiarugi indugia per
farsi avvicinare da Boldrini e copiare un po’ sbirciando nei suoi fogli. Con
quel che già aveva studiato e l’aiuto del compagno di banco, Chiarugi si
riunisce da solo al gruppo di testa mentre Boldrini ha un improvviso attacco di
balbuzie. Pelagotti, finora diligente, vuole strafare ed osa uno scatto non
richiesto, difficile come il paradigma del verbo irregolare
βλωσκω, che potrebbe fruttargli un nove e che
invece lo fa malamente impappinare insieme a Tempestini al momento di citare
l’aoristo εμολον. Rimangono così i tre
secchioni, Chiarugi, Magnani e Nucci a contendersi la lode e Chiarugi sulla
natia rampa di Gambassi si scatena con la catena alta e salda sul cinquantatré,
dimostrando una conoscenza molto personalizzata del tema che pur sempre era una
salita con tratti al 10%.
Otto dunque a Chiarugi, che ha studiato tutti i
giorni d’agosto, e voti dal cinque e mezzo al sette e mezzo agli altri, mentre
Pucci ottiene dal preside l’autorizzazione ad uscire in anticipo. L’unica
insufficienza, per imperizia e ingenuità, tocca a Boldrini che contesta il voto
urlando all’intera campagna una serie interminabile di vizi di forma degni di
ricorso ed alimentando così un fervente dibattito nel bel mezzo di un
trafficato crocevia. Quando arriva la maestrina, braccata da Pierino alias
Bagnoli A., invece di dare il bacio accademico al primo arrivato, si mette a
redarguire con aria collerica questa rumorosa concione, stizzita dalla voce di
Boldrini che echeggia di qualche ottava sopra le altre. Per fortuna suona di lì
a poco la campanella della ricreazione a San Vivaldo e la classe scioglie nei
caffè la gaia animosità e li addolcisce. Il professore impone una visita
guidata alle cappelle del Sacro Monte per variare un po’ la frusta lezione e
spiega la dottrina categoriale delle acque da borraccia, sostenendo con prove
pratiche che la valutazione classica a stelle intere e frazionate può variare
nel tempo e nello spazio. Ossia un’identica fontana può guadagnare o perdere
stelle già acquisite con lo stesso verificatore e due fontane limitrofe che
pescano dalla stessa vena possono essere quotate in maniera dissimile. Del resto
l’Empolitour come la scuola vive sulla soggettività dei giudizi, addirittura
i programmi che sembravano un’emanazione ministeriale, a volte una specie di
verbo costituzionale o teologico, adesso possono essere modificati anche in
itinere purché sia decretata la cassazione di una o più salite, come
accade al San Minato sostituito dalla piana dell’Egola al ritorno. Si sono così
evitati molti cinque o quattro che per essere rimediati avrebbero costretto i
ciclisti ad offrirsi volontari la prossima settimana in un’interrogazione più
dura.
15/07/2001 Alien
C’è vita altrove nell’universo? La domanda è vecchia di secoli e la fantasia dell’uomo si è appropriata del tema con molta avidità. Se gli scienziati sono cauti ed ipotizzano al più l’esistenza di qualche insignificante microrganismo in qualche inospitale e recondito sito extraterrestre, la gente comune, cresciuta nella cinematografia degli effetti speciali, non si accontenta di batteri, esige alieni antropomorfi che piombano sulla terra dopo un viaggio interstellare a velocità superluminale e si mostrano a pochi privilegiati, destinati ad un futuro nella gloria dei talk-show, palleggiati fra RAI e Fininvest.
Il nesso con l’Empolitour è presto detto. Questo
è il primo argomento di conversazione sollevato dall’intrattenitrice Beatrice
nella Marea diretta a Bormio con Chiarugi e Nucci agonisti da Stelvio, e sarebbe
rimasto un argomento estemporaneo e dimenticato se due giorni dopo nella cronaca
di Pistoia del quotidiano La Nazione non fosse uscito un singolare
articolo dal titolo Avvistato un UPO nella foresta dell’Acquerino che
riportiamo integralmente.
“Un alieno in bicicletta è atterrato sulla montagna pistoiese fra il passo della Collina e l’Acquerino. Pensavamo che gli extraterrestri viaggiassero solo a bordo di dischi volanti o astronavi pluriaccessoriate, ora c’è la testimonianza che sanno pure andare in bicicletta. La prudenza è ovviamente d’obbligo. La natura non-umana del ciclista avvistato è fuori discussione ma negli ambienti scientifici si preferisce definirlo cautelativamente UPO (Unidentified Pedalling Object, ossia oggetto pedalante non identificato) poiché potrebbe anche trattarsi del risultato di qualche bizzarro esperimento di ricombinazione genica fuggito da un laboratorio. Ad imbattersi in questa misteriosa presenza è stato un insegnante di lettere in pensione che domenica 15 luglio si era recato di buon mattino a frescheggiare nei boschi idratati dell’Acquerino.
« Ero seduto nei pressi di una fontana a quattro
stelle » ha dichiarato al nostro taccuino l’incredulo testimone « quando mi
sono visto apparire questo ciclistoide che aveva due enormi appendici
carnosamente turgide laddove ci si aspetterebbero gambe, e un tronco senza collo
come i blemmi da cui però spuntava una chiorba levigata posteriormente e
scolpita anteriormente in un mirabolante grugno. Appena sceso dalla bici si è
piegato in maniera asimmetrica cercando qualcosa sotto i pantaloncini e per
dieci minuti si è messo ad irrigare il sottobosco con un fetido liquido
giallo-verdastro accumulato in qualche cavità interna dell’addome. Poi si è
rivolto a me emettendo da quella che possiamo definire bocca, un acutissimo
strido che ha svegliato molti pipistrelli e mi ha fatto risolutamente propendere
per la fuga istintiva piuttosto che per il ponderato interesse umanistico che
stavo cominciando a provare per quella creatura. Dopo 18 minuti sono passati
altri tre ciclisti vestiti come lui ma sorprendentemente umani in volto. Ho
dovuto osservarli a lungo prima di capire se fossero fermi o in movimento. Ho
dedotto che si stavano movendo perché il più grosso dei tre si divincolava
sulla bici come se gli avessero versato dietro la schiena un secchio pieno di
formiche rosse. Incuriosito li ho seguiti di nascosto, e la cosa mi è riuscita
facile perché non perdevo le loro ruote neanche camminando in punta di piedi.
L’alieno mostrava di conoscerli bene ed ha sorriso quasi umanamente, forse
perché aveva ormai perso la speranza di rivederli. Ora ne sono certo:
provenivano tutti e quattro da un pianeta più piccolo della Terra e i tre
ritardatari erano così lenti perché non ancora abituati alla più intensa
forza di attrazione gravitazionale. Non c’è altra spiegazione razionale,
nessun ciclista terrestre può prendere distacchi di decine di minuti su una
mezza salita da un atleta così dismorfico. Vicino ad una fabbrica di trote (troteificio)
gli alieni si sono mescolati alla folla dei gitanti che non ha notato nessuna
anomalia nella fisionomia e nel comportamento loro, inusuali per ciclisti
terrestri, neanche quando il meno robusto dei quattro si è denudato per
mezz’ora cospargendosi il corpo con un puzzolente unguento.
Vite extragalattiche passeggiano e pedalano
inosservate tra di noi. Altro che società multietnica, da oggi comincia quella
multiplanetaria! ».
Il professore, rapito dall’enfasi, ha poi concluso
il racconto con il riferimento alla pluralità dei mondi già preconizzata da
Lucrezio e Giordano Bruno. Subito dopo gli è stato proposto un contratto
triennale col Maurizio Costanzo Show.”
Questi i fatti riportati in esclusiva
dall’autorevole giornale, molto usato dai ciclisti per proteggere la pancia
dal freddo delle discese. Saranno coincidenze ma proprio in quei momenti Nucci e
Chiarugi erano impegnati nel boccheggiante decollo sul freddo pianeta Stelvio
mentre Boldrini pedalava, con Boretti, Caparrini e Pagni al suo lontanissimo
inseguimento, guarda caso proprio sulle strade della foresta dell’Acquerino.
Chissà se anche loro hanno incontrato gli alieni.
08/07/2001 Solitudine
e moltitudine
Uno dei nostri dieci lettori ci ha fatto notare che l’Empolitour sembra una setta di Quaccheri che vive un ciclismo religioso, esoterico, isolato dagli altri, chiamati spregiativamente asociali o eterodossi; un mondo puro per occhi puri, dove gli adepti si accoppiano solo fra di loro, non portano armi in tasca o numeri in dorso e rifuggono le gare come fossero emanazioni dell’Anticristo. L’attento e interessato lettore descrive questi atleti atipici come animali miti cha all’occorrenza però sanno accantonare la complessione molliccia ed efebica per assurgere in fretta dai blandi riposi ed inscenare cruente tenzoni contro le salite e contro Boldrini, sempre e comunque in una mescolanza elitaria di sangue blu e bianco.
C’è molta verità in questo pensiero, ma non
tutta. Il presidente Caparrini ha giurato: non fia che il suo spirto mai si
mesca in empissimo agone. Le frontiere del possibile sono inesplorate ma certo,
vedere Caparrini col numero sulla schiena e il casco in testa susciterebbe lo
stesso impatto emotivo di un incontro con un basilisco o uno sciapode o con
qualche altro animale mitologico come un Boldrini con gambe belle e affusolate.
È dogmatico, inflessibile ma non autoritario il presidente, che concede
assoluto libero arbitrio ai proseliti anche per occupazioni da lui esecrate,
come appunto gareggiare, portare il casco o pedalare in mountain bike. Nasce da
questa liberalità l’odierna pacifica scissione in due terne, in due anime
parallele. Da un lato, il trasporto dell’onda di tradizione con Boldrini,
Boretti e Caparrini, su e giù due volte per il monte Serra, dall’altro, il
trasporto dell’onda di perdizione con gli agonisti della Prato-Abetone
Chiarugi, Nucci e Pelagotti e l’insolita Beatrice accompagnatrice senza bici,
una rinuncia che ispirerà la storia delle conversioni celebri. Questa donna un
tempo dannata all’agonismo, prima pedalava senza mangiare ora mangia senza
pedalare. Farà la fine di Paolo di Tarso o dell’Innominato?
Solitudine contro moltitudine. È ovvia la presenza
di Boretti nel trio dei solitari. Per lui il concetto di agonismo in bicicletta
trapassa sulle salite nel surrogato etimologico di agonia. Meno chiara è quella
di Boldrini che in una competizione potrebbe finalmente sfogare ciò che è
ancora inespresso della sua indole belluina. Sembra che abbia provato ad
iscriversi alla Prato-Abetone ma che i giudici si siano opposti, adducendo come
circostanza contrastante l’attuale vacatio legis nei regolamenti
federali che non prevedono un’apposita categoria per ciclisti transgenici. In
realtà i motivi sono soprattutto di ordine pubblico. Nessuno voleva assumersi
la responsabilità di lasciare libero Boldrini in mezzo ad una fiumana
d’indifesi ed innocenti ciclisti ignari della sua ferocia. Gli organizzatori
gli hanno però assicurato la partecipazione nel 2002 in una speciale griglia di
merito, una specie di gabbia anti-squalo da cui sarà liberato mezz’ora dopo
il via ufficiale per garantire l’incolumità dei partenti, altrimenti capaci
di reagire alla sua raccapricciante presenza con un fuggi fuggi caotico e
attacchi di panico collettivo. Chi non è abituato come i suoi compagni a vedere
Boldrini mentre pedala può seriamente turbarsi. Forse per questo Caparrini
decide di anticipare la partenza alle 6.45, nell’incognito dell’alba quando
è raro trovare per strada bambini e donne incinte.
S’aduna voglioso, si sperde tremante da Prato a
Pistoia il maremoto di biciclette in cui si sciolgono tre piccole gocce, Nucci
in prima fila, Pelagotti nel mezzo e Chiarugi nel fondo, mentre da Calci
l’usato corso del Serra si compie in un’ascesa ascetica tra freschi panorami
in forzata armonia. Boretti tenta un ardito avvio e Caparrini, quando a fatica
lo raggiunge, gli sussurra due paroline nell’orecchio e poi glielo morde, come
fa l’omino di burro di Pinocchio al ciuco recalcitrante, per ricordargli che
il Tour non è il paese dei balocchi e che se vuol partecipare con profitto deve
mettere d’ora in avanti la testa a posto. Boldrini va su con irriverente
supremazia e può concedersi due soste urinarie e varie inversioni ad U per non
perdere i compagni.
Intanto il mucchio selvaggio fra tema e desire
s’avanza e ristà: frenate stridenti, urla di all’erta, ruote che si
addensano in ogni strettoia. Scene d’ordinario ciclismo affollato. C’è chi
gonfia le gomme come se volesse volare e poi gli esplodono dopo un chilometro,
chi semina borracce, chi semina sacchetti, chi cade sulle borracce seminate, chi
tritura i sacchetti fra gli ingranaggi ruotanti e chi si salva dalla bolgia in
pianura ma poi cade da solo in salita. Nel magma di bici che si sgretola
innalzandosi verso l’Abetone i tre microbi dell’Empolitour galleggiano con
alterne successioni d’affanno. Il silenzio delle salite rende soli anche in
mezzo a tanta vita che ti passa davanti e didietro: c’è un ciclista diverso
ad ogni battito di cuore. Almeno cento ne arrivano prima dei nostri che alla
fine vincono solo medaglie di materiale interiore. Pelagotti batte il record
delle tre ore, Chiarugi batte il record di sorpassi, Nucci batte il record di
gare fatte senza premi esteriori.
Il Lento del ristorante Monteserra batte il record di
deprezzamento dei propri servizi alimentari e con diecimila lire Caparrini,
Boretti e Boldrini saccheggiano le residue scorte della sua dispensa. È rimasto
al costo della vita di venti anni fa perché il suo tempo scorre più lentamente
di quello convenzionale e sta entrando adesso negli anni ottanta. Pensa che il
Pisa sia ancora in serie A ed offre a costo zero ai sui fedeli avventori un
introvabile caffè Nerazzurro prodotto da Romeo Anconetani. Ora, ahinoi, il
ristoratore più frequentato dall’Empolitour è destinato a migrare a valle.
Anche lui come l’Empolitour nel suo futuro vuol vedere meno salita e più
agio.
Finiscono le salite e cominciano le domande
esistenziali. Dall’Abetone al monte Serra ci si chiede: ma dove sono i
Pirenei?
01/07/2001 Che
sarà
Disteso come un vecchio addormentato sopra una protuberanza interna della montagna pistoiese, disposto a foggia di ventaglio rovesciato che si posa a lenzuolo sul boscoso cacume. Appuntito. È forse così che prese il nome di Pontito questo paesino occultato nell’anima verde della Svizzera Pesciatina, messo lì a bella posta per essere evitato da tutti, anche dai ciclisti, gli unici che da Pietrabuona potrebbero decidere di seguire incuriositi la sfilza di cartelli segnaletici che sembrano condurre a paesi inesistenti, abitati tutt’al più da gnomi ed elfi: Medicina, Fibbialla, Aramo, Stiappa ed appunto l’appuntito Pontito; gli unici che già persi e inghiottiti dall’assenza, dai silenzi di Calamecca, Crespole e Lanciole potrebbero deviare le ruote verso questo paese museo desolato e morente. Una settantina di abitanti, età media sessant’anni, natalità zero, mestiere più diffuso la vedova, sport più praticato l’emigrazione. La noia, l’abbandono, il niente son la tua malattia. Non ci sono risorse economiche. L’agricoltura è limitata a qualche orto e a due piante di amareno selvatico (sempre che non le abbiano già usate come combustibile quest’inverno). Il commercio s’impernia sul Buco del Grillo, Bar-Alimentari-Piatti Caldi, locale che condiziona in modo determinante il flusso turistico: dalle quattro alle sei presenze annue, tutti ciclisti dell’Empolitour che sopra un tronco di frassino adibito a panca vengono ogni estate a cibarsi di pane e prosciutto.
Eppure è un bellissimo paese. Quando oggi è apparso
dal cielo il pimpante Pelagotti, nel borgo medievale hanno riassaporato dopo
lunghi mesi geriatrici un po’ di fuggevole giovinezza seppur attenuata
dall’arrivo dei veterani Caparrini e Pagni e del visibilmente decrepito
Boretti. Erano partiti in cinque, ma Bagnoli A. tutte le volte che vede una
salita lunga si ricorda di aver lasciato il gas acceso in cucina. Sull’assenza
di Boldrini ci sono le solite fondate indiscrezioni. Dopo la famosa notte delle
polveri è stato convocato alla prima udienza del processo per direttissima dove
il presidente della Corte d’Assise gli ha srotolato davanti agli occhi
chirghisi un papiro pieno di capi d’imputazione, dall’abigeato all’uxorifagia.
A questo punto la sua partecipazione al Tour diventa davvero inconciliabile. Le
operazioni processuali si dilungheranno inevitabilmente. Intanto sono da
sostituire cinque membri della giuria popolare colti da improvviso mancamento
alla vista del truce imputato e poi da nominare altri periti chimici per
l’analisi delle famigerate polveri dopo che i primi incaricati hanno accusato,
forse per semplice inalazione, sintomi invalidanti ed imbarazzanti (poliuria,
gigantismo ipertrofico delle cosce, deformazione delle ossa del massiccio
facciale, ispessimento del collo e muta del timbro vocale con tendenza alla
logorrea stridula).
La corsa si è trascinata nella torrida mattinata fra
sbadigli e sudori, con Pelagotti sempre in testa a dettare il passo. Molti
villeggianti di Margine di Momigno hanno pensato ad un refrigerante temporale
udendo un fragoroso scroscio d’acqua sulla strada, ma poi si sono accorti che
era Caparrini che stava strizzando la fascia tergisudore dopo la salita. Il sole
ha il potere d’inondare il presidente e i suoi accoliti come diceva
enfaticamente l’Artale: “Prodigio tal non rimirò natura, bagnar coi soli e
rasciugar coi fiumi”. I quattro benvenuti forestieri arrivano alla fontana di
Pontito come mercanti di sete, ma nessuna fatica, nessun ristoro può
trattenerli a lungo fra le morte viuzze e le petrose ombre. Paese mio ti lascio,
io vado via. Via a quaranta all’ora con Pelagotti animato dalla forza di una
pariglia di renne che traina la slitta dei compagni debilitati e grinzosi. Egli
invece grintoso gronda nelle ultime pedalate sociali prima di vivere un giorno
da agonista e poi darsi alle sabbie. Un po’ d’Empolitour andrà ancora
all’assalto delle piramidi dell’Abetone. Ma forse questa è un’altra
storia. E sarà, sarà quel che sarà.
24/06/2001
Corsi, ricorsi e soccorsi
La
storia dell’Abetone è anche storia di grande ciclismo. Non ci riferiamo alla
fama di Coppi, qui sbocciata al Giro del 1940, ma più sciovinisticamente alla
fioritura dell’Empolitour sulle rampe di questa montagna, divenuta sede di una
classica ormai vetusta ma ancora fascinosa. Questa strada, costruita nel 1778
per volontà del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo I e del Duca di Modena
Francesco III, era già solcata dalle primitive draisine dell’Empolitour, i
cui membri paleociclistici pellegrinavano da Empoli al passo delle piramidi come
rito d’iniziazione ai misteri del granfondismo, senza vergognarsi della loro
marchiana incompetenza atletica. Si ricorda un’edizione del 1986, o giù di lì,
con Nucci e Bagnoli, quando il futuro granfondista, sopraffatto da fame lupina,
prese d’assalto lo sfilatino di un’allibita signora appena uscita da un
negozio di alimentari, o quella del 1988 quando ancora Nucci, evidentemente poco
convinto del suo futuro di granfondista, dopo 150 chilometri di piena pena
approfittò di un banale guasto meccanico per caricare la bici sull’ammiraglia
in alternativa ad un invalicabile San Baronto, lasciando Chiarugi tenace e
solitario.
Ma anche nella culla dell’Empolitour
l’Abetone ha partorito uomini forti. Pensiamo a Sani detto Vinicio, la
promessa di un domani che non è mai diventato oggi, un oggi di 90 chili e 30
sigarette che nel 1994 fu autore di un attacco regale alle Regine. Pensiamo allo
stesso Nucci che dopo anni di sudditanza chiarugiana si rivelò al grande
pubblico con una fuga a sorpresa e vincente iniziata sulla pre-salita di
Astracaccio, o in tempi più recenti alle cavalcate brade del puledro Pelagotti
che dalla Lima all’Abetone cominciò a segnare le misure della propria
evoluzione.
Dopo un anno di penuria la classica
dell’Abetone oggi è fiorita anche nel numero di partecipanti, alcuni più o
meno adusati (Caparrini, Nucci, Pagni, Pelagotti, Bertelli, Boldrini e
Tempestini) altri esordienti (Bitossi e Boretti). Manca l’assiduo Chiarugi ma
non è assente. Mentre alle 7.30 la sede sociale comincia a vivacizzarsi di bici
e rumori, da Pistoia risuona un colpo di pistola seguito da un’onda lunga di
vibrante scalpiccio. Il podista sociale si è votato a pestare 53 chilometri di
cruento asfalto per confrontare e fondere sul culmine della montagna la propria
fatica con quella dei ciclisti, in un incontro ristoratore di destini.
Ultramaratoneti e granfondisti si muovono quasi contemporaneamente ma i primi,
dopo l’indistinto vocio nel carname della partenza, si sgretolano in un
duraturo silenzio di soggezione, i secondi invece perseverano in dolci relazioni
anche sui pedali. C’è pure un inaspettato motivo di conversazione. Bitossi
junior porta infatti con sé il rinomato papà, tornato a degustare la bici dopo
un ventennio da Cincinnato, e Caparrini, memore di giovanili pulsioni, lo
cattura e gli enumera tutte le sue 143 vittorie, molte delle quali dimenticate
dal suo stesso beniamino, soffermandosi sulle ventuno tappe del Giro, le tre del
Tour, i due giri di Lombardia, i tre campionati italiani e il giro di Svizzera. Quando il
discorso cade sul mondiale di Gap, Bitossi, considerando anche l’imminenza
della salita, preferisce glissare, conscio però di lasciare il figlio in buone
ed informate mani.
C’è un accordo più o meno tacito di
concentrare sulla salita dell’Abetone le bramose voglie di belligeranza. Le
orecchie volpine di Nucci hanno captato per tutta la settimana acuti fischi di
sfida. Boldrini per sfuggire all’antidoping ha diluito le miracolose polveri
in una damigiana d’acqua distillata, bevendone l’intero contenuto prima di
partire. Poi da Empoli alla Lima riesce a diluire gli impulsi diuretici in sole
cinque soste. Pelagotti dal canto suo si è imposto una vita dietetica da vero
atleta per insidiare il gerarca scalatore ed ha limitato le iperboli del sabato
sera in un modesto mezzo chilo di gelato. Così il passo del Trebbio diventa per
tutti una passerella edonistica, ligi all’inflessibile norma del divieto di
scatto che molti, a dire il vero, non avrebbero soverchie capacità
d’infrangere.
Quando il gruppo transita alla Lima è
quasi mezzogiorno ed è quasi il solstizio d’estate. È questo il bivio delle
fatiche di chi corre e di chi pedala, da qui in poi ci si prepara a condividere
sguardi fuggevoli e sudati in mezzo a spettatori e addetti ai ristori che non
negano assistenza e incitamento anche ai privilegiati scalatori sulle due ruote,
molti dei quali non proprio persuasi di tale privilegio. Chiarugi è ormai a
poche smorfie dalla meta quando Caparrini assetato di record inaugura la salita
a cald’occhi e spron battuti fra la meraviglia dei compagni. Si scherza spesso
sul sollievo che dà l’inizio di una salita, quando ci si riappropria della
velocità individuale dopo un’esagitata comunione di pedalate incolonnati a
testa bassa. Chiarugi percepisce fisicamente un sentimento del genere: zoppica
in discesa ed arpiona la strada che s’impenna con falcate antidolorifiche. La
salita più dura lo salva dall’onta del ritiro e così rasserenato taglia il
traguardo e si adagia sull’asfalto nell’attesa del primo ciclista. Sarà
Nucci, Boldrini o Pelagotti? Le ruote si stanno arroventando. I tre guidano la
kermesse col piglio degli uomini di polso. Agli antipodi Boretti, l’uomo di
polso propriamente detto, riesce addirittura a sorpassare qualche podista
camminante, coi quali ha in comune, oltre la speditezza, anche la faccia
rassegnata e progressivamente esanime. Il trio dei probi è sul tornante topico,
Pelagotti si sta staccando quando un rumore ferrigno esplode fra i piedi di
Boldrini. Sulle prime gli altri pensano ad un infortunio, ad una lesione di
qualche elemento metallico del suo apparato muscolo-scheletrico, notoriamente
bionico, poi si tranquillizzano vedendo il serpente della catena spezzata
strisciare via in discesa. Sportivamente si sincerano che non si tratti davvero
di un suo tendine o legamento e che egli disponga dell’apposito attrezzo per
ricucire l’organo avventizio, quindi ripartono non privi di un istintivo senso
di liberazione amalgamato con la cristiana pietas che è dovuta anche ai
ciclisti transgenici. Boldrini offre un altro saggio di umana debolezza. Per
mezz’ora la sua bile diventa nerastra come l’unto della catena che tenta
nervosamente di riparare. La Bertelli lo guarda e passa. È una grazia in stato
di grazia. Quando la fatica le penetra nel sangue la sua vena temporale
superficiale si arriccia come un cavaturaccioli. Oggi invece ha le tempie lisce
e rosee, quasi si vergogna di star bene in questa valle di crisi ed evita di
raggiungere i battistrada solo per non intromettersi in questioni troppo
agonistiche. Dietro di lei il decadimento è presente o incipiente. Bitossi
aspetta Boldrini celando dietro l’apparente magnanimità del gesto
un’impellente desiderio di tregua. Tempestini è come se respirasse polvere da
sparo ma non arriva ad esplodere. Il tentativo di record di Caparrini arde
nell’illusione di due chilometri e lo affloscia al punto di ebollizione
irreversibile. Pagni va comparando la sua età agli indicatori chilometrici
della Pistoia-Abetone: invecchia di un anno al chilometro. Ne ha 36 alla Lima e
53 all’Abetone. Su Boretti non vogliamo infierire, basti il ricordo dei suoi
occhi quasi esorbitati.
Così, quando alla Casina Rossa
l’Empolitour si riunisce ecumenicamente davanti a tagliatelle e dolci,
Chiarugi, che sembrava il martire da consolare per il suo sovrumano sacrificio,
diventa egli stesso il consolatore, il Paracleto delle altrui gambe stracche,
come quelle di Pelagotti che s’inchiodano sotto il tavolo in una trafittiva
posa tetanica.
Ora sappiamo che tutti sono stati
capaci di tornare ad Empoli senza chiamare il 118 e questo lieto fine ci
autorizza ad una pietosa omissione di tutte le dolenti note disseminate sulla
via del ritorno, lungo la quale lo spirito d’aggregazione è riuscito a
salvare dall’abbandono le ruote deboli della carovana che continuamente si
staccavano dall’asse per manifesto sfinimento. Non vorremmo però che questa
bella filosofia ciclistica dell’Empolitour fondata sull’amicizia e sulla
poesia facesse dimenticare che le gambe durante la settimana non disdegnerebbero
un po’ di brutale materialismo sui pedali. Ma senza esagerare. Non è
auspicabile un livellamento atletico che farebbe sì diminuire i volti esangui e
i tempi d’attesa ma anche il fervore romanzesco. L’unità nella molteplicità
è la forza di questa squadra multietnica ove coesistono pacificamente
cinquecento chilometri in due giorni e cinquecento chilometri in due mesi. Per
il bene della letteratura dunque, il Tour è vicino, continuate a non allenarvi.
10/06/2001 Lo scoop
Oggi, prima domenica dopo i fasti del Giro, i protagonisti sono gli assenti. Boldrini non si è presentato al raduno di partenza per la tappa di Sammommè, ufficialmente a causa di impegni battesimali, ma la realtà dei fatti appare molto meno idilliaca. Le fonti di questo scoop sono solide, i sospetti aleggiavano da tempo ed ora arriva la ferale conferma: l’ombra del doping grava anche sulla Ciclistica Empolitour. Nel registro degli indagati del sostituto procuratore di Firenze, assieme ai nomi dei professionisti colti in flagranza di reato durante il blitz di Sanremo del 6 giugno, compare anche quello di Boldrini. L’abnorme atleta empolese, che al Giro ha vinto il premio per il miglior attaccato, sia dal punto di vista ciclistico che verbale, la scorsa notte ha subito l’irruzione nella sua tana di alcune squadriglie dei NAS e della polizia veterinaria, quasi certamente in seguito ad una soffiata. Dopo un momento di subitaneo e comprensibile spavento (un agente ha dichiarato di non aver mai visto individuo più truce in tutta la sua decennale frequentazione con criminali incalliti), i militi gli hanno sequestrato alcune casse contenenti materiale pulverulento che emetteva una strana fluorescenza verde, come la criptonite di Superman. Boldrini è stato sottoposto anche ad un controllo ematico che si annuncia laborioso perché il liquido gelatinoso verdastro fuoriuscito dalle sue vene si è immediatamente solidificato nelle provette. Per consentire la fattibilità delle analisi è stato quindi necessario convocare d’urgenza il cardinale di Napoli, esperto in liquefazione di sangue.
Qualunque sia l’esito degli esami, la linea difensiva di Boldrini appare robusta. Le sostanze da lui ingerite non possono essere considerate dopanti perché non provocano un miglioramento delle prestazioni sportive dei normali esseri umani, anzi sembrano alquanto deleterie. Boretti infatti, suo compagno di stanza al Giro, durante il quale aveva furtivamente sperimentato su di sé l’efficacia di cotali polveri, è stato colto da una crisi di poliuria subacuta intermittente che ha impedito anche a lui la partecipazione alla tappa odierna. Era appena uscito per dirigersi alla sede sociale quando un flusso idrico d’inaudita potenza si è abbattuto sulla sua vescica. La polizia lo ha arrestato mentre orinava copiosamente nella fontana di piazza dei leoni ed egli, dopo mezz’ora d’interrogatorio, pur di ottenere un altro inderogabile permesso minzionale, ha reso spontanea confessione trascinando nelle accuse, con atto da sicofante ma opportuno, anche l’ignaro fornitore del materiale requisito.
Pur costernata da queste dolorose vicende, la squadra composta da Bagnoli A., Bertelli, Caparrini, Chiarugi, Nucci, Pelagotti e Tempestini ha deciso di disputare ugualmente la tappa, per rispetto nei confronti dei tifosi assiepati fin dalle prime ore del mattino sulle salite di San Baronto e Sammommè, e d’imporre, come forma esemplare di protesta e solidarietà, un’andatura controllata dietro le paciose ruote del presidente Caparrini. Vengono perciò cassati i tre traguardi valevoli per il Gran Premio della Montagna, anche perché senza Boldrini tutti sono concordi nel sostenere che non c’è sugo a darsi battaglia e che un giorno di requie dopo le esperienze pirotecniche del Giro, non è nocivo per nessuno.
Così durante il lunghissimo tempo d’ascesa del San Baronto, c’è modo di rivivere e raccontare agli assenti i dettagli delle vissute gesta, d’incontrare un’altra rara avis pedalante, con casco biondo come le chiome, che disquisisce con la Bertelli di ginecologia applicata al ciclismo e di disputare uno sprint simbolico vinto per distacco da Pelagotti su Bagnoli che poi si dilegua alla prima vista della montagna pistoiese.
Mommè è un santo senza calendario e agiografia, il suo paese bisogna andare a scovarlo fra i castagni per un viottolo abbandonato da Dio e dagli uomini, ove spuntano erbacce tra le rovine di un acciottolato ruvido e franoso. Anche qui Caparrini scandisce il passo fra le curve repentine, e ci vuole una strenua dedizione per non sorpassarlo. Si assapora la rilassata fatica del rallentamento forzato e della concentrazione. Ogni distrazione genera infatti brevi e subito redarguite fughe.
In questo mondo d’imbrogli e sotterfugi il presidente è una garanzia assoluta di purezza. L’idea del doping gli è estranea e inconcepibile come ogni altra pratica che rischierebbe di provocare in lui un miglioramento atletico da sempre osteggiato con rassegnata constatazione di limiti mai troppo osati. Così sul secondo sambaronto a nulla vale il traino morale dei fedeli compagni che sacrificano le ambizioni di velocità per spronarlo verso il record di scalata. Stretto fra Nucci e Chiarugi davanti, Pelagotti e Tempestini dietro, e l’incitante ed eccitante Bertelli a fianco, giunge ad un minuto dal meglio di sé e si appaga serenamente, senz’acido e senz’affanno come vuole la sua anima regolare. Ora che la scuola è finita il professor Caparrini promette però di raddoppiare i suoi allenamenti infrasettimanali e matematicamente ciò significa che se prima ne faceva zero, d’ora in poi ne farà zero moltiplicato per due.
27/05/2001 Il
primo sorso di Giro
Un fuggevole incontro, una furtiva stretta di mano prima dell’abbraccio sulle montagne: così l’Empolitour, in vista del suo brevissimo ma intenso Giro d’Italia, ha voluto salutare i veri girini, il gruppo ingagliardito da gambe novelle che sulla salita di Goraiolo mortificava con la sua rilassata e unanime velocità le ansimate scalate d’inizio stagione, quando i biancocelesti divampano in una simbolica tenzone sociale che prelude ai fasti del ristorante Tinti.
Simbolici possono considerarsi anche questi 110
odierni chilometri che, a fronte di una palese insipidità tecnica e tattica,
sono serviti per un significativo appello propedeutico al Giro e per un
sensibile ritocco dei ridicoli monconi di abbronzatura, con una non trascurabile
scorta di calore che sarebbe utile portare sui venturi gelidi passi.
Si potrebbe dire con Massimo d’Azeglio che la
Ciclistica Empolitour è fatta, ora s’hanno da fare i ciclisti. Nei volti dei
sicuri partenti vibra la tensione della vigilia. Si parla anche delle assenze.
Prevedibile quella di Bagnoli A. che ha già dato l’addio ai monti e
l’arrivederci alle classiche d’autunno. Imprevedibile la trama ordita da
Bagnoli L. per evitare un temibile overtraining. Dopo aver esaurito le scuse
classiche, strada bagnata, giardinaggio, matrimoni, battesimi, lavatura,
imbiancatura e stiratura, pare che il responsabile tecnico sia stato costretto a
simulare il reato di rapina ad un ufficio postale per fingersi condannato agli
arresti domiciliari e garantirsi un liberatorio immobilismo fino al Giro. Perde
così la benedizione di Baronto, santo protettore dei ciclisti empolesi che
torna ad essere protagonista della liturgia mattutina domenicale dopo vari mesi.
Partecipa invece Pagni che altre liturgie terranno lontano dal Giro ma che già
comincia a complottare le bozze dei piani sibaritici per il Tour con il
pericoloso alleato Boretti, adesso sfasciato nel polso ed integro nel corpo pur
sempre abbastanza bolso. Caparrini lo sorveglia affettuosamente su ogni
avvisaglia di salita. Il buon pastore vuol condurre sui pascoli alpini un gregge
folto e compatto e si premura di non isolare in pensieri di rinuncia le
pecorelle più lente. Gli altri invece non si peritano di aizzare la disputa con
una tacita escalation che inizia sul Ragnaino ed esplode già prima del
Conigliolaio, quando Nucci accende gli occhi del genietto e sorprende in una
breve discesa un Boldrini neghittoso e inconcludente col trentanove. Chiarugi si
affida audacemente alla scia di Nucci che guadagna metri preziosi tagliando
tutte le curve e seminando il panico fra i ciclisti provenienti in senso
contrario. Tempestini, senza gomma per i suoi denti, piomba in una repentina
crisi d’identità mentre Pelagotti sfoggia una calma sospetta. Tranci
indigeriti di chela di granchio stazionano ancora nelle sue viscere, stremate
dopo l’ennesima strage gastronomica del sabato sera, ma i suoi denti brillano
come i tosati polpacci. Li stringe sul Conigliolaio succhiando meticolosamente
le ruote dei capitani che poi sopravanza in facile volata sul GPM. Boldrini,
distante e abulico, dopo questo scorno atletico si becca anche il cazziatone
tecnico della Bertelli che si accalora per istruirlo sull’uso dei rapporti.
Ella, dopo la sosta forzata, non ha ancora di Bartali il tono delle gambe ma gli
si avvicina molto in quello della voce che così sortisce un effetto più
reprimente sul povero Boldrini.
Le tematiche tattiche e agonistiche della giornata si
esauriscono praticamente presso il trivio di San Baronto. Sulla salita di
Casore-Femminamorta Nucci e Chiarugi, staccato sul nascere il remissivo Boldrini,
convengono dopo qualche ostinato chilometro che i loro dolori di fegato e di
gambe si possano rimandare ad occasioni più rinomate e che la forma più
elegante di recessione sia quella di fingere una magnanima attesa degli ultimi
per evitare un’imbarazzante ricongiunzione con i pertinaci Pelagotti e
Tempestini, i quali indubbiamente meritano da parte del presidente una maggiore
considerazione nelle strategie di squadra, aldilà del ruolo indiscusso di
masticatori.
Le immagini che rimangono nell’intensa luminosità
meridiana sono pochi fotogrammi augurali. Si sorseggia un po’ di Giro nei suoi
aspetti più coreografici: palloncini rosa, venditori di gadget rosa, rotture di
coglioni rosa al passaggio della carovana pubblicitaria, ciglioni popolati e
soleggiati e bici affastellate tra le frasche. Si scopre che i motociclisti del
Giro hanno una cartina altimetrica rosa e un’anima notturna. Si riscopre il fascino
di Montecatini domenicale, che è garanzia di caos anche in momenti meno
speciali e che in veste di sede di tappa diventa un ramificato incaglio di
autoveicoli dove inevitabilmente il gruppo si frantuma. Davanti si isolano
Bertelli, Chiarugi e Nucci, in evasione silenziosa e maliziosa. Silenzio,
velocità e pensiero: la triade dei ritorni. Nasce una riflessione sul
significato del verbo portare, riferito al casco di Nucci, portato, nel senso di
trasportato, per tutto il giorno sulla pipa del manubrio. Si sbagliano coloro
che credono che la dibattuta questione dell’uso del casco sia di tipo
dicotomico: sì o no e tertium non datur. Nell’Empolitour ci sono
infatti quelli che non lo portano (Boldrini, Boretti e Caparrini), quelli che lo
portano ovvero lo indossano ovvero lo recano su di sé (Bertelli, Chiarugi,
Pagni, Pelagotti e Tempestini) e quelli che lo portano ovvero lo trasportano
ovvero lo recano con sé, come Nucci (è stato visto anche Bagnoli A. portare il
casco in questo senso, fra la maglia e la schiena a mo’ di gibbo
manifesto o tartaruga Ninja).
Sottigliezze semantiche a parte, ci auguriamo
naturalmente che tutti i caschi del mondo siano superflui. E ci auguriamo anche
che un giorno la Bertelli applichi la terza accezione del verbo portare al suo
body conturbante, cioè lo trasporti legato al manubrio mentre pedala bellamente
indossando soltanto il casco. Probabilmente il gruppo non si frazionerebbe con
tanta facilità.
20/05/2001
Soffi di silenzio
Fra i pollini e i petali che volteggiano nell’aria calda e irrequieta, l’Empolitour avanza con timide movenze di pedale. Non è un fuoco che col vento può morire, non c’è un calo di desiderio come potrebbe sembrare dai partenti ridotti e taciturni. Eventi imperscrutabili privano il gruppo delle due paia di gambe più belle. In assenza di Bertelli e Pelagotti è difficile stabilire a chi spetti oggidì la palma d’oro per tale attributo estetico, se agli enfiati prosciutti di Boldrini, ai glabri stecchi di Nucci, ai nodosi trampoli di Chiarugi, alle adipose leve di Boretti, ai bianchicci pistoni di Bagnoli L., agli imbottiti femori di Caparrini o alle caprine tibie di Pagni. Fuori concorso, ma piacevolmente ritrovati, sono gli arti dello sfortunato neofita Alessio, restituito a nuova bici dopo una frattura e giunto a sorseggiare nuovamente per qualche chilometro lo spirito di gruppo troppo prematuramente versato per terra.
Altre gerarchie devono ancora essere definite. Il Giro è vicino e il presidente Caparrini dorme il sonno tormentato di Don Abbondio pensando alla formazione da schierare, di cui ignora anche l’entità numerica. Soprattutto è indeciso se affidarsi al capitano unico, al modulo a due punte o ad un ardimentoso tridente. In effetti lo spaventevole Fossato non ha ben delineato i distacchi fra il granfondista Nucci, il maratoneta Chiarugi e l’abominevole Boldrini. L’altopiano delle Pizzorne dalla via di Matraia diventa così un banco di prova non meno severo e decisivo. Per questo motivo all’inizio il silenzio soffia più forte del vento. L’alito della responsabilità aiuta i pensieri turbinosi. Il loro flusso si oppone alla marcia dei ciclisti che pur spinti da una benevola corrente d’aria si rifiutano di superare i trenta all’ora. La loquacità si coltiva in genere sul terreno della lentezza ma senza la Bertelli le voci non si animano. Anche il sole decide, per solidarietà con la sua stella preferita, di celare l’estivo splendore fra crescenti effusioni nubilose. Boldrini non stormisce ma parlotta intimamente con Nucci mentre Chiarugi finge di non ascoltare per carpire le trame dei rivali. Bagnoli è preoccupato di arrivare al Giro troppo allenato con i 108 chilometri che lo aspettano (pari ad un quinto del totale annuale accumulato). Boretti è serenamente rassegnato a nuova espiazione e, sapendo di non potersi ridurre peggio di com’è già, gioca la carta della temerarietà. S’inserisce in una fuga col triumvirato Boldrini-Chiarugi-Nucci e anticipa di un paio di minuti gli altri tre più regolari e pazienti. Caparrini è costretto ad inseguirlo per mezza salita fino a Matraia dove lo agguanta per il lobo di un orecchio, tirandoglielo ripetutamente in segno di paterno rimbrotto prima di staccarlo (Boretti non l’orecchio).
Intanto le tre punte s’infiltrano tra canuti ciclisti eterodossi imponendo loro un’andatura assai rantolante, tanto da indurli a sospirata desistenza alla prima occasione di bivio. Quando Chiarugi e Nucci si sbarazzano degli ultimi dispnoici, la cotenna di Boldrini comincia a mostrare le prime grossolane increspature. Un luccicore perlaceo pervade il suo cranio, una diffusa acidità le sue cosce. La salita lo guarda fissa nelle sue ombrose inclinazioni e lo castiga.
Chiarugi non ha pietà dei deboli e tira rapporti aspri nella pienezza delle sue gambe rinomate. Nucci perde poche curve e pure la speranza di una leadership incontrastata, Boldrini è respinto a quasi cinque minuti. Pagni arriva abbottonato, come testimonianza di frescura climatica più che di freschezza atletica. Bagnoli è braccato a vista da Caparrini che lo riprende sul finale con lo stesso pinzamento auricolare riservato a Boretti. Tutti aspettano ancora lui, l’uomo di polso. I suoi dolori sono totali, unanimi, indistinguibili. Ad un certo punto il polso malmesso diventa la parte del corpo meno afflitta. Confida che l’Empolitour non venga meno al principio d’illimitatezza delle attese e infatti anche dopo venticinque minuti trova i compagni che tamburellano con le dita sul manubrio o conversano con una bikers lentigginosa o dibattono animatamente se le Pizzorne siano più o meno dure del Fossato*.
Bici massicce e sottili rimangono appoggiate ad uno steccato altri indeterminati minuti mentre i loro possessori osservano il rituale raccoglimento edulcorato della sosta-Pagni. L’arconte eponimo, per ovviare ad un certo livellamento di consumi che ultimamente gli sta oscurando l’antica nomea, decide in discesa d’appartarsi in un campo a razziare un ciliegio, incurante della presenza di un contadino che lo fissa maneggiando il pennato. Boldrini, indignato da tanto indugio frugivoro, si mescola ad un trio di ipercinetici e fila via senza voltarsi come ai tempi dei famosi automatismi di ritorno, privando il gruppo della sua incrollabile scia. Così, per colpa di poche ciliegie degustate da un solo elemento, tutti i restanti elementi sono costretti a degustare piene dosi di vento contrario e contrariante che spazza via i pensieri e le parole ma non l’appagamento intrecciato incomprensibilmente nel groviglio della fatica.
*Se si riduce la difficoltà di una salita ad un numero pari al decimo del prodotto fra il quadrato della pendenza media e la lunghezza addizionato al quadruplo della pendenza media (vedi Archivio salite d’Europa http://www.ticino.com/usr/livio/ o Pianeta Ciclismo http://pianetaciclismo.supereva.it/ ) le Pizzorne battono il Fossato 84,34 a 52,14. Ma siccome il Fossato è una salita disomogenea che concentra in quattro chilometri tutte le sue passioni, sarebbe più corretto il confronto con la formula di Codifava, D = S [ li*pi^2/10 + 4*(pi/P)*(li/L)*pi ], che utilizza pendenze e lunghezze parziali. Lascio al presidente Caparrini l’onore dei calcoli.
13/05/2001 Un
uomo di polso
Per celare agli altri i confini delle proprie capacità fisiche bisognerebbe non tentare di oltrepassarli. Esistono ciclisti pudichi e razionali che si mantengono sempre a distanza da questa soglia ideale fra passione di bicicletta e passione di Cristo. Non amano far pubblica esibizione dei loro dolori e perciò ingeriscono chilometri e pendenze a dosaggi soppesati e misurati secondo il proprio stato di salute e di allenamento. Ma se il ciclismo può alimentare la fiamma della poesia è perché esistono gli sregolati, quelli che pedalano senza inibizioni e tabelle, che ignorano i consigli del medico e della nonna e che prima di partire ripongono la ragione in un cassetto da riaprire il lunedì mattina. Anche da questo modus pedalandi può derivare la virtù.
Così nel giorno consacrato alla classica del Fossato, l’erta annoverabile fra gli strumenti di tortura condannati da Amnesty International, l’imprevedibile Boretti si sveglia al suono di pensieri sconsiderati per inseguire la sublime abnegazione dell’eroe. Non ce ne vogliano gli altri. Non ce ne voglia il Nucci augello solingo e fuggitivo, il Chiarugi stacanovista ingordo e superbo, il Boldrini sparviero unghiato e stridulo, il Tempestini concreto masticatore di rampe, il Pelagotti magistrale esecutore di sinusoidi, la Bertelli idilliaca osservatrice di fiori, il Pagni saggio consumatore di viveri, il Caparrini plateale limatore di primati. Non ce ne voglia il fedele centauro Torcini che inorgoglisce l’Empolitour con la sua passionale scorta e adorna l’evento già ricco d’emozioni con la coreografia delle foto. Ma oggi è il pacato ed illogico Boretti ad assurgere indiscutibilmente agli onori della cronaca. Pochi giorni addietro una collisione con un’auto pirata gli aveva intaccato il già flaccido corpo e la poco usufruita bicicletta, ponendolo in condizione di giustificata staticità. Il fato però ignorava l’esistenza di un’invitta gagliardia sotto quelle spoglie apparentemente trasandate. Egli potrebbe brandire in segno di resa il polso fasciato e la mano poco prensile o appellarsi alla convenzione sociale del percorso ridotto, ma preferisce lasciarsi trascinare lungo l’Arno e il Bisenzio dall’amichevole corrente, fra i riflessi bianchi, azzurri e gialli del gruppo sottoposto per due ore alle ingiurie della civiltà motorizzata e semaforica. Questa macchia tricolore è ancora uniforme quando imbocca il bivio del non ritorno, l’ultimo prima dell’ora lenta dei sudori affannosi. Torcini dipinge nel fluire della pellicola le istantanee espressioni dell’uomo contro l’inclinazione preternaturale della strada. Essa produce tante strenue solitudini vicine nello spazio ma lontane nel tempo. Nucci becchetta i pedali e dondola la soffice pancetta mentre stacca Chiarugi colto dai vendicativi crampi della presunzione. Boldrini perseguita tutti e due con distacco e, nella piena potenza delle sue abominevoli movenze atletiche, protende come il becco adunco di un rapace la bazza pelosa. Tempestini si comprime in una pedalata storta e traballante ma redditizia. Pelagotti è impegnato a tracciare con accuratezza trigonometrica la linea di minima pendenza e finisce per percorrere una traiettoria a dente di sega che gli quintuplica il chilometraggio senza ridurre i postumi dolorifici della scalata. Sulla Bertelli la fatica genera disincarnazione, il corpo separato dalla mente e dagli occhi che notano la curiosa tricromia sociale dei fiori lungo la via, quando gli altri sono concentrati al massimo sul battistrada del fascioncino anteriore. Infine riceve da una passante preziose informazioni sulla lessatura delle vitalbe (e che sono?). Pagni lascia libere dalla cerniera le due metà della maglietta che si aprono come patagi di pipistrello col quale condivide anche l’aspetto del torso grigio e peloso. Non emette ultrasuoni ma sonori rantoli di facile udibilità. Anche Caparrini non è un modello di silenziosità. I vortici aerei che solleva respirando, lo scroscio del sudore e lo scricchiolio della scarpetta lo annunciano con un chilometro di anticipo all’arrivo dove inscena uno sprint circense per battere di cinque secondi il record di scalata. Ma non dimentichiamoci di Boretti che si avvicina alle ostilità della salita con polso fermo (in tutti i sensi) e risoluta volontà di autonomia. Può sopravvivere soltanto disincarnandosi, più della Bertelli, fingere che quella parete d’asfalto non sia destinata alle sue gambe inconsistenti e nello stesso tempo eludere con sdegno le trascinanti lusinghe della moto. Così annega la mente in un pensiero lunghissimo, in una concatenazione d’idee sgorganti dalle profondità della sua lentezza. La ruota anteriore non ha più segreti, impercettibile è il suo movimento. E dopo aver memorizzato tutte le scritte, le scanalature e i graffi sul fascioncino, gli sovvien l’eterno e non sente che la salita lo sta divorando perniciosamente. “Così colui del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto.”
Il miracolo della resurrezione sta però dietro l’ultima curva fra gli applausi e le congratulazioni dei compagni che lo rigenerano sicuramente nello spirito, perché nel corpo manterrà ancora per molto tempo tracce evidenti di decomposizione.
Dopo questa pagina di libro Cuore, tutto il resto è appendice. Lasciamo intuire ai lettori se il cadaverico Boretti abbia ceduto o meno all’attrattiva del traino lungo la via degli strappacci che conduce all’anelato troteificio dell’Acquerino. Un atto eroico non ha bisogno di conferme e, come si sa, la carne è debole. Poi gli strappacci rimangono alle spalle, più lontani della memoria dell’impresa.
Mentre le urne funerarie del popolo italiano si stavano riempiendo di ceneri, le urne dell’Empolitour si riempivano di consensi per Boretti che così si assicura senza allenamento un seggio per le prossime spedizioni al Giro e al Tour.
06/05/2001 La
ricerca dell’acqua
La pioggia non è un termine univoco per l’Empolitour. Può significare indecisione, titubanza, rinuncia, frustrazione, eroismo, pusillanimità. Risoluta ed inibente quando è iniziale, ineluttabile ed eccitante quando è finale. Il ciclista che si risveglia sotto il cielo irrorato diventa un inquieto groviglio di cogitazioni ma se l’acqua lo coglie nell’esercizio delle sue funzioni può addirittura esaltarsi. C’è chi ha affermato che le gambe bagnate sono anche più sexy. La soglia decisionale che vince l’inerzia dell’avvio è molto mobile e personalizzata, non è possibile cioè stabilire un criterio di entità e qualità pluviale valido a priori che permetta di dirimere, senza ulceranti elucubrazioni, la dicotomia del partire o non partire. Nella storia dell’Empolitour si rammentano in tal senso due date emblematiche:
6 luglio 1996 Tour de France: una pioggia di un
centinaio di chilometri fra Brides-les-Bains e Bourg-St. Maurice. Quattro eroi
(fra cui l’idrofugo Bagnoli L.) annaspano in mezzo ai flutti scalando un colle
di duemila metri. E poi tutti a compiacersi del sofferto passato, sospirando che
uscir di pena è diletto fra noi.
1 giugno 1997 Giro d’Italia: una pioggia di un
centinaio di metri fra Stresa e le isole Borromee. Otto bischeri traghettati
verso una densa futilità mentre i ciclisti veri stanno penando sul Mottarone. E
poi tutti al festevole banchetto col cacciucco di Casale Monferrato.
Oggi non fa molto rumore. Precipita e bagna l’asfalto con delicatezza. Rumoreggiano però i telefoni. La seduta sembra alfine sciolta, il Fossato rimandato, l’Empolitour disgregato. Caparrini diventa l’asino di Buridano.
Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morrìa di fame,
che liber’uomo l’un recasse ai denti.
Pedalata brevis con Tempestini o corsa lentula
con Pagni? Trattasi palesemente di due alternative invereconde. Chiarugi, che
subodora pochezza atletica, si dissocia errando umido e solo coi piedi per
terra. Ed erra in tutti i sensi perché i compagni in triplice intesa finiscono
per coalizzarsi a sua insaputa, quasi proditoriamente. Caparrini in un momento
di tregua atmosferica unisce le sue due indecisioni e si spinge con
un’insolita formazione tridentata verso l’insolita meta del monte Serra, a
cui mancava da ben cinque giorni. Stesso Serra, stessa strada, quella di Pieve
di Compito, soffusa di un vapore acqueo che isola e affascina. Bastano poche
curve perché questo piccolo estratto di Empolitour si sgretoli in tre unità
disperse. Su quella terra per nove chilometri sono l’unica forma di vita.
Tempestini pedala in testa senza usare il ventisei e, vista la caratura degli
inseguitori, può permettersi di respirare gonfiando gommosi palloni con la Big
Babol. Pagni stacca Caparrini respirando invece come un soffione boracifero.
Pure Caparrini ventila egregiamente. Coi suoi polmoni frenetici dirada la nebbia
e scorge la bianca schiena di Pagni come oggetto da arpionare. Quando lo
affianca gli mostra l’indice che oscilla a mo’ di pendolo da metronomo,
espressione di bonaria disapprovazione per la sua fuga.
Sulla vetta tutto è rimasto inalterato. Il Lento
dopo cinque giorni è ancora lento e si avvale della collaborazione di un
servente, molto rapido nell’apprendere l’arte della lentezza, fino ad
interpretare in maniera oltranzistica gli insegnamenti del maestro. In seguito
all’ordinazione di una lattina di aranciata egli la cerca, nell’ordine,
nelle seguenti collocazioni: davanzale, caminetto, forno, lavastoviglie,
registratore di cassa e infine frigorifero dove inopinatamente la trova. Non
dimentichiamoci però della bella giornata piovosa. Così i tre protervi
ciclisti che hanno osato approfittare di una temporanea clemenza celeste per
empire le bramose voglie di pedale, si meritano un ritorno interamente bagnato
che vale anche come vendetta degli esclusi.
01/05/2001 Pensieri,
parole, opere e omissioni
I desideri incompiuti, i propositi di rivalsa e le analisi introspettive passano ancora al vaglio del monte Serra. Per inaugurare il maggio odoroso l’Empolitour chiede alle acute rampe del versante lucchese un giudizio equo e insindacabile sullo stato di salute fisica e psichica dei suoi atleti.
I pensieri si destano nei ciclisti molto prima delle
fibre muscolari. Boldrini impetra il perdono delle viscere sue disumane che lo
tradirono due giorni prima, con l’intento di ristabilire agli occhi del mondo
la mostruosità perduta. Le labbra della Bertelli chiedono al duro sellino che i
loro baci a fior di pelle non siano troppo caldi e dolenti (e non si tratta
della bocca). Caparrini interroga il cronometro delle sue brame per conoscere la
posizione del proprio io attuale nella graduatoria di merito stagionale e
assoluta. Nucci, per cento ciclisti che lo staccano in ogni italica contrada
agonistica, chiede per consolazione almeno un Boldrini da staccare. Pelagotti,
dopo aver ottenuto quella estetica, cerca la consacrazione atletica delle sue
gambe acerbe e luccicanti. Pagni vuol far chiarezza sulla fama della sua fame,
ultimamente un po’ oscurata da rimorsi e concorrenza. Tempestini, partendo con
tre fenomeni periodici in fase, il movimento delle ruote, il rullio delle gambe
e la masticazione ritmata, vuol verificare quale s’incepperà per primo.
Mentre tali e tanti pensieri viaggiano nell’etere verso i ripetitori del
Serra, emerge dalle acque e dalle palestre la sagoma sorniona di Castiglioni che
tutti davano ormai per soppresso o convertito. La sorpresa non basta però ad
esentarlo da un’ammonizione per turbamento di socialità ornamentale.
Le parole compattano il gruppo, i pensieri generano
fughe. Bertelli repentinamente cessa l’eloquio ed accelera ritta sui pedali,
concedendo in un sol gesto requie a tutte le sei labbra esposte al rischio
d’usura per iperattività. Anche Boldrini d’improvviso si cheta fuggendo in
cerca di spazi aperti e frequentati ove espellere le acque stagnanti. Per
associazione d’idee sceglie la palude dopo il ponte del Tiglio all’ombra del
primo sole, svegliando un pescatore che si era assopito.
Le parole si stemperano nella riverenza della salita.
A volte resistono agli strali della pendenza, a volte si trasformano in bolle di
fatica. Quattro silenzi pedalano di forza e temperanza. Boldrini e Nucci si
parlano con gli occhi, s’indagano reciprocamente, quasi una perquisizione.
Pelagotti sogghigna sotto le labbra per ora serrate. Tempestini nota con piacere
che la triade rotatoria è ancora attiva ma comincia ad avvertire qualche
sentore di asimmetria che lo spinge all’esterno verso il precipizio. Fra
Bertelli e Pagni regna il cicaleccio. Pagni sa che l’unico modo per tenere le
ruote della pulcherrima athleta è quello di rallentarle il moto delle
gambe favorendo quello delle labbra (della bocca, s’intende), ma questo
feed-back negativo fra bocca e cosce dura una scarna conversazione esistenziale
e la Bertelli si ritrova ben presto a parlare e pedalare da sola mentre Pagni
alle sue spalle la chiama con un affannoso e inascoltato gorgoglio. Castiglioni
è ancora in letargo. Dorme russando a fianco di Caparrini che invece si rigira
come un ossesso sulla bicicletta. Chi, dalle posizioni d’avanguardia, ode in
lontananza il rumore del suo sonno non si tranquillizza affatto, conoscendo bene
l’inesorabilità dei suoi risvegli. Boldrini e Nucci si muovono come due
magneti a polarità continuamente invertita: attrazioni e repulsioni altalenanti
da cui Pelagotti prende le distanze, cedendo senza infamia dopo aver mostrato
solo una fila di molari. Tempestini ha un triplice e subitaneo tracollo. Le
gambe si grippano contemporaneamente alla ruota libera ed è pure costretto a
sputare il chewing-gum. Sente la Bertelli avvicinarsi perché sta ancora
parlando da sola e poi è raggiunto anche da Pagni che ora respira come una
caffettiera. Fra tutti questi rumori passa il silenzio di Castiglioni che,
appena svegliatosi, inizia a menare sorpassi sbadigliando. Caparrini intanto è
al settimo grado Mercalli.
Siamo all’epilogo. La catena di Nucci scende, il
respiro di Boldrini sale. Nucci affonda i pedali, Boldrini affonda i polmoni.
Nucci lo prega di non morire perché è un tipo impressionabile e Boldrini,
posto di fronte alla consapevolezza del suo stato terminale, esala solo in senso
lato l’ultimo respiro e si stacca definitivamente, svanendo poi nel territorio
dei frettolosi insieme all’assonnato ma impaziente Castiglioni.
Come in ogni Serra che si rispetti, l’opera si
conclude nell’oasi della lentezza. Ospite ciclista d’eccezione è il
professor Servadio, invitato per studiare alcuni strani fenomeni fisici che si
verificano nell’Empolitour. In particolare egli nota che la dilatazione
relativistica del tempo è possibile anche fra osservatori in stato di quiete.
Non ritiene infatti plausibile che soste così prolungate siano dovute ad una
precisa scelta dei ciclisti i quali, a giudicare dagli abiti e dai polpacci,
sembrerebbero piuttosto seri. E a dimostrazione di questa teoria esegue un
esperimento di fotorivelazione da cui inferisce ad alta voce che il gestore del
locale è effettivamente lento.
29/04/2001
Anche i mostri piangono
A volte il ciclismo sa essere ingrato come la natura invocata da Leopardi che non rende poi quel che promette allor e che di tanto inganna i figli suoi. Boldrini, l’organismo geneticamente modificato dell’Empolitour, per tutta la settimana aveva nutrito le mostruose gambe con razioni giornaliere di cento e passa chilometri, presentandosi al raduno domenicale col cranio nudo ben rosolato dal sole e con uno sguardo più ferino del solito che lasciava trapelare intenti antropofagi. Ma la natura cortese ha voluto ricordargli che anche il suo corpo di animalesca fattura non è esente dalle manifestazioni di fragilità tipiche della condizione umana. Oggi Boldrini ha acquistato umanità perdendo loquacità.
Tutto comincia in un sole immaginato sopra le segrete effusioni di fresco vapore nebuloso. Fresco non abbastanza da impedire la nudità brachiale di Bagnoli L. e Caparrini ma sufficiente per consigliare coperture almeno preliminari agli altri individui termicamente normali, cioè Chiarugi, Bagnoli A., Tempestini, Pelagotti, Pagni e lo stesso umanoide Boldrini. Bagnoli A. funge da dispositivo antinebbia con una maglietta arancione riconoscibile a distanza dalle auto in corsa, ma si becca un’ammonizione con diffida per reiterata asocialità. Chiarugi, per onor di rima, rompe gli indugi accelerando nella discesa di Cerreto, mentre Bagnoli L. e Caparrini tirano i freni a braccia visibilmente orripilate ma con l’orgogliosa volontà di non battere i denti. Boldrini vorrebbe rispondere anch’egli per le rime, abbrancando il fuggitivo prima che giunga al traguardo volante di Larciano, ma dalle sue gambe partono i primi segnali di flaccidità. Rimane a mezza strada fra Chiarugi e il gruppo mentre lo spettro dell’incertezza comincia ad aggirarsi per la sua zucca. Decide allora di espellere gli umori maligni fermandosi a pisciare nel bel mezzo della statale di Montecatini, inquadrato da una telecamera che stava preparando le riprese di una gara ciclistica. Tale gesto propiziatorio si ripeterà dieci chilometri più tardi nei pressi di un cortile davanti allo sguardo interrogante del padrone di casa. Il cielo risponde a questi riti con un segno che potrebbe evocare ottimismo: la nebbia svanisce e il sole lussureggia proprio quando la salita s’avvicina. Si va verso Avaglio passando sotto un tunnel di vegetazione, ma un’ombra più tenebrosa penetra nell’anima robotica di Boldrini. Egli si sfila silenziosamente dal gruppo e tutti pensano che voglia partire di rincorsa in una specie di gioco all’inseguimento, ma la realtà mostra in quest’immagine il suo crudo significato letterale. Boldrini si sta staccando per crisi interiore. Il primato in salita diventa così una questione fra Pelagotti e Tempestini mentre Chiarugi, fuori concorso per manifesta superiorità, pedala come osservatore neutrale. La strada ha una pendenza costantemente variabile (ossimoro), è una specie di salita frattale che ripete per dieci chilometri un modulo fisso di strappo e falsopiano mettendo molte gambe in difficoltà di adattamento. Pelagotti dopo pochi moduli assesta una sequenza di colpi decisivi con le sue gambe luccicanti che, in assenza della Bertelli, risultano per unanime parere le più belle di tutte. Chiarugi ammira da vicino tanta leggiadria. Trentadue denti si spalancano sull’immensità delle montagne. Pelagotti comincia a ritmare la respirazione sull’aria del Guglielmo Tell di Rossini: una mitragliatrice respiratoria, una polipnea polifonica orchestrata dall’esaltazione. Nessun barlume di cedimento nei suoi radiosi polpacci, neanche quando la stradina entra in Avaglio con un acuto stridente. La vittoria è nettamente sua, Tempestini lo segue con pacata soddisfazione dimenando la mandibola e litigando con l’arpionismo della ruota libera che s’inceppa. Su Boldrini cala un velo di pudicizia. A mala pena raggiunge Pagni dopo aver sorpassato impercettibilmente Caparrini e i due Bagnoli. La sua voce si fa rara e flebile. Mentre gli altri si arrangiano con pane e prosciutto di un ottantenne barista che tiene nella vetrina delle paste varie marche di caramelle e chewing-gum avariati, egli chiede alle sue ipertrofiche fibre le ragioni del cedimento. Cerca giustificazioni nel cibo, nelle bevande, nei sonni turbati dall’ansia prematrimoniale, nelle congiunzioni astrali, nella precessione degli equinozi, nell’effetto Hall quantistico. Pia rassegnazione e desiderio di rivalsa si scontrano in un dualismo lacerante per tutta la discesa e nell’inviluppo del toboga viario che conduce ai piedi del San Baronto. Qui il gruppo approva una salita monocorde, le ruote cozzano fra di loro per la staticità del movimento (altro ossimoro), si rischiano cadute anche per improvvisi colpi di sonno. Uno scatto di Chiarugi senza mani provoca reazioni a catena che terminano ancora una volta nell’esplosione di Boldrini, tuffatosi con ardire in uno sprint subito frustrato.
A questo punto egli pensa leopardianamente: “Se la vita è sventura, perché da noi si dura?”, e con il fermo proposito di porre fine al più presto a questo giorno di sofferenza pieno, comincia a pedalare nel vuoto svanendo all’orizzonte davanti ai compagni che si raccolgono sulla via del ritorno in accorato sentimento di condoglianza.
25/04/2001
Gli universi paralleli
Oggi l’universo dell’amicizia e della felicità si sdoppia in due dimensioni parallele. L’Empolitour si schiera nel suo tradizionale mondo di pedalate con un sestetto uniforme e gaio: Caparrini, Boldrini, Tempestini, Boretti, Pelagotti e il redivivo Bagnoli L. che tutti additano subito come vittima sacrificale per la sua solita carenza cronica di bici ma che in genere sfata sempre i vaticini e non si lascia mai sacrificare.
Nel mondo parallelo pascola un maratoneta ansioso
che, mentre l’Empolitour dà il via ad un flemmatico avvicinamento a Pescia,
gironzola sul lungarno pisano fra il calpestio di suole gommose e la puzza
d’olio canforato.
Ore 9
I ciclisti vivacchiano sulle Cerbaie osservando
l’indistinto avvicinamento dell’altopiano delle Pizzorne. I guerrieri
rimuginano piani di battaglia.
Il maratoneta, dopo una fila postale per dichiarare
ai giudici d’esistere, danza nel recinto delle gazzelle e poi s’accalca alla
partenza. L’ascella stavolta sovrasta l’olio canforato. Lo starter è
pacifista e si limita ad abbassare una bandierina rossa, ma il cuore sobbalza
come in uno sparo.
Ore 9.25
Due ciclisti di Montemurlo sono fagocitati dalle
cellule azzurre. Ignorano l’esistenza di un luogo chiamato Pizzorne e
Caparrini, assunto il ruolo d’insegnante di geografia e lettere, spiega loro
che si tratta di un altopiano il cui plurale fa altipiani e non altopiani. I due
capiscono che c’è da salire ed esibiscono due giustificazioni, una per
indisposizione ed una per motivi familiari, promettendo però di studiare a
fondo la materia sul sito web che leggono stampigliato sopra i glutei del
professore.
Il maratoneta ha preso la scia di una russa senza
sapere se il suo nome finisca in ina, in ova o in eva. Non osa affiancarla perché
teme di scoprire che è racchia, ella però è prima e può garantire di
rimbalzo la fama della telecamera ai proseliti maschi. Non garantisce però
riparo dal vento al maratoneta che è alto il doppio e dalla sua altezza scruta
le nubi. Aspetta due entità celesti in bicicletta che tardano a scendere
dall’empireo. Eccole. Due angeli azzurri spuntano fra le spugne dopo sette
chilometri. Una è veramente una creatura angelicata, l’altro è molto più
sgraziato ed ha ali con pochissime penne. Il maratoneta li benedice con uno
schizzo d’acqua fetida dello spugnaggio.
Ore 10
Indicazione per Pariana, inizia l’altopiano.
Boretti indugia a pensare se chiamarlo altipiano sia da considerarsi errore
rosso o blu e viene staccato dal professore che è molto regolare sul lessico e
sulla velocità di scalata. Bagnoli parte con l’idea di vivere almeno un
chilometro da ciclista irrazionale prima di un probabile suicidio e si stacca
dal confortevole scudo di Caparrini. Boldrini, Pelagotti e Tempestini vagano in
sintonia liberi di attaccarsi vicendevolmente.
Nell’universo parallelo siamo al sedicesimo
chilometro. L’angelo bello avvicina il maratoneta per mostrargli la sua
velocità sul ciclocomputer di bordo acquistato in paradiso. Egli contesta però
le misure fornite, osservando che la taratura fatta nell’alto dei cieli in
assenza di gravità potrebbe non essere adeguata in ambito terrestre. L’angelo
spennacchiato si prodiga a dissetare l’assetato offrendo una bevanda che
nemmeno il centurione romano avrebbe osato propinare a Cristo in croce. La russa
continua a tirare in testa al gruppo e non si sa ancora se è racchia.
Nell’incertezza il maratoneta si abbandona a visioni di angelica certezza.
Ore 10.45
Tempestini chiede la pratica per l’esenzione dalla
bagarre quando percepisce una sensazione di stuzzicadenti conficcato nel fegato.
Boldrini è sempre gentile con gli avversari e stacca Pelagotti facendogli però
notare che non si sta impegnando affatto. Pelagotti, che è ancor più garbato,
evita di invitarlo a praticare sodomia passiva e lo riacciuffa quando
l’altopiano diventa alto e piano. Il viaggio nell’irrazionale di Bagnoli
dura tutta la salita meno cinquecento metri, allorché Caparrini lo raggiunge e
gli mostra il dito indice che tentenna in segno di bonario rimprovero. Boretti
è ora concentrato sul plurale di camposanto (perché non si dice campisanti
come altipiani?) e perde ancora terreno.
Ventottesimo chilometro dell’altro mondo. L’acqua
Uliveto con la sua microeffervescenza naturale è la preferita dal presidente
Caparrini ma al maratoneta questo effervescere pur microscopico sta
mettendo l'intestino in similitudine con una camera d’aria. La russa, con un
nome che finiva in eva, si stacca ed era piuttosto racchia. Così per consolarsi
egli rispolvera la questione ritenuta oziosa del sesso degli angeli ed avendo la
possibilità di esperire con mano la femminilità di uno dei suoi due fedeli
custodi, le tasta amichevolmente il culo che, per essere un’entità astratta
si dimostra piuttosto carnoso.
Ore 11.10
Sazi di attese e di torte i sei scorrono in discesa
libera verso Pescia e Boldrini comincia ad infilare il tigre nel motore. Tutti
spasimano per una sfida in volata sul cavalcavia dell’autostrada, beatamente
ignari che nell’altra dimensione ci sono uomini che stanno lottando per la
sopravvivenza.
“Qui si parrà la tua nobilitate”, dice Dante al
maratoneta che comincia ad avere il ventre gonfio come maestro Adamo, “a guisa
di leuto”, e come questo peccatore della decima bolgia invoca: “e ora lasso!
un gocciol d’acqua bramo.” Ma quando al ristoro del trentacinquesimo
chilometro gli offrono ancora acqua Uliveto, egli propende per la sete. Ad ogni
metro guadagnato ripete nella testa scissa dalle gambe che la maratona inizia
ora. Tutti i comuni mortali sembrano d’incanto svaniti nel sole. La luce
celeste che emana dai corpi degli inseparabili cherubini è l’unico segno di
presenza umana, anzi no, divina. L’angelo dai bei capelli parla al maratoneta
con un linguaggio cifrato: “15,5-15,6-15,8” ed egli, per accertarsi di non
essere incappato nel solito delirio del podista cotto, le tocca di nuovo il culo.
Quando da lei sorridente gli viene spiegato che si tratta dei suoi chilometri
orari forti e costanti, il maratoneta torna in sé e si galvanizza con sprezzo
di quella specie di mongolfiera che sta diventando la pancia.
Ore 11.30
Pelagotti vince a braccia alzate lo sprint
sull’ambito cavalcavia. Boldrini cita qualche articolo del codice penale
riferendosi ad una manovra fraudolenta di Tempestini che gli avrebbe impedito un
sicuro successo. Tempestini si appella all’ignorantia legis pur sapendo
che non excusat. Boldrini ribadisce che excusatio non petita accusatio
manifesta e la disputa fra sentenze, commi e paragrafi va avanti quasi fino
ad Empoli.
Ore 11.35
Pisa e l’Arno non sono mai stati così belli come la sensazione di avere ancora le gambe buone dopo 41,195 chilometri. Un ultimo chilometro così non è correre, è librarsi nell’etere, mentre gli angeli aprono una dopo l’altra le porte del paradiso, senza neanche chiedere le chiavi a San Pietro ma con urla suadenti e pugni d’incitamento.
Ore 11.39
Il maratoneta è assunto in cielo stramazzando al
suolo (coincidentia oppositorum). I suoi arti inferiori, che oggi sono
stati superiori, gli rammentano i 23000 passi che lo hanno portato a
destinazione, sparando contrazioni muscolari di propria iniziativa. Ma siamo in
paradiso, in assenza di gravità, e non importa alzarsi perché non c’è un
alto ed un basso. Qui accadono eventi che vanno aldilà della fisica e del
podista. Egli avverte un calore che va aldilà del sudore e della fatica. È
umano, viene dai corpi abbracciati: gli angeli che diventano persone in carne ed
ossa (e che carne!), gli occhi che diventano più caldi del corpo e lasciano
cadere una gioiosa pioggerella. Se sei tu l’angelo azzurro quest’azzurro mi
piace. Grazie Beatrice. Grazie Roberto. L’Empolitour ha pedalato anche in
questo mondo parallelo dove il maratoneta narrante ha vissuto per
due-ore-trentanove-minuti-trentasei-secondi, ricevendo da voi un premio di
gioia, di amicizia e di affetto assai più prezioso di un undicesimo posto e di
un record personale.
22/04/2001
Fiori gialli innevati
Di
diritto o di rovescio, improvvisato o premeditato, il Monte Serra passa con
immutabile regolarità sotto le ruote dell’Empolitour. Le tre strade levigate
che portano all’ostello della lentezza sono nitidamente intarsiate nella
memoria sociale. I ciclisti più maturi potrebbero ricostruirne i dettagli come
Funes il memorioso il quale, racconta Borges, percepiva tutti i tralci, i
grappoli e gli acini di una pergola come noi percepiamo tre bicchieri su una
tavola. Il versante di Calci è quello che ancora lascia qualche spiraglio
sfumato nei ricordi. C’è chi non l’ha mai assaggiato (Pelagotti), chi
l’ha assaggiato senza masticarlo abbastanza (Tempestini), chi non ha ancora
capito la sua durezza (Pagni), chi non ha ancora capito la strada per arrivarci
(Bertelli), chi non l’ha mai scalato da primo attore e vorrebbe farlo (Boldrini),
chi l’ha spesso scalato da primo attore e potrebbe non farlo (Nucci), chi
l’ha sempre misurato a passi tardi e lenti (Caparrini), chi per ipoallenamento
è come se fosse alla prima salita (Boretti) e chi come Funes potrebbe rivivere
di questa salita ogni sensazione visiva, muscolare e termica (Chiarugi).
Tutti i protagonisti si espongono con uno
schema tissutale socialmente unanime, ma nessuno è uguale all’altro. I cinque
gradi del risveglio si traducono per disposizione d’abito in un incontro di
inverno, primavera ed estate che visto dall’alto produce un effetto ottico di
mare azzurro dalle bianche spume. Quest’onda lunga si riversa sulla statale 67
e procede verso il litorale inglobando al suo passaggio uno sciame di variopinte
cellule pedalanti che stava placidamente galleggiando in balia della corrente.
Fra gli azzurri e i variopinti c’è subito un tacito accordo di belligeranza.
Basta una lieve gibbosità del terreno per destare pulsioni ancestrali mai
troppo sopite nei ciclisti, anche in quelli dall’apparenza mite. Così
Pelagotti, che a vederlo sembra un bonario baribal addomesticato, si tramuta in
un predace cacciatore di dossi e sterminatore di eterodossi i quali, alla luce
delle vergate inferte loro da quello che pareva uno dei più flosci del gruppo,
quando vengono invitati a partecipare alla scalata del Serra non tardano ad
imboccare la prima via laterale di fuga, esimendosi diplomaticamente dalla
disfida che diventa così il solito affare di famiglia.
Un’ideale telecamera che da Calci
insegua il plotone sfilacciato, trova per primo Boretti, con la testa fasciata
da un tovagliolo di raso, che abbandona subito ogni speranza di leggere sul suo
tachimetro la cifra delle decine, coglie l’andatura sismica di Caparrini con
la fronte catarifrangente e inquadra il volto di Pagni le cui ghiandole
sudoripare secernono una sostanza oleosa biancastra chimicamente analoga ad
ambra solare. Poi vede tre belle coppie. La foschia dissolve l’orizzonte delle
isole lontane, così Chiarugi si concentra nuovamente sulla ravvicinata
contemplazione della Bertelli. Fiori gialli coperti da vestigia di timida neve
notturna guardano con invidia i suoi caldi petali azzurri che volano nell’aria
sempre più fresca spinti dal vento lieve delle pedalate. Pelagotti e Tempestini
sembrano giocare a chi meglio imita il moto basculante di un vascello in
procelloso mare. Il cannibale dei dossi azzarda ad isolarsi ma poi capisce che
è meglio scendere a patti col Samurai sociale per non essere ripagato di uguale
moneta nel finale di salita. Il duello fra Boldrini e Nucci, carico di preludi
enfatici, non tradisce le attese ed infiamma l’atmosfera. Quando la pendenza
s’irrobustisce, Boldrini guadagna dieci, venti, trenta metri. Sembra fatta. Ma
il potere conquistato con troppa bramosia genera titubanza. Nucci prende di mira
la sua zucca bianca rasata di fresco e riduce il distacco con la forza
dell’orgoglio. Boldrini passa, in un turbinio di sentimenti, da predatore a
preda ed alla fine è pure costretto a capitolare nelle spire della
rassegnazione.
Resta comunque molto tempo per ricomporre
gli animi e i corpi sgualciti da fatiche e disillusioni. Nell’oscura taverna
delle lunghe attese il tempo non si misura in minuti ma in fette di torta,
tazzine di caffè e foto. In passato l’Empolitour esigeva celerità e riceveva
flemma dal gestore del locale che così si meritò l’appellativo di Lento. Ora
le parti si sono invertite. Il Lento esibisce un servizio quasi istantaneo e
l’Empolitour, che adesso esigerebbe flemma, è costretto a procurarsi altre
immagini d’indugio come la forma di un ceppo che arde, le balle di iuta
affisse a funzione divisoria fra bar e ristorante, il giornale da discesa
preventivamente appallottolato perché non sfrigoli e la dipendenza da
stuzzicadenti (Samurai) di Tempestini.
Così anche l’istituto della
sosta-Pagni si evolve, da fugace ed elitaria manifestazione d’epicureismo a
comunione rilassata di spiriti, dove capita di assistere anche a qualcosa
d’imponderabile. L’arconte Pagni, prima professa sulla torta una sazietà da
consumazione pregressa di banana, poi rischia di perdere anche la sua razione di
caffè per mano di Chiarugi, osservato in precedenza mentre piluccava la torta
medesima con la Bertelli. Quando nell’Empolitour si tenta di delimitare il
confine dell’immaginazione, si scopre sempre che la realtà l’ha già
ampiamente oltrepassato.
16/04/2001
L’abbazia dei destini che si biforcano
Per la storia di questa terza prova di calendario sociale era già pronto l’incipit di Mattinata fiorentina: “È primavera, svegliatevi bambine, alle Cascine messere Aprile fa il rubacuor”, ma quando l’Empolitour lambisce il parco delle Cascine non pare proprio giorno da bambine o festa di colori. Messere Aprile imbroglia le aspettative stagionali ed offre in tre giorni di festività pasquali un concentrato d’intemperie che soddisfa tutti i ciclisti amanti del disagio. Pasquetta nasce con antecedenti di vento freddo e gelo secco e promette una variazione tematica a base di pioggia. Nell’Empolitour, che mira all’alto dei mille metri di Vallombrosa, s’invoca fra il serio e il faceto anche qualche spruzzo di neve.
Partono compatti in sette, in fila per due (Caparrini e Pagni, Bertelli e Nucci, Bagnoli A. e Tempestini) col resto di uno (Chiarugi) che per primo tira, sfiorando i 23 Km/h, mentre i suoi arti si assopiscono lentamente in una progressiva paralisi a frigore. Se al gruppo si tolgono il fumus agonistico di Boldrini, l’epos gastronomico di Pelagotti e il pathos atletico di Bagnoli L. e Boretti, il destino dei ciclisti e delle loro gesta narrative sembrerebbe segnato verso la laconicità. Ci si appella così alla natura, spesso magnanima ispiratrice di poesia ciclistica, con la prolungata contemplazione lirica della statale 67 tosco-romagnola. Cinerea come l’odierno cielo, questa striscia petrosa corre per pochi ma sani chilometri insieme all’Arno e alla sua flora, poi s’insinua fra due catene non interrotte di edifici ad uso civile, industriale o commerciale, dove il semaforo è il motivo architettonico più vivace. Torme di ciclisti infingardi vestiti da inverno la percorrono a favore di corrente, in senso inverso ai nostri sette che possono vantare in Caparrini e Chiarugi gli unici due esemplari a cosce ignude e diffusamente rabbrividite. La mirabile statale dà il meglio delle sue qualità viarie fra Firenze e Pontassieve. Si sente, a dire il vero, la mancanza di veicoli d’alto tonnellaggio, ma il difetto di massa è compensato dall’eccesso di frequenza grazie alla sovrasaturazione stradale di elementi più piccoli, ma metodicamente strombazzanti, adibiti alle gite fuori porta. Si ammirano decine di paesi costituiti da due file di case prospicienti la carreggiata e fra questi spicca Girone, infernale aggiungiamo noi, dove i peccatori ciclisti, colpevoli di aver scelto uno sport che è un lasciapassare per i recessi selvaggi del mondo, sono sottoposti per contrappasso alle frustate dei diavoli motorizzati e alle loro scorregge di combustione. Ognuno ha la sua pena. Bertelli sconta quella della telefonia mobile; ogni dieci chilometri subisce uno squillo che sembra possedere un potente effetto ansiogeno oltre ad essere fonte di rallentamento e squilibrio. Bagnoli sconta quella della salita che si fa a lungo desiderare ma poi arriva, sotto forma iniziale di arteria con immutata densità di traffico. È un’ascesa che per nove chilometri non è mai insistente, guadagna e perde quota con vece assidua e consente allo scattista sociale di capitare spesso nel gruppo di testa da cui nemmeno Caparrini riesce a defilarsi definitivamente come vorrebbe. Chiarugi, autorizzato da gravosi impegni podistici ad un allenamento conviviale, osserva la situazione dalle retrovie marcando stretto la Bertelli che alla settima telefonata minaccia il ritiro.
Dopo tante incertezze ascensionali ed esaurita la visione di tutti i mobilifici rustici di Tosi con l’insegna verniciata a mano sul muro, irrompono gli ultimi cinque chilometri che finalmente onorano la definizione di salita e la sua religiosità. Si può parlare come Bonaventura da Bagnoregio di itinerarium mentis ad Deum, dove solo gli impuri di spirito sbuffano ed arrancano col corpo. Caparrini può finalmente staccarsi, con buona pace del suo desiderio di minimo affanno. Bagnoli rosseggia in volto come il suo giubbino asociale ed avanza impercettibilmente lento come la crescita degli abeti secolari in cui la strada s’immerge. Passa la Bertelli e la schiera di ciclopici tronchi sembra aprirsi ossequiosamente per lasciarle la via libera: una luce calda sale a rischiarare quei boschi eternamente ombrosi e regala tepore a Chiarugi che la segue abbandonando le gambe in tacita meditazione. Pagni è sorpassato. Dopo aver fatto il puledro rampante nei tratti a pendenza alternata, ora ansima e parla confusamente di frutta come fine metaforica del menu delle sue energie. Sul viale dell’abbazia Tempestini tenta d’insidiare Nucci in volata ma il suo corpo s’inviluppa in strenue pedalate col cinquantatré che accentuano la sua andatura asimmetrica e tentennante e lo lasciano ovviamente dietro la ruota dell’insolito rivale che senza Boldrini può permettersi di maramaldeggiare.
L’aria è mistica e silenziosa ma troppo gelida per meritare la permanenza in quota. I sette imprimono così le loro facce contratte in due foto dimostrative. È l’ultima espressione di unanimità. Da questo momento in poi la storia si diparte in bivi fatali, equivoci e decisioni sconsiderate. Destini alternativi che si perdono nel sentore della pioggia. Bagnoli, Caparrini, Pagni e Tempestini seguono la strada maestra e si ritrovano a Figline ad attendere invano Bertelli, Chiarugi e Nucci che invece s’ingegnano per smarrire due volte la diritta via. Messi poi di fronte ad un improbabile ricongiungimento ed alla smania di rimpatrio della Bertelli, i tre si rassegnano ad espiare nuovamente i peccati percorrendo a ritroso le bolge della statale 67 con qualche variante peggiorativa fra i lungarni fiorentini consigliata dal consigliere Nucci. La sosta-Pagni è comunque simultanea. I giusti sono in un bar di Figline incerti sulla consumazione di paste con cioccolata che giacciono selettivamente, e perciò sospettosamente, invendute. Gli ingiusti entrano in un lussuoso locale di Pontassieve vigilato da un individuo visibilmente oligofrenico, vestito in maniera inenarrabile e munito di auricolari, che ridacchia e sfumacchia e guarda con lascivia le cosce della Bertelli.
Anche la pioggia si riversa equanimemente sulle due branche di Empolitour che poi diventano tre, perché Pagni si occulta in un bar di Strada in Chianti e viene lì dimenticato, e quasi quattro se Caparrini non si prodigasse all’inseguimento di Bagnoli e Tempestini finiti anch’essi fuori percorso. La pioggia uguaglia le sorti, unisce a distanza le anime disperse, bagna Pagni solo e crucciato, bagna Bagnoli, Caparrini e Tempestini durante un’interminabile ascesa dei Falciani e bagna Bertelli, Chiarugi e Nucci fra la copiosa e ingombrante umanità fiorentina. Qualunque strada percorsa in qualunque lasso di tempo conduce i ciclisti a casa coi piedi fradici, anche quelli di Nucci rivestiti da copriscarpa dalle millantate virtù imbrifughe.
Questo di tanta speme oggi ci resta: sette paia di scarpe ad asciugare sotto i termosifoni e due foto gemelle davanti all’abbazia della diaspora. Possa almeno questo scritto riunire con le parole i destini che le pedalate hanno diviso.
01/04/2001
Vedi Vellano e poi fuggi
Quando parte Chiarugi il vento sta ancora dormendo e il sole ha una faccia pallida e indistinta. Ci sono quindici chilometri di pensieri tra il suo borgo selvaggio e il chiassoso ritrovo dell’Empolitour. “Primavera d’intorno brilla nell’aria e per i campi esulta, sì ch’a mirarla intenerisce il core”; le pochissime nubi sembrano cunei cristallini dal profilo filettato spiraliforme, sono le sue uniche compagne di viaggio come lo saranno gli ombriferi rami di faggi e castagni nell’ultimo tratto della salita di Vellano.
La sede sociale s’anima rapidamente: Nucci con un giornale che mai leggerà, Caparrini con l’annoso dubbio manicheo dei manicotti, Tempestini con anacronistici pantaloni invernali, Busoni attillato con due tasche posteriori piuttosto criptiche, Bagnoli A. con l’orrenda maglia marrone sponsorizzata, Boldrini con l’orrenda bazza pelosa, Bertelli con una seducente divisa sociale, Pelagotti con due seducenti gambette glabre. Dopo i provvedimenti restrittivi imposti dall’esecutivo societario, i minuti accademici di attesa si riducono a sei prima di muoversi per incontrare Pagni, unico partente a braccia ignude. Vento e sole giocano sulla pelle dei ciclisti. L’irregolarità delle folate non permette riparo sicuro nemmeno dietro i corpi dei compagni ma, come fa notare Bagnoli A., molti competono lo stesso per prendere la ruota della Bertelli. Evidentemente quando si deve pedalare controvento, ingobbiti e con lo sguardo basso le contemplazioni anatomiche sono un ottimo surrogato di quelle paesaggistiche. Comunque a Cavallaia è doveroso alzare gli occhi per seguire il solito airone sopra il fiume e poi vedere Boldrini, Bagnoli A. e Nucci assetati di sprint che si contendono il traguardo volante di Massarella distogliendosi prepotentemente dalla contemplazione anatomica di una Bertelli particolarmente indiavolata. I suoi capelli fungono da peculiare anemometro. Quando il vento è a favore, si dividono in due tronconi sfilacciati, quando è di lato, come avviene con singolare violenza presso Chiesina Uzzanese, si drizzano sopra la spalla con un moto angolare caotico ma dipendente dall’intensità eolica. Pelagotti ha bisogno di cinque chilometri per enumerare e descrivere solo sommariamente le pietanze consumate il giorno prima in un party matrimoniale e già questa esperienza lo esclude di fatto dalla rosa dei favoriti per l’imminente salita di Vellano. Boldrini si sente forte nella stessa misura in cui gli altri lo vedono brutto. Nucci cerca di ammansirlo con un po’ di fittizia spavalderia e Chiarugi lo guarda silenzioso cercando di convincersi dell’incongruenza fra i suoi tratti somatici e quelli di un normale scalatore. Ma la prima ad accendersi è ancora l’indiavolata Bertelli. Questa volta chi vuole rimirare le meraviglie dell’anatomia umana deve pigiare sodo sui pedali. Caparrini, Busoni e Bagnoli A. ci rinunciano subito, Pagni dopo un chilometro. Da quel momento si crea un bellissimo silenzio di gruppo, uno di quei silenzi che soltanto la salita sa dare, fatto di intense e variabili percezioni del proprio corpo, di una furtiva complicità di sguardi e di un unisono affiatamento motorio fra i diversi binomi uomo-bici. Il demone che stava animando la vigorosa silfide, nonché granfondista sociale, cessa improvvisamente di funzionare prima di Vellano abbandonandola con un pugno d’acido lattico nello stomaco insieme allo scompostissimo Tempestini che anche quando ansima sembra masticare qualcosa. Rimangono i tre uomini di punta più il sorprendente outsider Pelagotti. La fatica gli procura una specie di paresi facciale. Pedala concentrato e sibilante con la bocca tutta storta a sinistra e con le labbra semiaperte che mostrano due file di denti serrati a guisa di mastino inferocito. Però è sempre lì e non sembra intenzionato a farsi da parte. Vellano è il punto medio della salita dove la strada temporaneamente s’adagia fra i pochi passanti prima di rialzarsi con immutata incisività. È qui che Chiarugi decide di ricongiungersi alla solitudine della sua anima con un paio di accelerazioni fatali. Fugge lontano quasi romito e strano verso Goraiolo, una fuga un po’ dispiaciuta ma necessaria, se non altro per smorzare i fuochi del volitivo Boldrini seguito dall’afflitto Nucci e dall’incalzante Pelagotti che continua a digrignare, stavolta per la soddisfazione. Poi le altre solitudini si uniscono e quando arriva Busoni, ancora abituato alla velocità ascensionale della mountain bike, si scende a Marliana per la sosta-Pagni in un saloon multifunzionale dove si possono reperire paste, giornali, salumi, giocattoli e la rarissima benzina Quattro Petroli. L’esibizione dell’arconte è sobria ma icastica: lo zucchero di un bombolone beatamente addentato che s’appiccica alla crema solare e al sudore lasciando sul volto una fine maschera biancastra. Simbolicamente il ciclismo secondo Pagni si può riassumere proprio in questi tre elementi: la fatica del sudore, il sole della crema e le calorie dello zucchero.
Boldrini a questo punto vuole dimostrare d’esserci. Potrebbe staccare tutti in pianura come un tempo faceva con disinteresse per le altrui presenze ma aspetta il Cerretino dove Pelagotti, ancora sotto l’effetto stupefacente del cibo matrimoniale, spara tanto per cominciare uno scatto a trenta all’ora. Bello a vedersi ma prematuramente frustrato prima da Boldrini e poi da Nucci che non recupera però abbastanza per agguantare l’avversario principale. Il granfondista sociale si becca così il secondo pesce d’aprile sulla schiena e poi svanisce all’orizzonte mentre nell’animo gentile dell’orco sociale comincia ad insinuarsi la pericolosa consapevolezza di non essere quello scherzo della natura e del ciclismo che tutti pensano.
25/03/2001
L’ora legale
Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti. Così titolava un numero primaverile di Cuore, settimanale di resistenza umana, alla fine dell’era craxiana e al principio dell’era Empolitour. Una piccola mutazione cronologica che può cambiare la vita ma soprattutto le gambe quotidiane. Il tempo convenzionale si adatta infatti alle esigenze luminose dell’uomo e dei ciclisti che con questa posposizione oraria guadagnano potenzialmente una trentina di chilometri di pomeridiano allenamento infrasettimanale. San Baronto e Pietramarina diverranno oggetto di ansimati raid serotini da parte di coloro ai quali troppo precoci tenebre hanno finora negato la piena esplicazione della volontà pedalatoria. La prima mattina di ora legale mette però a repentaglio il numero legale in Via Baccio da Montelupo. Già si prevede l’assenza dei principali membri ipercinetici della sezione maschile e femminile, ma quando scoccano le 8.35 gli unici presenti, Caparrini e Bagnoli L., sembrano proprio sul punto di rinverdire una delle loro invereconde uscite primordiali. Poi però arrivano in extremis il potomane Boldrini (dice di bere un litro d’acqua ghiaccia a colazione), il sonnolento Pelagotti, il masticatore Tempestini e l’inedito Busoni, ciclista che spinge da poco l’anima leggera sulle strade lisce ma che è ben forgiato nella stridente fucina silvana delle mountain bike. Pagni, raccolto per strada, allarga le braccia per il ritardo, questa volta altrui. E c’è sempre qualcuno che non parte, come Bagnoli A. che alle 7.45, ora solare, si accorge irrimediabilmente di essere indietro nel tempo e perde così l’occasione di acquisire prestigio in assenza dei big e delle salite forti.
Ci si avvia infatti verso il lato debole di Casore del Monte preceduto da uno dei più soporiferi sambaronti a memoria di Empolitour. Boldrini preferisce disfarsi subito dei pesanti panni del favorito d’obbligo per offrirsi alla rilassante ruota di Caparrini. Nell’alternativa fra un non certo predominio senza gloria e un non improbabile insuccesso con disdoro certo, sceglie la sospensione del giudizio incrementando coi malcapitati compagni di viaggio l’attività ossessivo-compulsiva di affabulazione a tematica prematrimoniale. Busoni si dimostra un colto autodidatta sulle principali materie della nuova squadra. Interrogato su storia, geografia, diritto, usi e costumi dell’Empolitour, risponde sempre con prontezza e competenza. La sua preparazione testuale e ipertestuale è dichiaratamente più solida di quella attitudinale, e comunque sulla salita di Casore non si dimostra affatto un imberbe novizio. Qui Pagni, Pelagotti e Tempestini, pedalando un po’ meno piano degli altri, paiono davvero tre fuggitivi seri, sennonché Pagni opina di poter ambire a miglior lentezza e lascia la disfida per il GPM agli altri due improvvisati scalatori i quali, trovandosi nella posizione a loro inusuale di leader, non capiscono bene dove disputare la volata che alla fine con molto impaccio è vinta da Pelagotti su Tempestini che mastica amaro. Caparrini che notoriamente ritiene il progresso atletico dell’uomo, e di stesso nella fattispecie, una condizione non necessaria, anzi evitabile, mentre ponza accompagnato dal loquace assillo del rilassato Boldrini, vorrebbe in un sol secondo conquistare tutte le migliorie fisiche che ha sempre rinnegato per separarsi di un sol metro dall’opprimente egida di cotanta scorta. Non ci riesce. Come Bagnoli non riesce ad andare in crisi, nonostante da tempo si stia impegnando in una profusione di sedentarietà. Dal rallentato scorrere delle sue fibre si comincia però ad intravedere la graduale prevaricazione del materialismo della salita sull’empiriocriticismo del suo ciclismo razionale e razionato.
Il fenomeno d’incontinenza delle soste-Pagni è ormai irreversibile. Quando non si può indulgere più al carico calorico o alla molteplicità di pose fotografiche, si trovano pretesti ad hoc come il raccoglimento in Via Fausto Coppi a Casore indicata ai ciclisti da un bikers decenne che su una rampa li sorpassa e li stacca con nonchalance. Ovviamente il tempo perduto in garruli trastulli viene recuperato col taglio ai chilometri e alle salite del ritorno. Resta solo il Cerretino dove Bagnoli L. abbandona definitivamente l’atteggiamento volterriano per crollare misticamente di fronte all’icona di Isabella dei Medici posta a metà salita. Caparrini gli offre dignitosa consolazione col silenzio della sua mole mentre gli altri si danno alle danze movimentate con uno sprint in cui prevale Tempestini masticando acido lattico. Si potrebbe dire con irriverenza che è un ballo di topi senza gatti, una batracomiomachia, una classe operaia che va in paradiso, ma l’aristocrazia dell’Empolitour da oggi deve cominciare a stare in guardia. L’ora legale gioca a vantaggio del popolo che ha risorse temporali più limitate rispetto ai latifondisti del tempo libero e la storia c’insegna che quando il popolo s’arma le teste dei nobili fanno presto a cadere.
18/03/2001 Sette
uomini in piazza (per tacere dei transfughi)
Vigilati dalle quattordici torri di Monteriggioni, gli uomini d’arme dell’Empolitour riscoprono il piacere del bivacco in atmosfera medievale. Alle undici di una domenica mattina che s’acquieta dopo un acquifero sabato, sette ciclisti si adagiano dentro il perimetro di un’altra dimensione spazio-temporale. Già di per sé l’antica cinta muraria funge da folcloristico isolante verso il resto del mondo ma essi si trovano coinvolti in un’intimità ancora più profonda. Nella piazza si conquistano un territorio delimitato da contenitori floreali, che idealmente segnano un confine invalicabile per i pochi turisti normali a passeggio, e in questa enclave privata posano gli stanchi cuori per aprire i sorrisi e le fauci. Sembra tutto già vissuto, ma il bello delle classiche sta proprio nello schema della rievocazione dove il ciclista può improvvisare a colpi di pedale una variabile trama di emozioni estemporanee.
Le emozioni oscillano in sincronia col percorso che impilando una sopra l’altra tutte le piccole asperità formerebbe uno Stelvio con 1700 metri di dislivello. I partenti perciò si esaminano e apparecchiano i loro destini mattutini rivolgendo lo sguardo all’interno verso le proprie fibre atletiche e all’esterno verso il cielo bizzarro striato di venature cirriformi.
Bagnoli L. finalmente pospone la regola all’eccezione e comincia a pedalare sul bagnato ma le strade si asciugano ben presto insieme alle sue lodevoli intenzioni che sfociano dopo un’ora in un ritiro annunciato. Pelagotti lo segue. Prima di partire si guarda a lungo nello specchio e non vi riconosce l’effigie di un atleta da 130 chilometri. Vorrebbe ugualmente osare ma al momento d’inforcare la bici sente un irresistibile richiamo viscerale che oltre a ritardarne l’avvio sembra suonare come monito di coscienziosità corporea. Anche Tempestini si accontenta di un tragitto menomato e, prevedendo di dover rinunciare alle attività masticatorie della sosta-Pagni, biascica l’inseparabile chewing-gum con più avida frenesia.
Bagnoli A. con la maglietta estiva sociale guadagna non solo in estetica ma anche in atletica. Per lui uno Stelvio diluito in cento salitelle è un invito all’esaltazione che mitiga pure gli effetti del chilometraggio ostile alla sua etica riduzionista. Così lo vediamo frizzante sul Marcialla e sul San Donato in Poggio, fluente in discesa controvento a Castellina e caparbio sulla penultima salita di San Gimignano. L’abito non fa il ciclista ma aiuta assai.
È quasi commovente l’amor di socialità della Bertelli che indossa un ortodosso giubbino invernale nonostante i tepori del sole marzuolo. Anche nel suo caso la comunione di colori col gruppo sembra infonderle nelle gambe già mirabili una dose di prestanza aggiuntiva che l’avvicina alle vette del sublime. Il suo attacco imperioso dopo 100 chilometri sul Fedaia in miniatura di Badia a Cerreto, mentre i maschi cominciavano ad avere ricorrenti premonizioni di morbidi giacigli, può essere preso senza enfasi come raffigurazione dinamica della bellezza della natura. È commovente anche quando socializza con gli affamati sbocconcellando un panino a mezzo con Chiarugi: conversione degli infedeli o partecipazione agnostica alla liturgia?
Di Boldrini si conoscono ormai i penetrali del corpo e dell’anima. La sua generosità vorrebbe compensare l’innata disarmonia meccanica ma riesce tutt’al più a garantirgli qualche transitorio predominio. Il mentore Chiarugi sembra capace in salita di manovrare a pedale il suo apparato respiratorio. Infatti, quando Chiarugi aumenta la velocità, la bazza pelosa di Boldrini si protende istantaneamente in avanti alla ricerca d’aria come se fosse azionata da un comando a distanza. Così l’attuale gerarca inscena un gioco di accelerazioni contenute per dirigere come un burattinaio le smorfie ansimanti del giovine rampollo che ogni tanto, è vero, rompe i fili scattando via da solo, ma se la salita non si placa, a rompersi è il suo passo macchinoso come avviene sul San Gimignano.
Su Chiarugi dunque nessuna novità tranne le denudate cosce da podista in bella mostra. I colleghi di pantaloncini e canottiera, in gara a Tavarnelle, sono un incontro che rinfocola la sua doppia personalità sopra un solo cuore che batte per l’Empolitour e per la maratona senza conflitto d’interessi.
Caparrini è la solita garanzia di unione e immutabilità. L’andamento ondulatorio della strada è inevitabilmente disgregante. Per lunghi tratti l’Empolitour viaggia a due velocità e lui è sempre coi più deboli per illuminarli con la duratura parlantina e la smisurata fascia frontale fosforescente. Quando rimane solo, passando all’ombra delle conifere fra le province di Firenze e di Siena, riesce a svegliare buona parte degli animali selvatici appisolati nel bosco che sono investiti dal fragoroso vortice dell’aria da lui espirata ed assillati da uno scricchiolio che proviene dalle scarpe e che potrebbe essere registrato e diffuso per tenere lontano dai monumenti cittadini piccioni, storni ed altri volatili molesti.
Gli occhietti cerulei di Nucci diventano opachi mentre osservano, coi riflessi di un bambino col broncio, Boldrini e Chiarugi in lontananza. In effetti il granfondista sociale, proprio in prossimità dell’esordio stagionale, sembra aver toccato il gran fondo della condizione fisica anche se generalmente il suo stato di forma è come un pallone immerso nell’acqua che per la spinta d’Archimede schizza in aria con impeto proporzionale alla profondità raggiunta. Intanto però è costretto, fra il serio e il faceto, a ricorrere alla spinta manuale sinergica di Boldrini e Chiarugi per scalare il Badia a Cerreto.
Pagni cura nei dettagli l’abbigliamento malleolare. È dotato di calzini verdi di lana grossa parzialmente rivestiti da una specie di guanto podalico in fibra sintetica nera e superiormente sfumati in un soffice vello di peluria lasciato scoperto per pochi centimetri dai pantaloni alla zuava. A Monteriggioni prende ovviamente il comando delle operazioni ma non brilla in voracità. Va da sé che anche un Pagni satollo vale mezzo Empolitour affamato e comunque quel che non riesce a consumare in loco diventa oggetto d’incetta per futuri appetiti, come la stecca di cioccolata infilata gelosamente in tasca.
La storia di oggi si esaurisce così nei suoi personaggi. “La storia siamo noi” dice De Gregori, “sono i corridori e non i percorsi a fare la corsa” ribadisce De Zan. Una non troppo vaga dolenzia muscolare pomeridiana sarà il fuggevole ricordo di 133 chilometri. Il mal di gambe passa ma la storia resta.
11/03/2001 Salire
per scendere
Montefioralle porta nel suo nome l’idea della salita e della primavera, idee che in questa mattina consacrata al pedale si scoprono accomunate nell’incompletezza. La salita sembra esplodere in un rigoglio d’arcigna elevazione ma poi è deturpata da alcune discese intermedie che solo i cuori più pusillanimi accolgono con benevolenza. La primavera comincia a germogliare a piccole gocce rosa e bianche fra i rami dell’albicocco e del prunalbo che nel loro sfoggio decorativo avvertono quasi un senso di prematurità sotto un cielo canuto e pezzato di nembi.
I ciclisti devono ancora una volta convincere i loro
ferrei corsieri ad avventurarsi sugli asfalti roridi e, con inatteso connubio
fra nostalgia e provocazione, il primo a comparire, in tenuta poco ginnica, è
Bagnoli L. che almeno sulla ben accessoriata Tiffany può pedalare sul
bagnato per due chilometri incrementando del 2% la sua dotazione trimestrale
d’allenamento. Nell’Empolitour atletico già fioriscono alcuni polpacci.
Nucci e Chiarugi esibiscono le loro carni bianche o rosate fino al ginocchio
mentre Boldrini osa mettere a nudo anche le sue bielle articolari di stampo
umanoide. In tutti gli altri la copertura è integrale ma difforme: Caparrini
riesuma il costume d’epoca sopravvissuto ad un settennato di inverni e
sudorazioni corrosive, Bagnoli A. persevera nel malcostume asociale marrone con
graffiti monsummanesi, Pagni e Tempestini, resipiscenti verso una costumanza
primaverile, si alleggeriscono partendo e infine la Bertelli ostenta sulle
prorompenti virtù le lettere di un sito web eterodosso ma sul cuore, e da oggi
anche sul cartellino, ha scritto Empolitour.
Si prevede un normale moto salottiero fino
all’inizio del Chiesanuova ma una strana irrequietudine di Nucci diventa
furore fuggitivo già prima di Cerbaia. A parte Caparrini e Pagni, non
intenzionati a rinunciare ai benefici della velocità conviviale, gli altri lo
inseguono ma rispettano i suoi desideri di solitudine. Soltanto Boldrini non
riesce ad inibire gli appetiti venatori ed appena lo vede a tiro sul GPM lo
addenta con un primo morso d’assaggio. Nucci sembra ubriaco di motricità.
Pedala contro se stesso avanti e indietro con lo sguardo inespressivo, fugge in
discesa e poi tira in pianura con perdurante frenesia mentre Chiarugi e Bertelli,
vigili alla sua ruota, lungamente lo osservano senza domandare. Questa voglia di
velocità silenziosa non chiede spiegazioni razionali. In bicicletta la ragione
è spesso più lenta del corpo che a sua volta insegue sempre l’anima senza
mai raggiungerla. Questo volo mistico costringe poi il trio di testa a
percorrere a ritroso quattro chilometri prima di rincontrare il gruppo
allegramente vociante.
Le bici finalmente aggregate risalgono la corrente
del fiume Greve e si lasciano cullare dolcemente nel pensiero della salita. Chi
alla salita non pensava proprio è l’avventuriero Salvini che sfrecciando in
senso inverso viene riconosciuto e irretito dalla Bertelli. Il gruppo si
arricchisce così di un degno sodale per la tenzone sul Montefioralle. Il via è
sancito dalle catene che dopo un metro d’ascesa si sistemano fragorosamente
sugli addentellati più agili. Il buono (Nucci), il brutto (Boldrini) e il
cattivo (Chiarugi) caricano le ruote e sfoderano le gambe. Con Salvini,
dinoccolato ma efficace, diventano i quattro dell’Avemaria. In effetti, quando
le pendenze si sviluppano con un climax fino al 18%, i ciclisti più pii possono
anche concentrarsi nella preghiera. L’empio Chiarugi invece trae dalla durezza
di quell’erta la superbia dei titani che vollero sfidare gli dei. I suoi
polpacci pelosi e venosi sembrano spianare la strada per una marcia solitaria,
ma la salita è come la vita. Si possono raggiungere lentamente alte quote di
felicità e poi dietro la curva si ripiomba a velocità quadrupla nel fondo
della tristezza. Così una breve discesa ripone tutte le illusioni nella cantina
dell’anima e i quattro si ritrovano di nuovo uniti. Siccome le gioie disilluse
non ritornano mai uguali a se stesse, il secondo trancio di salita pende sempre
con una sola cifra e Chiarugi può solo tirare con perplessità controllando la
situazione dai rumori dei compagni. Ode così Salvini ansimare sotto i baffi e
Nucci emettere flebili suoni di incipiente arrendevolezza. Invece Boldrini,
abbandonato nel risucchio della ruota chiarugiana, tace guardingo. Quando la
strada nuovamente s’affloscia dopo l’erezione, nella sua nuda capoccia
comincia a risuonare un indistinto brusio d’ambizione. Vede l’ultima rampa e
con due o tre colpi di mazzuolo mette il suo muso cagnazzo davanti al volto
desolato di Chiarugi. Il pallore inanimato di Nucci è però il miglior colore
per dipingere questa disfatta. Salvini ridacchia sotto i baffi e Boldrini sopra
il pizzetto mentre arrivano Bertelli e Tempestini che guidati da Pagni si sono
sorbiti un giro turistico per il castello di Montefioralle. Caparrini rettifica
subito la formula rituale con un
“sono-sempre-stato-in-affanno-ma-mai-alla-morte” e dichiara, con uno dei
suoi noti paralogismi, che per andar piano sulle salite dure non bisogna
allenarsi e prova ne è che lui, quando è allenato, ci va piano lo stesso.
Il mostro di Firenze forse è morto ma quello d’Empoli vive e gongola sulla piazza di Mercatale insieme ai compagni sconfitti che inseguono l’oblio dell’onta sorseggiando caffè come se fosse acqua del fiume Lete, sbriciolandosi tra i denti miserrime sfogliatine o evadendo con la mente nella lettura. Empoli arriva dopo un’ora di cielo ancora triste, ma se piange o se ride noi siamo con lui perché siamo parte di lui.
04/03/2001
Le urne confortate di pioggia
Malocchio, nomen omen, un nome un segno, un presagio di sventure, un paese che non c’è, che s’identifica col suo cimitero. Le strade sono piene di cadaveri sbudellati, spiaccicati: intestini e cervelli esplosi, vomitati dalle bocche insanguinate. Sono le stragi del sabato sera piovoso, un eccidio di rospi e ranocchi condannati dalla lentezza. I corridoi d’asfalto s’imbruniscono quando s’imbevono degli umori del cielo che invece sono limpidi e innocui nella loro originale purezza, ma le bici non li amano perché turbano l’oleosa armonia dei gangli vitali e dipingono la ferrea ossatura di screzio terragno.
Nell’Empolitour sono molti i ciclisti idrofobici, non c’è solo il caposcuola Bagnoli L. che sull’impedalabilità in ambiente umido potrebbe scrivere un’intera collana di saggi. Caparrini, Chiarugi, Tempestini, Nucci, Bertelli e Pagni sono invece refrattari agli stimoli acquosi, in atto o in potenza, e partono alla ricerca delle ispirazioni necessarie per arrivare ai piedi della salita di Malocchio senza scivolare sulla banalità o sull’asfalto. Le emozioni cominciano nel padule di Fucecchio per seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare. Quest’enfasi musicale ispira Tempestini che tenta di decollare sul Cavallaia biascicando un chewing-gum. Si aspettano a momenti le rondini sotto il tetto ma intanto marzo porta i primi aneliti di agonismo ciclistico: gruppi seriosi e numerati bloccano il traffico dell’Empolitour e Pagni cerca di pigliarli un po’ per il culo prima di tornare prematuramente a casa con una carezza della Bertelli.
Le colline intorno a Pescia sono simulacri di montagne. Fumano dai comignoli sparsi come se emettessero voci condensate di frustrazione, lamentosi desideri di un’altitudine che la natura ha voluto loro negare. Ma oggi quegli aliti caldi sembrano raccogliersi nell’indistinta foggia di un cappello grigio scuro che cela la mancata elevazione e lascia immaginare al suo interno chissà quali picchi rocciosi. Caparrini cinge la sua fronte iperidrotica con un arcobaleno elastico come inconscia speranza di solarità, ripetendo però a voce alta la formula scaramantica della certezza dell’acqua. Il torrente Pescia s’agita rumorosamente nel letto ed annuncia un’esile e fradicia spirale che comincia ad avvitarsi acclive fra castagni sotto ruote finora torpide. Nucci agisce d’istinto e lascia subito danzare le zampette in libera allegria. Chiarugi agisce distinto, distaccato emotivamente ma non spazialmente. Quasi quasi spera, perché ha buon cuore, che il granfondista sociale regga il ritmo ma il sonno dell’allenamento genera ancora ritardo. Per impegnarsi in uno sforzo più intenso del necessario, il podista sociale finge allora d’essere inseguito da Boldrini (dormiente per impegni televisivi) ed arriva solo al cimitero di Malocchio vellicato da lugubre pioggerella. Dopo Nucci e molti minuti compaiono Tempestini che biascica anche l’aria, Bertelli che attacca due bikers in bottone invece che in salita e Caparrini che ripete la formula del “non-me-la-ricordavo-così-dura-ma-non-sono-mai-stato-in-affanno”. Siamo a 470 metri sul livello del mare come dimostra la coincidenza millimetrica tra la quota segnalata da un ameno cartello del Touring Club e quella rilevata dall’invidiatissimo ciclocomputer di Chiarugi. Siamo a 223 metri quando s’entra tra le mura di Massa per commemorare una sosta Pagni orbata dell’arconte. Nel bar centrale lo stretching ha più successo delle paste consumate solo da Caparrini e da Tempestini il quale esce biascicando uno stuzzicadenti insieme ai dolci residui di sfoglia sui denti. Questo rito propiziatorio gli infonde una sregolata vigoria da passista lungo la strada fra Montecatini e Fucecchio ove si può pedalare anche dieci secondi senza essere affiancati da un autoveicolo. Tempestini, tirando a quaranta, preferisce andare lui incontro alle auto invece di farsele venire addosso ed esegue alcune magistrali deviazioni pulsatili verso la linea di mezzeria.
A Roffia in un bel connubio fra nobili arti aerobiche di vecchie e nuove generazioni, bici malferme sulla ghiaia, manovrate da braccia antiche e sottili, si mescolano ad imbarcazioni affusolate di canottieri in erba che nelle loro braccia glabre portano già i lineamenti di una sorgiva muscolosità. Atene è vicina, continuate ad allenarvi. Giro e Tour sono vicinissimi, continuiamo a pedalare.
18/02/2001 La
domenica delle calme
Passa il gregge dell’Empolitour nella foschia del suo fiato, nove aliti che si levano tiepidi e si confondono con un orizzonte ovattato al di là del quale i monti sono soltanto immagini oniriche conservate nei pensieri della domenica precedente. Ma oggi è un giorno collinare aperto alla poesia e chiuso alla foga, i nove cuori vogliono palpitare di emozioni non di adrenalina, le nove anime vogliono quattro ore di simbiosi con la serenità del cielo, i diciotto occhi vogliono lacrimare soltanto nel vento delle discese e le diciotto gambe chiedono e ottengono requie. È come se la domenica prima della classica d’apertura fosse considerata l’ultimo giorno della stagione passata, un ultimo giorno di scuola in cui nessuno ha voglia di spiegare o di interrogare. Ma di chiacchierare sì. Per più di trenta chilometri il gruppo è un coacervo di onde sonore che si propagano caoticamente dalle nove laringi. Con un po’ d’attenzione si possono discernere nove tipologie di voce: echeggiante (Caparrini), stridula (Boldrini), soave (Bertelli), nutrita (Pelagotti), ridente (Pagni), masticata (Tempestini), sommessa (Nucci), nasale (Bagnoli A.) sepolcrale (Chiarugi).
La garrulità semovente assume una configurazione di appaiamenti assai dinamica. Il tempo minimo per la massima socializzazione binaria si può prevedere con qualche reminiscenza matematica.. Col calcolo fattoriale si ottengono 36 combinazioni semplici di nove elementi presi a due a due, pedalando in nove si possono cioè formare 36 coppie distinte di conversatori. Ammettendo cambi regolari ed impossibilità a formare terne o quaterne per motivi d’ingombro stradale (altrimenti ci sarebbero rispettivamente 84 e 126 combinazioni possibili), si possono creare nove diverse configurazioni di gruppo formate da quattro coppie e un singolo. Stimando in cinque minuti il tempo medio di conversazione, si arguisce che, se tutti vogliono chiacchierare in coppia con tutti, il chiacchiericcio non può esaurirsi prima di 45 minuti. Il tempo risulta in realtà assai superiore a quello minimo teorico, sia perché non v’è mai un ordine razionale nell’avvicendamento delle coppie, sia perché alcuni elementi (come Bertelli, Boldrini o Caparrini) raramente esauriscono la loro facondia in soli cinque minuti.
Per farla breve, dopo più di un’ora dalla partenza e solo quando l’odore della salita di Sughera penetra nelle neghittose narici dei ciclisti, essi si ricordano di avere una bicicletta e cominciano a ruzzare un po’ con gli scatti chiaramente effimeri di Pagni e Pelagotti. La strada che attraversa il Castellare di Tonda si addice agli scalatori ad intermittenza. Siccome il ritmo del duo gerarchico Nucci-Chiarugi è volutamente contenuto, anche Pagni, Pelagotti e Tempestini si affacciano nelle postazioni d’avanguardia. Rumoreggiano come mantici ed hanno facce alquanto inacidite, però riescono a mantenere una dignitosa efficacia nel loro sferragliare scomposti sulle bici. Tutto sembra preludere ad una conclusione in compattezza di ranghi quando dalle retrovie s’insinua furtivamente nell’affiatata cinquina il muso indagatore di Boldrini che sembra annusare l’aria come un topolino in cerca di cibo. Quest’immagine subitanea provoca uno scatto impaurito di Chiarugi che inibisce sul nascere ogni suo appetito licenzioso e sparpaglia l’armonia degli inseguitori. Con l’arrivo della Bertelli che non ama le salite intermittenti, di Bagnoli A. che non ama le salite e di Caparrini che ama tutto purché fatto lentamente, il gruppo torna ad essere un corpo unico che si rituffa nelle acque limpide e poetiche del paesaggio idilliaco.
A San Vivaldo un lirico Caparrini cita un brano novello di De Gregori (“sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”) per far capire che l’Empolitour non deve inseguire artificiose innovazioni quando può pedalare eternamente in luoghi come questo. “Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone”, i luoghi invece non cambiano mai, la loro diversità è nella percezione. Anche quando sembrano uguali nel moto del corpo non lo sono mai in quello dell’anima che ha oscillazioni climatiche assai più variabili di quelle atmosferiche. E comunque si ricorda su queste stesse strade anche una miracolosa nevicata fuori stagione che tramutò la sfida sui pedali in una bambinesca sfida a pallate.
Cambiano anche i bar per la sosta Pagni. Stavolta tocca ad un locale di Villamagna con tanto spazio e poche paste. Ma con mestiere Pagni può addolcire gli animi e le gole dei compagni anche con una barretta pediatrica di cioccolata Novi equamente ripartita in agognati minuzzoli. Poi una macchia con riflessi bianchi e azzurri avanza in serafico movimento ameboide sulla salita di Boscotondo: un casco chiomato, propaggine inconscia di celerità; un piccolo rosso e un gran turchese, conscia sintonia di lentezza; voci di desiderata unità; l’impazienza della disgregazione; il solipsismo della discesa; il paese che s’avvicina negli occhi inumiditi dall’aria veloce. Sembrano le foto di ieri con le didascalie di domani, corsi e ricorsi di gradita semplicità.
11/02/2001 Le sirene del
Serra
Le sirene che abitano nelle selve del monte Serra
irradiano dagli artificiosi pilastri televisivi melodie ultrasonore, murmuri
incantatori, irresistibili illecebre che plagiano le menti dei ciclisti, anche
di quelli più determinati negli intenti di piattezza. Ancora una volta il monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno sconvolge i programmi
dell’Empolitour che, sulla falsariga del nomoteta pianificatore Caparrini,
notoriamente moderato, sembravano svilupparsi in una tediosa gradualità prima
degli appuntamenti cruciali della stagione. Caparrini invece cede senza remore
al canto delle sirene; cede, dopo qualche tentennamento, anche Bagnoli L. che
coi suoi allenamenti mestruali avrebbe potuto addurre validi motivi d’inanità.
Tempestini è il primo ad udire il richiamo delle note lusingatrici, Pelagotti
si lascia trascinare con fanciullesca inconsapevolezza e per le orecchie di
Bertelli, Boldrini, Chiarugi, Nucci e Pagni questa variazione di percorso suona
con musicale soavità. L’unico Ulisse, insensibile e incorruttibile, è
Bagnoli A. che appena sente parlar di Serra dirige la bici verso sponde più
placide.
L’aria si disinteressa dei cicli stagionali
brillando tiepida e cristallina mentre la luna occidentale e il sole orientale
si danno il cambio delle consegne. Nella lucentezza mattutina il monte Serra,
questa innaturale escrescenza verde della crosta terrestre che sembra sorgere
per sbaglio in mezzo ad una piana vigilata a distanza dalle statuarie Apuane, si
pone come ideale punto di convergenza fra la terra, il cielo ed il mare, ed è
impossibile che un qualsiasi ciclista empolese nobile di spirito possa
castamente resistergli osservandolo nella sua nitidezza. La decisione di
aggredirlo dal più agevole versante butese, scansando ad arte ogni salitella
preliminare, serve ad alleggerire una residua scorta di titubanza che Bagnoli L.
si porta dietro per molti chilometri. I compagni cercano di farlo parlare per
distrarlo e per indurlo a credere che nelle gambe valga come nel cervello la
memoria a lungo termine e che, se uno ha pedalato otto mesi prima da Empoli a
Roma, possa ancora pedalare di rendita. A Fucecchio Bagnoli sembra convinto
della propria efficacia e Bertelli approfitta del momento di malleabilità
volitiva per suggerirgli che, se uno ha pedalato otto mesi prima da Empoli a
Roma ed è convinto di scalare il Serra in condizioni fisiche di tal fatta,
possa pure arrivare quattro mesi dopo in terra d’Abruzzo senza nocumento.
Tacciono le rime aspre e chiocce di Boldrini che naviga nelle retrovie solo,
pensoso e rallentato da un fastidioso gravame di responsabilità dopo la
performance della domenica precedente. Ambisce a spodestare i gerarchi Nucci e
Chiarugi ma forse il dubbio s’è già impadronito delle sue carni possenti
prima ancora d’essere a Buti.
Le anse della salita sono distintamente tracciate
nella memoria di ciascun ciclista ma quando arrivano sotto i pedali, le
sensazioni immediate sono sempre nuove e mutevoli. Chiarugi esplora subito il
senso della solitudine. Davanti a lui sale solo il sole che sile e che ogni
tanto s’affaccia fra i rami su qualche curva e lascia ammirare di sfuggita
l’intera Toscana ad oriente, con l’Arno che porta i sinuosi umori alla foce.
Il Nucci invernale, che lentamente cerca di trasformarsi da lemure a ciclista
degno di una passata fama, può soltanto seguirlo a distanza con un occhio
retrovisore sempre puntato sull’incalzante mole di Boldrini il quale avverte
ad ogni vana pedalata i morsi del cruccio e del rovello, mirando i due
imprendibili fuggitivi con gli occhi chirghisi infossati nelle sopracciglia
aggrottate per la fatica e quando giunge all’ombra delle antenne, continua a
girovagare ebbro di mestizia sotto la spinta consolatrice della rassegnazione.
Il volto arrossato e imperlato della Bertelli è quello della pregiata donna
d’agone che sfianca tutti i maschi inseguitori illusi di poter pareggiare
dietro a quelle seducenti leve che si piegano e si allungano in armonia coi
mirabili glutei e vincono, col loro moto rasserenante per il corpo, anche le
ugge viscerali provenienti da qualche ricettacolo dolorante dell’anima.
Pelagotti avanza col passo dell’industre formicona accumulando in inverno
distacchi pesanti ma nel contempo pregiata granaglia di allenamento, da
consumare nei mesi più soleggiati ed adeguati al suo tenore di vita. Pagni,
dimentico d’essere saggio veterano, avanza invece col passo dell’ardita
cicala sopravvalutando le ali non ancora temprate. A due chilometri dalla vetta
si avvolge nelle spire dell’ottundimento da fame e riprende conoscenza, senno
e buona creanza dopo aver bevuto una bibita ed aspirato come cocaina due fette
di pane col salame ottenute dopo snervanti trattative. Il regolarista Caparrini
accusa un ritardo di quattro minuti dal suo alter ego estivo e con lui pedala
Bagnoli L. in anticipo di una decina di minuti sul tempo previsto per un normale
ciclista in fase di prolungata stasi atletica. Il sorriso sornione con cui
completa la scalata sembra sottintendere che, gli allenamenti quotidiani di chi
con lui ha pedalato otto mesi prima da Empoli a Roma, possano considerarsi un
ufficio scarsamente redditizio. Tempestini è assorto nel silenzio della
sofferenza che è nemico della fretta e lo invita a riflessioni più profonde
senza l’assillo del tempo. La sua faccia pulita senza casco e occhiali da
saldatore non sembra aver subito la trasfigurazione dolorosa della crisi ma nel
lasso di tempo in cui i compagni lo attendono si formulano ipotesi di foratura,
smarrimento o Serra interruptus.
Poi il tempo è sospeso ad 810 metri dentro la
locanda dell’Amico Lento priva del flemmatico gestore. Un suo sostituto
visibilmente bradipsichico scatena la furia ipoglicemica di Pagni che,
riacquistata la sazietà, inserisce per la prima volta nel palinsesto della
sosta la componente fotografica. Così l’indugio si moltiplica per il numero
di pose e risulta superiore a qualsiasi tempo di scalata. Il gruppo riparte
quando normalmente sarebbe dovuto essere già a casa ma in giorni come questo,
quando le biciclette riflettono contemporaneamente la luce del sole e la felicità
dei loro nocchieri, il ritardo dovrebbe essere più regola che eccezione.
04/02/2001 Stare a Ruota
(racconto etimologico)
Perché nel gergo ciclistico si dice stare a ruota? Tutti credono che l’espressione derivi semplicemente da stare vicino alla ruota, cioè con quella anteriore vicino a quella posteriore del ciclista che precede, in modo da ridurre gli effetti della resistenza dell’aria. L’autore, sulla base di un’esperienza dell’Empolitour riferitagli oralmente e su ispirazione di un manoscritto amorevolmente ricevuto in dono, propone una lectio difficilior (forse un po’ stupidior)
Le gocce di pioggia rimanevano quasi sospese nell’aria, tanto erano leggere, sospese come le decisioni e le opinioni sulla pedalabilità che scorrevano nervosamente fra i cavi del telefono nella mezz’ora prima della prevista partenza. Voci miste a sbadigli convergevano verso il presidente Caparrini che fungeva da moderatore in pantofole, pantaloni di pigiama e t-shirt. Il grigio è il colore dell’incertezza che dilata in maniera penosa e, come si dice nell’Empolitour, gastrolesiva le telefonate. Il fradicio delle strade era invece per Bagnoli L. l’immagine della certezza di rinuncia ma la sua telefonata arrivava ugualmente per puntualizzare che nonostante i due allenamenti trimestrali egli non fosse ancora da considerare un ex ciclista. Lo scalpitio di centinaia di podisti in attesa di gara era il rumore della tentazione. Caparrini e Nucci avevano nelle gambe un’attitudine alla corsa che li elevava nella scala evolutiva di un buon gradino al di sopra della specie di podista bubbonicus menzionata in un precedente racconto. Ma rinunciare alla domenicale bicicletta per un agone podistico avrebbe rappresentato nel regolarista Caparrini una mutazione comportamentale troppo rivoluzionaria e la telefonata del risoluto Tempestini ebbe maggior potere persuasivo della presenza, in elegante livrea podistica, del rinomato Chiarugi. Così le bici di Caparrini, Nucci e Tempestini si avviarono per naufragare nel dolce guazzo lungo le vie che portavano al paese di Ruota, un borgo senza tempo, cesellato in una nicchia collinare del monte Serra dove nessun vento osava penetrare e dove anche le nebbie erano restie a condensarsi lasciando nella mente dei visitatori ciclisti un’onirica visione di quiete assolata da raggiungere attraverso un’erta serpiginosa per niente tiepida. Per questo l’Empolitour sembrava mettersi d’accordo con le perturbazioni atmosferiche nei giorni predestinati a Ruota. Consapevoli che lassù li avrebbe attesi un clima temperato, i tenaci biancoazzurri erano soliti partire per questo itinerario in condizioni atmosferiche avverse, quasi auspicandole per apprezzare a piena anima il piacere leopardiano di quiete dopo la tempesta. Il pensiero di questa quiete non fu deformato nemmeno dall’imprevisto arrivo di un quarto ciclista. La sagoma carnosamente enfiata di Boldrini comparve nella bruma scrutando con due occhi da Gengis Khan i compagni su cui misurare la sua straripante possanza. Deluso per l’assenza di Chiarugi, adocchiò allora con intenti famelici le zampette ipotoniche di Nucci, meditando cruenta tenzone.
L’acqua divenne ben presto la componente principale del vestiario. Proveniva da ogni direzione dello spazio: fine, tersa e talora vaporosa dall’alto, grossa e sudicia dalle proprie ruote su piedi e gambe o da quelle altrui sui volti altrimenti incapaci di sudare. Indecisi fra prendere in faccia il vento o gli immondi schizzi di pozzanghera, i ciclisti sceglievano spesso la prima meno aerodinamica opzione, avanzando in placida quadriglia con Tempestini sempre all’esterno per invadere liberamente la carreggiata opposta.
Ai piedi della salita la bruma s’intensificò e così pure la salivazione di Boldrini. I suoi occhi chirghisi emanavano microonde e raggi infrarossi e cominciarono a rosolare a fuoco lento le misere carni dello sfidante Nucci. Arrivò subito una dura rampa e Boldrini, respirando compostamente nell’indistinto grigiore, udì lo sferragliare di una catena vanamente protesa sul ventisei ovvero il rumore della resa di Nucci. Il leggero scalatore vide la sua fine scritta in due abominevoli glutei che si allontanavano irrimediabilmente. Il cranio di Boldrini spuntò per primo dalla nebbia ed assaporò il miracoloso cambiamento di clima: tacque il vento freddo, cessarono gli spruzzi d’acqua sul volto e un tepore inconsueto sciolse il suo ghigno volitivo che divenne sorriso a trentadue denti quando si rese conto d’essere ormai irraggiungibile. Nell’oasi di Ruota i fedeli che uscivano dalla chiesetta della piazza guardavano con curiosità questo ciclista membruto e madido che ululava con singulti di gioia. L’ansia di conversazione lo pervase, avrebbe urlato al mondo intero il suo sentimento ma si accontentò di tornare indietro per rendere anche Caparrini e Tempestini partecipi del gaudioso evento, avvertendo telepaticamente (e poi anche telefonicamente) Chiarugi che prima o poi sarebbe toccato pure a lui lo stesso trattamento.
I quattro, accompagnati dall’esuberante letizia di Boldrini, entrarono allora nell’unico esercizio pubblico del paese, un angusto corridoio adibito a bar dove i clienti facevano a turno per sedere a tavolino. Gli abitanti di Ruota dopo la messa completavano il rito domenicale con una lunga fila per rifocillarsi in questo locale e i ciclisti si unirono a loro aspettando pazientemente la meritata razione di dolce e caffè. Fu questo l’unico momento della giornata in cui riuscirono a stare uno dietro l’altro dandosi cambi regolari per consumare a tavolino e provarono una sensazione piacevole e defatigante dopo aver passato tutta la mattina col vento e l’acqua in faccia. Da allora, in ricordo di questa esperienza, quando qualcuno si trovava a pedalare senza sforzo ben riparato nella scia di un altro, si cominciò a dire che era come stare a Ruota.
21/01/2001 Il piatto
piange
Pisa e Lucca non si possono vedere, non dico nel
senso di atavica rivalità cittadina ma per la naturale interposizione del monte
Serra (“… monte / per che i Pisan veder Lucca non ponno”, come scrive
Dante), però se i lucchesi nei giorni chiari e sereni scrutano attentamente
l’orizzonte ad est, dall’alto dei loro rinascimentali bastioni, possono
tenere Empoli sotto controllo per individuare sul nascere l’avvicinamento di
eventuali truppe d’invasori. Il tragitto da Empoli a Lucca, piatto e liscio
come una distesa marina in tempo di bonaccia, può servire a scopo didattico per
dimostrare la sfericità della terra. Come dalla riva si avvistano le navi
all’orizzonte discernendo prima gli alberi e le vele e poi lo scafo, così in
questa domenica senza foschia i lucchesi di vedetta sui torrioni avrebbero
potuto intravedere fin dalle 8.45 l’apparizione lentissima di sette teste di
ciclisti: prima quella svettante di Caparrini (la più facile da riconoscere
perché ben presto marcata con l’enorme fascia color giallo sudore), poi
quella mascherata di Chiarugi ed a seguire, il soffice copricapo ornamentale di
Bagnoli L., le chiome in libera uscita dal casco della Bertelli, gli elmetti
puntuti di Boldrini e Tempestini e l’azzimata testolina di Nucci.
L’imponente ammiraglio dell’Empolitour ha stabilito questa rotta su placide
vie col sogno di raccogliere tutte le navicelle più deboli e meno use al mare
in tempesta, quelle che tre giorni prima erano approdate nell’angusto porto
del banchetto sociale in pari dignità coi vascelli più snelli e ondivaghi,
promettendo loro libagioni principesche nel cuore del ducato borbonico, ma alla
resa dei conti si ritrova con la ristretta flotta delle imbarcazioni più rapide
del momento. Fuor di metafora, si attendono i bradicinetici, i salitofobi, gli
imbolsiti e i gaudenti, ed arrivano quelli più fogati. Ma se potenza, forza,
scatto e resistenza si acquisiscono su un substrato fisiologico congenito con
sacrificio e dedizione, i sette atleti dell’Empolitour vogliono dimostrare che
lentezza, fiacca, avversione per le salite e amor di godimento sono qualità
acquisibili, acquisibilissime, anche senza predisposizione genetica o
allenamento. Ed alla fine riusciranno nell’intento.
Il gruppo erra in sonnolenta armonia anche sulle
poche increspature che offre il percorso. La rassegnazione ad un destino piatto
e uniforme è scritta negli occhi di chi osserva un monte Serra mai così
luminoso e mai così sfiorato senza essere scalato. “Non ragioniam di lui ma
guarda e passa”, sembra dire Caparrini a Chiarugi nei pressi di S.Andrea di
Compito. Vana è la ricerca di spunti nel taccuino agonistico del cronista, a
meno che non interessi un allungo di Tempestini in pianura o la frustrazione
degli attacchi dedicati a Boldrini sulle Vedute a cui il destinatario risponde
con inaspettata abulia. Per fortuna arriva Lucca. Le selvagge pendici del monte
Pisano lasciano il posto ad un incontaminato ecosistema fatto di opifici,
concessionarie, centri commerciali, incroci, semafori rossi, sensi unici e
soprattutto pedoni. I 3,8 chilometri di circuito murario sono un’oasi naturale
dove vivono allo stato brado molte specie umane protette. Fra queste la più
ricercata è il podista bubbonicus, riconoscibile per certe
caratteristiche morfologiche come il k-way da sole per sudare o le cuffie
musicali o il cane al guinzaglio o i calzettoni alle ginocchia o il passo a
frequenza di tre su un mattone, attributi questi non di rado concentrati tutti
in un unico individuo. Il naturalista Linneo classificò questi primati nel
genere podista per onore di tassonomia ma bisogna intendersi sulla loro
velocità, poiché molti anziani coniugi uscenti dalla messa li sorpassano e
talvolta li doppiano. Ci sarebbe da descrivere anche il ciclista tardigradus
che s’ispira al modello comportamentale della suddetta specie podistica, ma
dopo aver assistito alle odierne pedalate dell’Empolitour non è il caso
d’ironizzare troppo. Per lo meno, alla luce di questo stato motorio
decisamente debole, la sosta, che per definizione è cessazione di movimento,
diventa un trapasso poco traumatico. Il rito pagnano ortodosso viene officiato
in piazza dell’anfiteatro. Testimone innocente è un silenzioso ciclista
fucecchiese aggregatosi ai sette colleghi dall’apparenza atletica, con
l’illusione di un serio allenamento seppur di pianura. A sorpresa si uniscono
alla celebrazione anche gli abituali digiunatori Bertelli e Chiarugi, ma solo
per motivi scientifici, in preparazione di un lavoro sull’analisi
chimico-fisica e organolettica del ripieno delle paste consumate durante le
soste-Pagni. I due ricercatori, coadiuvati dagli altri cinque nel ruolo di
assaggiatori, hanno rilevato che in questo caso i contenuti dichiarati (riso,
mela e crema) erano stati inseriti nell’architettura della pasta sfoglia allo
stato di gas inodore e insapore, e pertanto le tre tipologie di prodotto
risultavano indistinguibili. Su sollecitazione di Bagnoli L. altri studiosi
sperimentano la tecnica della nudatio membrorum pagnana sicca, variante
della più artistica nudatio uncta che è appannaggio esclusivo del
maestro Pagni e dei suoi licenziatari.
Il ritorno dell’Empolitour e del trasognato
fucecchiese restituisce alle cronache un po’ di ciclismo e di sofferenza:
tirate a trentotto controvento, scatti liberatori sulle collinette delle Cerbaie,
cedimenti razionali e dolori ginecologici. Ma in definitiva l’arrampicata più
dura è stata quella del narratore sugli specchi a cercare argomenti plausibili
per questo scritto, senza piangere sul piatto (inteso come percorso) in attesa
delle più ispiratrici arrampicate sui colli.
14/01/2001 Ansimando
nel vento (Blowing in the wind)
Un soffio di cielo freddo disperde il respiro. Percuote con insistente furore gli esili corpi in equilibrio instabile sulle sottili ruote. I ciclisti ora annaspano nelle ondate invisibili implorando pietà, ora si avvinghiano al manubrio per mantenere la diritta via quando sono colpiti di lato, ora si abbandonano con sollievo alla corrente benevola che li trascina da tergo. Ogni raffica che sferza i volti rigidi e rassegnati ad uno sforzo inane, si tramuta in un’iniezione endovenosa di ghiaccio che arriva istantaneamente a mani e piedi. Dietro ogni curva c’è una speranza di cambiamento, di cessazione della sofferenza e una fila di case o una collinetta che offrono un temporaneo riparo sono accolte con intima felicità. Le labbra infreddolite articolano parole biascicate che si diffondono rapidamente nell’aria giungendo indistinte alle orecchie non meno gelide. Parla soltanto il vento, con la sua voce che stormisce fra i rami stecchiti e li frantuma spargendone i brandelli per la strada.
Ma un suono baritonale rimbombante si sta movendo
lentamente in questa domenica turbinosa: è Caparrini che guida l’Empolitour
sbuffando nelle spire dell’atmosfera. Disserta di chissà cosa con lo stesso
abbigliamento e la stessa espressione dei giorni di bonaccia, ma lui ha una mole
corazzata che divide il vento e il suo regolare motore sembra funzionare ad
energia eolica anche se, quando gli arrivano in faccia le folate più tenaci, è
costretto a curvare l’immane schiena sul manubrio, incrementando l’abituale
moto ondulatorio del corpo mentre pedala. Con lui c’è Bagnoli L., una strana
macchina biologica che viola il secondo principio della termodinamica.
Probabilmente riesce a trasformare la bassa temperatura in lavoro fisico con un
rendimento molto vicino al 100%, altrimenti non si spiega come un ciclista,
sedentario da mesi, riesca a pedalare in queste condizioni senza evidenti
smorfie di crisi. C’è Boldrini, che non fa mistero della sua natura umanoide.
Viaggia quasi ignudo a testa pelata roteando le gambe come carnose pale di un
mulino a vento. Soltanto gli occhiacci da lupo della steppa, irrorati da un velo
di lacrime per assenza di occhiali, lo fanno sembrare quasi normale. C’è
Chiarugi, di cui si scorge ogni tanto un timido naso come unica prova di
esistenza del suo corpo racchiuso in dieci chili di guscio protettivo
d’indumenti. Tenta di rianimarsi nell’iniziale pianura con una fuga a scopo
calorigeno cui soltanto Boldrini risponde, non per il freddo ma per
l’istintivo impulso che gli deriva dal ruolo predestinato d’inseguitore.
Nucci s’ispira al modello chiarugiano di uomo mascherato con la variante dei
copriscarpa asociali da puffo o giullare senza però il campanellino che
tintinna sulla punta. Svolazza come un palloncino legato in modo malfermo alla
bici e non gli giova la piccola zavorra di grasso accumulata per effetto
d’irrisori allenamenti podistici. Quando tenta di togliersi, pedalando
controvento, l’originale e bizzarro gilè sociale, pare in dubbio se ruzzolare
subito per terra o rimanere irrimediabilmente inviluppato nell’ordito
dell’indumento, ma poi decide di svestirsi fermandosi. Pelagotti dopo la pausa
festiva somiglia sempre di più ad un possente pinguino e come tale potrebbe
resistere anche ad un bagno nei mari d’Antartide. Tutti temono che, una volta
ridotto il pannicolo adiposo protettivo, egli possa levarsi in ambiziosi voli
sulle salite. Nel frattempo si accontenta di battagliare con Tempestini che si
nota per la girandola frenetica delle gambe che sembrano animate dal vento come
una banderuola ma che, a guardar bene, risultano alle prese con rapporti da alta
montagna spinti, per arcana scelta tecnica, in pianura o in discesa.
Il motivo agonistico dominante del giorno, e
probabilmente di molti giorni a venire, è rappresentato dagli ossessivi
attacchi a Boldrini sferrati da chiunque possa permetterselo (e per ora soltanto
da Nucci e Chiarugi). Tre salite (Mura, Pozzolo e Certaldo alto) ed altrettante
lotte intestine (o intestinali secondo il colorito lessico boldriniano)
all’ultima goccia di acido lattico. Boldrini ha una propensione naturale a
subire attacchi, li attrae fatalmente. Chiunque lo oda in salita scandire il
mostruoso passo col clangore della sua voce, è colto da un irrefrenabile
desiderio d’accelerazione. Così accade a Montatone, con l’assalto combinato
di Chiarugi e Nucci che lo costringe alla resa parziale, o a Certaldo alto, dove
Pelagotti accende anticipatamente la bagarre con uno scatto al semaforo rosso
che termina in una subitanea inchiodata sulla prima rampa al 16%. Sulla strada
tassellata di mattoni, Boldrini è lì ad un passo dai capitani come presenza
diabolicamente ambiziosa. I suoi occhi ferini lacrimano ancora. È freddo o
delusione? Quante salite dovranno ancora passare prima di vederlo fuggire
solitario? E quante lune dovranno ancora eclissarsi prima di vederlo pedalare
con grazia ed eleganza? La risposta, amico mio, è dispersa nel vento, la
risposta è dispersa nel vento.
C’era una volta una montagna piatta. Non un banale altopiano, ma un rilievo privo d’altezza dove lo spazio e il tempo erano contratti a tal punto nella terza dimensione da renderlo indistinguibile da una pianura. Aveva tutte le caratteristiche orografiche di un comune monte ma la strada che portava in vetta era completamente pianeggiante. A percorrerla in bicicletta si poteva apprezzare la progressiva rarefazione dell’aria, l’abbassamento della temperatura, e la graduale scomparsa della vegetazione d’alto fusto, ma la pendenza rimaneva costantemente nulla. Si spingeva per chilometri e chilometri il 53x15 arrivando in un’oasi montana incontaminata dove vivevano soltanto i pastori eternamente giovani. Sì, perché questo luogo era un vero paradosso della fisica newtoniana dove vacillavano pure le leggi della relatività generale. Infatti per un osservatore in moto dalla base alla cima del monte o viceversa, non solo il dislivello spaziale era invariabile, ma anche il tempo si manteneva congelato in un presente infinito. I pastori indigeni si dedicavano perciò a continue transumanze, su e giù per i pascoli col proprio gregge in maniera tale che per loro il tempo non passava mai e anche le pecore restavano giovani e feconde produttrici di lana e latticini, utili a riscaldare e sfamare i privilegiati padroni che comunque, per godere del loro privilegio anti-invecchiamento, si sorbivano ogni giorno centinaia di chilometri a piedi e al freddo delle alte quote.
Quando i fiabeschi ciclisti dell’Empolitour seppero
di questa salita pianeggiante, convennero che, dopo le obliate gesta di
Capodanno sul monte del futuro, fosse affascinante cimentarsi anche con le
insidie del presente. Qualche dissacratore osservò che già molte salite
apparenti erano state affrontate al Giro o al Tour, e ricordò il Maso Corto, il
Fuorn o il Val Thorens, ma fu messo a tacere. Qui si trattava non tanto di
conquistare il colle ideale dei passisti, ma soprattutto di vivere un’intera
avventura nel presente, partire alle 8.30 e tornare pressappoco alla
stess’ora, con buona pace di mogli e suocere intolleranti e con la possibilità
di avere la mattina libera per dedicarsi, chi al secondo lavoro, chi al secondo
allenamento, chi a lavatura e stiratura o chi a riprendere il sonno interrotto.
Il gigante, che aveva un rapporto di amore-odio con la forza di gravità, fu
subito entusiasta dell’idea anche se era consapevole di dover rinunciare
all’abituale cronometraggio della scalata che, per forza di cose, si sarebbe
sempre conclusa in un tempo uguale a zero. Doveva però scoprire, e non sarebbe
stata cosa agevole, l’esatta ubicazione della montagna che si confondeva
benissimo con la vera pianura ed era sconosciuta a qualsiasi ciclista. Decise
perciò di condurre il gruppo laddove nessun ciclista assennato si sarebbe mai
proposto d’andare, studiando un percorso che sulla carta si sviluppasse lungo
un’unica isoipsa e portando con sé altimetro e livella per scansare
accuratamente ogni dosso, cavalcavia o altro avvallamento naturale o artificiale
del terreno. La meta prescelta fu Lucca, proprio perché insensata, inedita e
pianeggiante, da raggiungere costeggiando fossi, torrenti e fiumi con lo scopo
di osservare la tipica assenza di corrente che caratterizzava i corsi d’acqua
della montagna piatta. L’ippogrifo, abituato com’era a volare fin sulla
luna, non amava molto le false salite e si dissociò dai compagni, preferendo
galoppare con altri suoi simili al parco delle Cascine, zona pianeggiante non
abitata da pastori e pecore ma tuttavia da molti scarpinatori e, si diceva,
anche da uomini che della pecora amavano imitare l’atto sessuale.
Ma ancora una volta gli ambiziosi ciclisti avevano
fatto i conti senza gli dei. L’ipotesi che un mortale potesse ottenere
l’eterna giovinezza con una piatta uscita in bicicletta, non garbava molto
agli abitanti dell’Olimpo perché, si sa, se l’uomo perde la mortalità ha
meno bisogno d’invocare le entità sovrannaturali. Usarono pertanto la pioggia
quale mezzo più semplice ed antico per dissuadere un ciclista dalle intenzioni
pedalatorie. Non paghi, riuscirono ad inibire anche qualsiasi altro moto
alternativo manovrando ineffabilmente gli eventi astrali: ci fu chi si ritrovò
con imprevisti impegni lavorativi, chi si sentì stanco, chi malato, chi
infreddolito e chi affamato. Soltanto la fata pedalò, non tanto per cercare da
sola la via della sospensione degli eventi, poiché la sua bellezza era di per sé
eterna e non temeva minimamente la corruzione del tempo, quanto per aiutare gli
amici chiedendo informazioni alle ninfe dei boschi sue sorelle. Incontrò invece
tre satiri a cavallo che attentarono alla sua virtù ma riuscì a procurarsi
l’arcobaleno che guida il volo degli uccelli, lo stampò su un grandissimo
turbante e l’indomani lo regalò al gigante. Con quel copricapo fatato lo
smisurato nocchiero avrebbe potuto illuminare la mente e seguire ad occhi chiusi
la direzione per la montagna piatta. Il gigante indossò il turbante iridato e
gli occhiali scuri (e nel clima grigio e fosco di quel dì era proprio come
viaggiare ad occhi chiusi) per guidare un folto stuolo di accoliti verso
l’eterno presente. La notizia dell’originale salita in programma volò
infatti veloce di bocca in bocca. Oltre alla fata c’era il delicato
principino, con la regale testolina fasciata, l’orco, il più adatto ancorché
raccapricciante esemplare per una salita da passisti, il cavalier tempesta,
mimetizzato in grigio con l’atmosfera, il barone rutilante, eccitato al
pensiero di una lunga salita senza pendenza e il re di Bassa, desideroso di
nuove terre su cui dominare e sostare, che portò con sé l’apprendista
palafreniere. L’ippogrifo tergiversò a lungo ma alla fine si aggregò agli
altri perché in fondo, diceva, una salita piatta è sempre meglio d’una
discesa. Giravano notizie sconfortanti sull’orso bruno che durante le festività
natalizie pare si fosse rinchiuso nella tana ed avesse consumato tutte le
provviste per l’inverno assumendo l’aspetto di un enorme batuffolo di pelo.
Per non parlare del grillo saggio, rimasto immobile giorni e giorni su un filo
d’erba per paura di bagnarsi con la rugiada.
Il gigante ebbe dal turbante magico la giusta
ispirazione direzionale e si rammentò dell’esistenza, nelle vicine terre del
Chianti, di un Passo dei Pecorai che si estendeva a cavallo fra due fredde
pianure. Era una soluzione fin troppo facile e per questo sospetta, ma tutti si
fidarono dell’intuizione e seguirono il loro duce che giganteggiava in testa
al gruppo rischiarando la via coll’immenso arcobaleno craniale. La salita
piatta tardava ad arrivare ma il gruppo si teneva in esercizio con molta pura
pianura. Qualcuno affermò mugugnando che per fermare il tempo si sarebbe potuto
scegliere una giornata un po’ più soleggiata ma intanto arrivò anche qualche
salita con pendenza (si fa per dire perché si trattava del Chiesanuova). Tutti
sembravano risparmiarsi in vista della salita falsa, tranne la fata che tirava
con brio, come se inseguisse ancora una volta il futuro. Gli dei nel frattempo
tentavano di persuadere i ciclisti a redimersi spruzzandoli di pioggerella e
costringendo i più idrofobici a ripetute soste per indossare mantelline con le
quali si bagnavano lo stesso anche se di sudore. Si avvicinava il Passo dei
Pecorai ma il tempo non dava l’impressione di volersi fermare e non si fermò
e non si videro neppure i pecorai eternamente giovani. Iris, la dea degli
arcobaleni, aveva condotto il gigante fuori dalla retta via per punire la
superbia degli atleti e per ammonirli che non c’è bisogno di montagne piatte
per rallentare o carpire la fuga dell’attimo, quando lo spirito della
bicicletta ci riesce benissimo da solo anche attraverso itinerari meno
mitologici. I ciclisti delusi compresero che era il momento di tornare coi piedi
sui pedali e pensare alle salite normali, rinunciando alle lusinghe di quelle
paranormali. Si scatenarono allora su tutte le strade acclivi che incontrarono,
prima sulle Bolle, dove l’orco, prevalendo di slancio sull’ippogrifo e il
principe contribuì al peggioramento delle condizioni atmosferiche, e poi sui
Falciani dove l’ippogrifo si librò solitario nell’aria con un maestoso
battito d’ali.
Qualcuno però si accorse che durante la sosta regia
al bar di Strada in Chianti, il tempo si era fermato davvero. Insieme al
cronometro dei ciclocomputer, che si arresta quando la ruota non gira, si erano
arrestate anche le lancette dell’orologio universale, per pochi minuti, giusto
il tempo di un sorso di caffè, un morso alla pasta sfoglia, una pisciata
bramata, un casco tolto, un volto asciugato o una treccia sciolta.
Non era quello un semplice bar ma l’ovile di un pastore eternamente
giovane, camuffato da gregario di Bartali e uscito mezz’ora prima per la
quotidiana transumanza sulla montagna piatta. Il barista (che era in realtà un
eone sotto mentite spoglie) disse che esistevano, sparsi per le campagne, molti
di questi locali costruiti appositamente con le rocce del monte dove i pastori
si recavano per conoscere nuova gente senza dover invecchiare neanche un minuto.
I nostri eroi si guadagnarono così qualche attimo in più di vita felice e
trovarono altri validi motivi per giustificare e intensificare le loro soste
goderecce. Non si sa mai che fra un caffè e una pasta potesse saltar fuori un
giorno anche qualche pastore disposto a guidarli sulla montagna piatta.
E nell’attesa dell’incontro vissero felici, bagnati e contenti.
C’era una volta una montagna altissima, ma di un’altezza assai peculiare. Non si estendeva infatti nello spazio ma nel tempo. La sua vetta superava le nuvole dei giorni venturi e chi la conquistava, attraverso l’impervia strada della successione degli eventi, giungeva ad ammirare un immenso panorama sul futuro. Lassù vivevano soltanto monaci barbuti dediti all’ozio perenne, giacché sostenevano che intraprendere qualsivoglia attività non valeva la pena, se tanto poi si poteva sapere in anticipo come sarebbe andata a finire. Il monastero arroccato sulla cima del tempo era meta molto ambita dai ciclisti, soprattutto all’inizio di un nuovo anno quando i buoni propositi e i desideri di preveggenza toccano nella gente il massimo grado d’espressività. In effetti, affrontare pendenze cronologiche in bicicletta offriva sensazioni ineguagliabili: ad ogni tornante s’andava avanti di un giorno e le immagini del futuro si susseguivano in modo proporzionale alla velocità, cosicché si poteva accelerare nei giorni brutti e rallentare per meglio godersi quelli belli. I monaci però, che erano sì depositari dei segreti del tempo ma al prezzo di una diuturna rottura di palle, non tolleravano che qualcuno arrivasse in cima bel bello, apprendesse il futuro e se ne tornasse al calduccio della mondanità con la mente degna di un aruspice. Diffondevano perciò nell’aria un gas obliante che rendeva piuttosto labili le visioni premonitrici tanto che, dopo aver contemplato dal cortile dell’abbazia gli sterminati confini del tempo ed essere ridisceso a valle, il ciclista dimenticava tutto, persino il nome della montagna e le vie per arrivarci.
Così accadde anche ai nostri ciclisti cercatori di
calore natalizio. Più volte il gigante e l’ippogrifo avevano percorso
quest’ascensione verso la temporalità infinita nel giorno di capodanno ma
l’oblio era sempre sopraggiunto, cancellando implacabilmente ogni riferimento
geografico. Questa volta partirono un giorno prima con l’intento di vagare in
cerca di questo monte innominato, sperando prima o poi di risvegliare qualche
immagine nella memoria ottenebrata, qualche illuminazione al passaggio da luoghi
già percorsi ma rimossi. Si aggregarono a loro, con grande sprezzo
dell’ignoto, il principe, la fata con la pelle di lucertola e l’orco
riabilitato dagli dei. La prima meta che baluginò nella mente del gigante fu il
Monte Carlo ma ebbe poi un’indefinita impressione che il nome del monte
cominciasse con Se, come Sella, Sempione, Senales, Serenat, Sernio, Serico,
Seminario, Sellero…Troppo vago. Ce n’era per svernare sulle strade di
mezz’Italia. Decisero allora di chiedere aiuto al sovrano opulento e gaudente
del regno di Bassa, che aveva già scalato la montagna ed amava spesso fuggire
dal suo piattissimo feudo per innalzarsi verso il regno dei cieli. Era
dominatore incontrastato di quelle terre, rex et sacerdos, arconte delle
Soste, basileo della Pasta Sfoglia, archimandrita del Presciutto, nonché
dignitario supremo della Crema Solare. Nel suo fastoso palazzo la tavola era
imbandita ogni ora ed attorno al suo trono s’aggiravano servizievoli ancelle,
eunuchi e cubiculari che lo cospargevano di pregiati unguenti e porgevano il
cibo alle instancabili sue fauci. Assai magnanimo coi sudditi, pretendeva però
il rispetto tassativo di una sola norma, la lex de interponenda mora
o regola delle soste: tutti gli abitanti del regno erano obbligati ad
interrompere, almeno ogni mezz’ora, qualsiasi attività motoria per
sorseggiare in fumosi abituri l’insipida bevanda regia, nera e bollente come
la pece.
Il re venne incontro ai cinque girovaghi in sella ad
una bici non molto regale che sfidava per esibizione fangosa quella della fata
che dal fango era stata creata. Guardò il cielo ed esclamò con perentorio
trionfalismo: “Monte Serra!” Quella poteva essere effettivamente la montagna
del tempo, e non solo per le lettere iniziali del nome. Sulla sua vetta infatti
s’intravedevano strane costruzioni sopraelevate che parevano i torrioni di
un’abbazia e poi molti si ricordavano d’aver udito che sul Monte Serra
vivesse un eremita barbuto, piuttosto ozioso e con una concezione del tempo
alquanto dilatata. Così tutti si persuasero subito della giustezza dell’idea,
anche il gigante che in salita respirava come il vento in tempesta ma che non si
sottraeva mai ad una sfida contro un’entità più imponente di lui. Il vento,
quello vero, soffiò alle spalle dei ciclisti fino ai piedi della montagna. Era
un altro segno che tutti gli dei meteorologici, Eolo compreso, si erano
riappacificati con l’orco. La fata, che in pianura non aveva ancora dato
sfoggio alle sue arti magiche, in salita riuscì a compiere un vero prodigio:
tenere il gruppo compatto fino all’arrivo. Soltanto un cane col sonaglio al
collare non fu da lei convinto a pedalare in loro compagnia e fuggì per una via
laterale. Passavano intanto le rampe ma non i giorni e i ciclisti cominciarono
ad insospettirsi. Lo spazio, è vero, si elevava in un godimento dell’anima
silenzioso, a parte il vento impetuoso che spirava dai polmoni del gigante, ma
il tempo fluiva seguendo l’abituale cadenza, più lento dei cuori e un po’
più veloce dei pedali che stavano ruotando veramente piano. Nessuno percepì
alcun potere divinatorio: erano partiti il 31 dicembre e quando il re, spinto
per dovere di rango dal principe, si allontanò dal plotone per l’attesissimo
incontro col monaco barbuto, era ancora il 31 dicembre. E comunque, a
completamento della beffa, lassù non trovarono ad aspettarli nemmeno un monaco
barbuto. Compresero allora che quella era un’altissima montagna che non
squarciava le nubi del futuro. L’aria rarefatta infuse però nelle menti
intorpidite dall’oblio, una parola che uscì unisona dalle gole dei ciclisti:
Senario. Era quello il fatal monte? Tornarono indietro e qualcuno era forse
convinto di poterlo ancora conquistare prima della mezzanotte, ma si bucarono
ruote, si allagarono strade, franarono colline e il vento soffiò contrario. Gli
dei vollero che la scalata nel tempo fosse rimandata, come per tradizione, al
primo giorno dell’anno. Ma intanto i ciclisti si erano guadagnati una bella
scalata nello spazio liberi dai tradizionali vincoli programmatici stagionali.
Il mattino dopo il cielo s’illuminò d’immenso.
Gli dei nefasti, sapendo che l’orco non avrebbe partecipato al pellegrinaggio,
dormirono tutto il giorno. Febo, il dio sole, si esaltò nel suo splendore e
mostrò ai pochi uomini mattinieri interi orizzonti di meraviglie e monti che
sembravano gelati con la panna montata lì a portata di mano. I cinque ciclisti
apprezzarono molto queste sublimità spaziali ma i loro pensieri erano tutti
rivolti ai prodigi temporali che li attendevano. Puntuali e smaniosi si
presentarono presso la mastodontica sede sociale del gigante, l’ippogrifo, il
principe, la fata, che aveva mutato pelle assumendo un gradevole colorito
turchino, e il re gaudente. Arrivarono anche tre magi provenienti da lande
semisconosciute con biciclette esotiche e abbigliamento non meno insolito,
soprattutto il capo magio che indossava una livrea da rettile simile alla
vecchia pelle della fata, coperto da una specie di rete da pesca fra le cui
maglie s’intravedeva un frutto oblungo, forse un dono da portare ai monaci.
Anche lui aveva già violato il monte del futuro ma non ricordava quasi nulla,
gli rimaneva soltanto l’immagine sfocata di una metropoli da attraversare.
Unendo gli indizi frammentari, il nome Senario e la metropoli, gli otto ciclisti
addivenirono alla conclusione che bisognava dirigere le ruote verso Firenze,
sperando di trovarla ancora addormentata. Era noto infatti che nella città
vivessero i feroci ciclofagi, mostri che si nutrivano di biciclette, meglio se
insaporite con l’annesso ciclista. Solevano appostarsi presso i semafori a
tendere agguati, per questo i rari ciclisti che passavano per i viali della
metropoli non si fermavano mai col rosso. I nostri otto ardimentosi non erano
disposti a rinunciare al monte Senario per colpa di qualche ciclofago e comunque
speravano che anche i mostri avessero onorato la notte di San Silvestro e
fossero stanchi e sazi. Lungo la strada incontrarono stranamente molti gruppi di
pedalatori, ma tutti in fuga da Firenze, e questo non parve molto confortante.
La città non si rivelò quel deserto auspicato ma i semafori erano quasi tutti
verdi e i pochi ciclofagi svegli rimasero a bocca asciutta. Giunsero così
all’inizio della salita protesa verso il tempo, solennemente annunciata dal
gigante che in questo tipo di occasioni era solito indossare un enorme turbante
propiziatorio che pare lo proteggesse dal sudore, o meglio sarebbe dire che
proteggeva gli abitanti dei paesi attraversati che sarebbero stati spazzati via
dalle inondazioni causate dalla sua torrenziale sudorazione.
Nei primi chilometri la strada saliva blandamente e
di conseguenza il futuro avanzava lento, di ora in ora, e talvolta con qualche
breve discesa si tornava un po’ anche nel passato. In quei momenti tutti
ebbero una strana visione di un pandoro e lì per lì non capirono. Poi il tempo
cominciò ad innalzarsi con più asprezza, il gruppo si sfaldò e si
susseguirono le premonizioni dei giorni e poi dei mesi futuri. Il gigante vide
tutti gli arrivi delle Classiche del Nord, vide le tappe del Giro, il monte
Bondone, la salitaccia di Santa Barbara che lo fece accelerare e lo Stelvio
innevato; e qui rallentò per godersi più a lungo lo spettacolo. Il re
ovviamente si gustò un centinaio di soste, col sole a perpendicolo e fiumi di
crema solare e pasticciera. La fata si vide arrivare applaudita in tanti
traguardi, indossando un paio di pantaloncini sociali che non la facevano
intimamente soffrire. Il principe, che stava pedalando coi magi e l’ippogrifo,
ad un certo punto frenò poiché era approdato presso un giorno in cui notava un
meraviglioso culo di una fantesca di corte. L’ippogrifo invece era ansioso di
conquistare il futuro assoluto che si scorgeva dal cortile dell’abbazia.
Giunse lassù per primo insieme al capo magio e all’orizzonte gli si spalancò
il destino dell’umanità e dell’universo. Tutti arrivarono alla spicciolata
superando una dura rampa che li fece saltare avanti di diversi anni, e rimasero
abbacinati di fronte all’immensità del tempo. Per giunta scoprirono che non
v’era traccia di monaci barbuti né tanto meno odore di gas obliante. I pigri
cenobiti infatti, dopo una vita passata nella tediosa onniscienza, avevano
deciso di festeggiare il millennio libando spumante addizionato col loro
famigerato gas, dimenticando poi di spargerlo nell’atmosfera, e fra i fumi
dell’alcool erano pure sprofondati in un sonno duraturo. I ciclisti non
credevano ai propri occhi. Erano diventati padroni del tempo ed avevano
l’occasione di tornare a Firenze con tale potere temporale ancora intatto. Si
lanciarono in discesa, già pregustando qualche vincita miliardaria al Super
Enalotto ed a metà strada il re decise che quest’evento meritasse
un’adeguata celebrazione. Si fermarono perciò in una locanda governata da un
uomo senza barba che diceva d’essere un gregario di Coppi, per pasteggiare a
pandoro e spumante. Il pandoro, scelto dal re, era etimologicamente coerente al
proprio nome. Costava infatti quanto un chilo di pane d’oro massiccio. I tre
magi, che erano abituati a correre freneticamente dietro le stelle senza mai
scendere dalla bicicletta, rimasero piacevolmente allibiti davanti a tanta
magnificenza. Gli otto calici di spumante tintinnarono lietamente e tutti
brindarono al futuro radioso ignari dell’insidia che si celava fra quelle
bollicine. Anch’essi infatti stavano bevendo spumante addizionato col gas
obliante dei monaci e il gregario di Coppi, rasato per mantenere l’incognito,
era in realtà uno di loro che fungeva da ultimo baluardo a guardia dei segreti
del tempo, bloccando con le irresistibili lusinghe del suo locale (per attrarre
i clienti lo aveva intitolato ad una vecchia gloria dei quiz di Mike Bongiorno)
la fuga dei pellegrini troppo memoriosi.
Finì così, come le altre volte, che tutti tornarono sulle rive dell’Arno senza ricordarsi niente del monte Senario. Erano comunque decisi a ripetere quest’affascinante sfida contro il tempo e si lasciarono con l’appuntamento al 2002, ugualmente felici e contenti.